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URBANISTICA: Nuova nozione di ristrutturazione non ha portata retroattiva.

L’art. 38 del DPR 6 giugno 2001, n. 380, prevede che in caso di annullamento del permesso, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria.

Nella specie, l’annullamento dei titoli edilizi è avvenuto non per vizi procedimentali, ma per vizi sostanziali non emendabili, ovvero perché è stato autorizzato un intervento edilizio di nuova costruzione che non poteva essere realizzato in quanto in contrasto con uno specifico divieto dello strumento urbanistico ed in violazione delle distanze.

In particolare è stato accertato che l’intervento non costituiva una ristrutturazione, ma una nuova costruzione avente una configurazione planivolumetrica diversa rispetto all’edificio demolito e successivamente ricostruito, vietata dall’art. 35 delle norme tecniche di attuazione allegate al piano regolatore, che non consente incrementi di volume nella zona B1.

La fattispecie rientra pertanto entro la categoria di opere che la giurisprudenza è ferma nel ritenere non sanabili, perché l’art. 38 deve essere interpretato nel senso della non ammissibilità dell’effetto sanante per vizi che non sono in alcun modo riconducibili all’espressione “vizi delle procedure amministrative” alle quali si riferisce espressamente la norma, ma a vizi sostanziali non emendabili (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 15 giugno 2016, n. 2631; Consiglio di Stato, sez. VI, 9 maggio 2016, n. 1861; Consiglio di Stato, Sez. IV, 21 ottobre 2013, n. 5115; Tar Veneto, Sez. II, 26 gennaio 2015, n. 69; Corte Costituzionale, 11 giugno 2010, n. 209).

Censura di difetto di motivazione in merito alla mancata applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria.

La giurisprudenza, ha precisato che è l’irrogazione della sanzione pecuniaria ad essere subordinata ad una motivata valutazione del dirigente del competente ufficio comunale, da assumere previa adeguata istruttoria, e che l’obbligo di un’espressa motivazione è pertanto circoscritto alle sole ipotesi in cui occorre giustificare il ricorso all’opzione residuale dell’irrogazione delle sanzioni pecuniarie (ex pluribus cfr. Tar Abruzzo, Pescara, Sez. I, 26 maggio 2016, n. 195; Tar Veneto, Sez. II, 21 aprile 2016, n. 417; Tar Campania, Napoli, Sez. VIII, 10 marzo 2016 n. 1397; Tar Molise, 29 gennaio 2016 n. 39; Consiglio di Stato, Sez. VI, 27 aprile 2015 n. 2137), perché la fiscalizzazione dell’abuso edilizio può essere applicata nelle sole ipotesi in cui soltanto una parte del fabbricato risulti abusiva e nel contempo risulti obiettivamente verificato che la demolizione di tale parte esporrebbe a serio rischio la residua parte legittimamente assentita.

Premesso che è onere del privato allegare elementi utili far risultare quantomeno verosimile un’oggettiva impossibilità della riduzione in pristino (cfr. Tar Molise, 29 gennaio 2016, n. 39; Tar Veneto, Sez. II, 21 aprile 2016, n. 417; Tar Campania, Napoli, Sez. II, 6 giugno 2014, n. 5716; Tar Campania, Napoli, Sez. VIII, 4 settembre 2015, n. 4289), la censura circa la mancata applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria deve pertanto essere respinta.

Quanto alla dedotta mancata valutazione dell’aspettativa ingenerata in capo alla ricorrente a seguito del rilascio dei titoli edilizi annullati, va osservato che in realtà è la ratio della disposizione di cui all’art. 38 del DPR 6 giugno 2001, n. 380, ad essere ispirata alla tutela di quanti vengano colpiti da un’abusività sopravvenuta che nella specifica considerazione del legislatore si traduce nella previsione di una forma di tutela – ove possibile e al ricorrere delle condizioni prestabilite – dell’affidamento riposto dall’autore dell’intervento sulla presunzione di legittimità e comunque sull’efficacia del titolo assentito.

Ciò non implica tuttavia che l’Amministrazione, in sede di applicazione della norma, debba farsi carico della tutela dell’aspettativa dell’interessato, dato che deve limitarsi ad applicare la stessa entro i confini ed i presupposti delineati dal legislatore.

La nuova nozione di ristrutturazione di cui all’art. 30 del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito in legge 9 agosto 2013, n. 98.

La nuova nozione di ristrutturazione, nell’eliminare l’obbligo del rispetto della sagoma strutturale preesistente “non ha portata retroattiva in tanto in quanto dà luogo ad una diversa composizione funzionale del concetto di ristrutturazione si da ampliarne, in modo del tutto nuovo, il contenuto materiale” e “si può poi escludere che tale norma statale proprio per evidenti ragioni lessicali, assuma le caratteristiche di interpretazione autentica”, atteso che la disposizione (cfr. Tar Marche, Sez. I, 9 ottobre 2014, n. 880) “non ha introdotto norme di condono né di sanatoria edilizi e non è suscettibile di applicazione a fattispecie antecedenti alla sua entrata in vigore, non essendo munita di efficacia retroattiva”.

Altre sentenze in materia di Urbanistica

Si veda anche: Codice di Urbanistica e edilizia agg. e coordinato con Dottrina e Giurisprudenza

Pubblicato il 24/07/2018

N. 00824/2018 REG.PROV.COLL.

N. 00273/2017 REG.RIC.

N. 00714/2016 REG.RIC.

REPUBBLICA ITALIANA

IN NOME DEL POPOLO ITALIANO

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto

(Sezione Seconda)

ha pronunciato la presente

SENTENZA

sul ricorso numero di registro generale 273 del 2017, proposto da
Dali’ S.r.l., rappresentata e difesa dall’avvocato Filippo Caprara, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso il suo studio in Verona, piazza Renato Simoni n. 38;

contro

Comune di Legnago, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Mario Bertolissi e Giuseppe Bergonzini, con domicilio digitale come da pEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Eliana Bertagnolli in Mestre, via Fapanni n. 46, Interno 1;

nei confronti

Antonio Rettondini, Flavio Rettondini e Giovanni Sandrini, rappresentati e difesi dagli avvocati Filippo Borelli, Stefano Zaghi e Antonio Sartori, con domicilio digitale come da pEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Venezia, San Polo 2988;

 

sul ricorso numero di registro generale 714 del 2016, proposto da
Dali’ S.r.l., rappresentata e difesa dall’avvocato Filippo Caprara, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso la Segreteria T.A.R. Veneto in Venezia, Cannaregio 2277/2278;

contro

Comune di Legnago, in persona del Sindaco pro tempore, rappresentato e difeso dagli avvocati Mario Bertolissi e Giuseppe Bergonzini, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio Eliana Bertagnolli in Venezia- Mestre, via Fapanni, 46 Int. 1;

nei confronti

Antonio Rettondini, Flavio Rettondini e Giovanni Sandrini rappresentati e difesi dagli avvocati Stefano Zaghi, Filippo Borelli e Antonio Sartori, con domicilio digitale come da PEC da Registri di Giustizia e domicilio eletto presso lo studio di quest’ultimo in Venezia, San Polo, 2988;

per l’annullamento

A) quanto al ricorso n. 273 del 2017:

del provvedimento del Comune di Legnago prot. 47271 del 15/12/2016 ex art. 31 co. 3 – 4 DPR 6.6.2001 n. 380.

B) quanto al ricorso n. 714 del 2016:

dell’ordinanza del provvedimento del Comune di Legnago n. 92 del 21/3/2016 ex art. 38 DPR 6/6/2001 n. 380.

 

Visti i ricorsi e i relativi allegati;

Visti gli atti di costituzione in giudizio del Comune di Legnago e di Antonio Rettondini e di Flavio Rettondini e di Giovanni Sandrini;

Visti tutti gli atti della causa;

Relatore nell’udienza pubblica del giorno 5 luglio 2018 il dott. Stefano Mielli e uditi per le parti i difensori come specificato nel verbale;

Ritenuto e considerato in fatto e diritto quanto segue.

FATTO

La Società ricorrente ha realizzato nel centro storico del Comune di Legnago un complesso intervento di ristrutturazione edilizia che ha interessato due porzioni diverse, est ed ovest, di un palazzo.

La porzione sul lato ovest è stata interessata da un intervento di parziale demolizione, ampliamento e sopraelevazione beneficiando delle disposizioni di cui alla legge regionale 8 luglio 2009, n. 14.

La porzione sul lato est è stata interessata da degli interventi di ristrutturazione mediante demolizione e ricostruzione.

Dei vicini hanno impugnato i titoli edilizi rilasciati con ricorso straordinario al Capo dello Stato ottenendone l’annullamento disposto con DPR 31 ottobre 2011 e DPR 26 agosto 2015 (con quest’ultima decisione è stato respinto il ricorso per revocazione della prima decisione).

In estrema sintesi va evidenziato che l’annullamento è stato disposto perché la porzione sul lato ovest è stata ricostruita senza rispettare il volume e la sagoma originaria (vi è una diversa configurazione planivolumetrica con l’aggiunta di due piani arrivando ad un’altezza di circa diciotto metri contro i circa dodici dello stato di fatto originario) ed in violazione delle distanze (la sopraelevazione dell’edificio all’interno del cortile sopravanza di alcuni centimetri la proprietà dei vicini), con la conseguenza che l’intervento, dovendo essere qualificato come di nuova costruzione, è in contrasto con uno specifico divieto previsto dallo strumento urbanistico generale per la zona territoriale omogenea in cui ricade l’immobile.

Successivamente il Comune si è posto il problema dell’eventuale rilascio di un permesso di costruire ai sensi dell’art. 38 del DPR 6 giugno 2001, n. 380, relativo agli interventi edilizi eseguiti in base al un permesso annullato.

Come è noto tale norma prevede che in caso di annullamento del permesso, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria.

Sulla base di tale norma il Comune, ritenendo che relativamente alla porzione sul lato est non fossero riscontrabili vizi di carattere sostanziale, ha rilasciato il permesso di costruire n. 2012/0530 prot. n. 23618 del 3 settembre 2012.

Tale permesso di costruire è stato impugnato dai vicini con ricorso straordinario al Capo dello Stato trasposto in sede giurisdizionale.

Con sentenza Tar Veneto, Sez. II, 6 febbraio 2014, n. 150, il relativo ricorso è stato accolto con conseguente annullamento del titolo edilizio rilasciato ai sensi dell’art. 38 del DPR 6 giugno 2001, n. 380.

Avverso tale sentenza pende appello al Consiglio di Stato di cui al r.g. n. 6048 del 2014.

Per quanto riguarda la porzione sul lato ovest il Comune con ordinanza n. 92 del 21 marzo 2016 ha ordinato alla Società ricorrente di riportare l’immobile alla situazione anteriore ai titoli edilizi definitivamente annullati con forza di giudicato a seguito dell’accoglimento del ricorso straordinario al Capo dello Stato, con l’esclusione della parte relativa al lato est (per la quale è stato rilasciato il permesso di costruire annullato in primo grado dal Tar con sentenza avverso la quale pende l’appello al Consiglio di Stato), ed esclusione della scala esterna e del ballatoio comune.

Con il ricorso r.g. n. 714 del 2016 in epigrafe indicato tale ordinanza di riduzione in pristino è impugnata con due motivi.

Con il primo motivo la parte ricorrente lamenta la violazione dell’art. 38 del DPR 6 giugno 2001, n. 380, e il difetto di motivazione.

Sotto il primo profilo deduce che in tal modo il Comune contraddice la ratio del citato art. 38 che è quella di favorire la conservazione dei lavori eseguiti in base ad un titolo edilizio annullato e tutelare l’affidamento ingenerato in capo a chi ha eseguito le opere edilizie in base a tale titolo, e contesta altresì che non è stato neppure valutato l’eventuale pregiudizio al corpo scala esterno e al ballatoio comune che deriverebbe dall’eventuale demolizione.

Sotto il secondo profilo afferma che il Comune non ha sufficientemente motivato le ragioni per le quali non ha ritenuto di applicare tale norma emendando la procedura dai vizi riscontrati dalla pronuncia che ha accolto il ricorso straordinario al Capo dello Stato, limitandosi ad illustrare le ragioni per le quali non ha ritenuto accoglibili le osservazioni presentate in merito all’applicabilità della disciplina prevista dalla legge regionale sul piano casa relativa alla nozione di ristrutturazione edilizia, che ammette anche modifiche alla sagoma, e alla c.d. tolleranza di cantiere.

Inoltre la parte ricorrente afferma che non può essere ritenuto rilevante un limitato sormonto della proprietà dei vicini di soli 13 cm, che corrispondono peraltro ad un preesistente muro perimetrale, con la conseguenza che in luogo della misura ripristinatoria avrebbe dovuto applicarsi la sanzione pecuniaria.

Con il secondo motivo sostiene che l’unico motivo per il quale è stato accolto il ricorso straordinario è l’impossibilità di qualificare l’intervento come ristrutturazione a causa della difformità dalla sagoma precedente, ma deve trovare applicazione la nuova nozione della stessa prevista dal decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito in legge 9 agosto 2013, n. 98, che ammette la qualificazione come ristrutturazione anche degli interventi che comportano una modifica della sagoma, in quanto la Corte Costituzionale con ordinanza n. 35 del 12 marzo 2013, ha stabilito che la nuova nozione di ristrutturazione comporta la conservazione degli interventi edilizi antecedenti all’innovazione normativa, e quindi tale nuova qualificazione deve trovare applicazione con effetto sanante anche con riguardo all’intervento in esame.

Si sono costituiti in giudizio il Comune di Legnago e i controinteressati, replicando alle censure proposte e concludendo per la reiezione del ricorso.

I controinteressati hanno altresì eccepito l’inammissibilità del ricorso perché, in esecuzione del giudicato formatosi a seguito dell’accoglimento del ricorso straordinario al Capo dello Stato, il provvedimento impugnato costituisce un atto strettamente vincolato.

Con ordinanza n. 343 del 6 luglio 2016, è stata respinta la domanda cautelare.

Successivamente il Comune a seguito dell’inottemperanza della ricorrente all’ordine di demolizione con provvedimento prot. n. 47271 del 15 dicembre 2016, ha disposto l’acquisizione al patrimonio comunale delle opere edilizie realizzate.

Tale provvedimento è impugnato con ricorso r.g. n. 273 del 2017, con due motivi.

Con il primo articolato motivo la ricorrente lamenta innanzitutto la violazione dell’art. 31 del DPR 6 giugno 2001, n. 380, perché nell’ordinanza di riduzione in pristino manca l’avvertimento che in caso di inottemperanza si sarebbe proceduto all’acquisizione.

Con un’ulteriore censura deduce che manca inoltre nell’atto di acquisizione l’accertamento della misura dell’area acquisita, e che questa avrebbe dovuto essere limitata ai soli 13 cm di sormonto del muro di confine.

Nell’ambito del medesimo motivo sostiene che anche in questa sede è necessario tener conto della verificazione disposta dal Consiglio di Stato nel corso dell’esame del ricorso r.g. n. 6048 del 2014, pendente in appello avverso la sentenza Tar Veneto, Sez. II, 6 febbraio 2014, n. 150 che ha annullato il permesso di costruire rilasciato dal Comune ai sensi dell’art. 38 del DPR 6 giugno 2001, n. 380, relativamente alla porzione sul lato est dell’edificio, in cui si afferma che tutte le opere eseguite (anche quelle sul lato ovest) sono conformi alla disciplina urbanistico edilizia vigente.

Con il secondo motivo la ricorrente lamenta la violazione degli artt. 36 e 38 del DPR 6 giugno 2001, n. 380, per illegittimità derivata dalle ragioni di illegittimità già formulate avverso l’ordinanza di rimessione in pristino.

Infine la ricorrente chiede sia disposta una consulenza tecnica d’ufficio per accertare sia l’esatto oggetto della demolizione, sia il pregiudizio strutturale per il corpo scala, sia infine la difformità o meno della sporgenza di 13 cm sulla proprietà dei vicini rispetto alla costruzione precedente.

Si sono costituiti in giudizio il Comune e i controinteressati chiedendo la reiezione delle censure proposte.

Con ordinanza n. 159 del 31 marzo 2017, è stata accolta la domanda cautelare.

Alla pubblica udienza del 5 luglio 2018, i ricorsi sono stati trattenuti in decisione.

DIRITTO

Disposta la riunione dei ricorsi soggettivamente ed oggettivamente connessi ai sensi dell’art. 70 cod. proc. amm., deve essere esaminata l’eccezione preliminare con la quale i controinteressati sostengono che il ricorso r.g. n. 714 del 2016 è inammissibile perché l’ordinanza di ripristino costituisce atto vincolato rispetto al giudicato formatosi a seguito dell’accoglimento del ricorso straordinario al Capo dello Stato che ha annullato i titoli edilizi in base ai quali era stato realizzato l’intervento edilizio.

L’eccezione non può essere accolta, perché la Società ricorrente contesta la sussistenza stessa dei presupposti su cui si deve fondare l’ordinanza di ripristino, e pertanto la qualificazione del provvedimento impugnato come atto vincolato, che sottende la sussistenza di tutti i relativi presupposti in fatto e diritto, attiene al merito delle censure proposte.

Nel merito il ricorso r.g. n. 714 del 2016, è infondato e deve essere respinto.

Con il primo motivo la ricorrente lamenta la violazione dell’art. 38 del DPR 6 giugno 2001, n. 380, relativo agli atti da adottare relativamente alle costruzioni realizzate a seguito di un titolo edilizio annullato, che avrebbe dovuto trovare applicazione, secondo la prospettazione proposta, in luogo dell’ordinanza di remissione in pristino.

La norma prevede che in caso di annullamento del permesso, qualora non sia possibile, in base a motivata valutazione, la rimozione dei vizi delle procedure amministrative o la restituzione in pristino, il dirigente o il responsabile del competente ufficio comunale applica una sanzione pecuniaria.

La doglianza deve essere respinta, perché l’annullamento dei titoli edilizi è avvenuto non per vizi procedimentali, ma per vizi sostanziali non emendabili, ovvero perché è stato autorizzato un intervento edilizio di nuova costruzione che non poteva essere realizzato in quanto in contrasto con uno specifico divieto dello strumento urbanistico ed in violazione delle distanze.

In particolare è stato accertato che l’intervento non costituiva una ristrutturazione, ma una nuova costruzione avente una configurazione planivolumetrica diversa rispetto all’edificio demolito e successivamente ricostruito, vietata dall’art. 35 delle norme tecniche di attuazione allegate al piano regolatore, che non consente incrementi di volume nella zona B1.

La fattispecie rientra pertanto entro la categoria di opere che la giurisprudenza è ferma nel ritenere non sanabili, perché l’art. 38 deve essere interpretato nel senso della non ammissibilità dell’effetto sanante per vizi che non sono in alcun modo riconducibili all’espressione “vizi delle procedure amministrative” alle quali si riferisce espressamente la norma, ma a vizi sostanziali non emendabili (cfr. Consiglio di Stato, Sez. VI, 15 giugno 2016, n. 2631; Consiglio di Stato, sez. VI, 9 maggio 2016, n. 1861; Consiglio di Stato, Sez. IV, 21 ottobre 2013, n. 5115; Tar Veneto, Sez. II, 26 gennaio 2015, n. 69; Corte Costituzionale, 11 giugno 2010, n. 209).

Parimenti priva di fondamento è la censura di difetto di motivazione in merito alla mancata applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella demolitoria.

Infatti la giurisprudenza ha precisato che è l’irrogazione della sanzione pecuniaria ad essere subordinata ad una motivata valutazione del dirigente del competente ufficio comunale, da assumere previa adeguata istruttoria, e che l’obbligo di un’espressa motivazione è pertanto circoscritto alle sole ipotesi in cui occorre giustificare il ricorso all’opzione residuale dell’irrogazione delle sanzioni pecuniarie (ex pluribus cfr. Tar Abruzzo, Pescara, Sez. I, 26 maggio 2016, n. 195; Tar Veneto, Sez. II, 21 aprile 2016, n. 417; Tar Campania, Napoli, Sez. VIII, 10 marzo 2016 n. 1397; Tar Molise, 29 gennaio 2016 n. 39; Consiglio di Stato, Sez. VI, 27 aprile 2015 n. 2137), perché la fiscalizzazione dell’abuso edilizio può essere applicata nelle sole ipotesi in cui soltanto una parte del fabbricato risulti abusiva e nel contempo risulti obiettivamente verificato che la demolizione di tale parte esporrebbe a serio rischio la residua parte legittimamente assentita.

Pertanto nel caso di specie non era necessaria una specifica motivazione per disporre la demolizione.

Peraltro va anche osservato che dalla documentazione versata in atti non sono riscontrabili elementi idonei a dimostrare l’impossibilità di procedere alla riduzione in pristino o l’esigenza di conservazione dell’immobile tali da giustificare l’irrogazione della sanzione pecuniaria.

Premesso che è onere del privato allegare elementi utili far risultare quantomeno verosimile un’oggettiva impossibilità della riduzione in pristino (cfr. Tar Molise, 29 gennaio 2016, n. 39; Tar Veneto, Sez. II, 21 aprile 2016, n. 417; Tar Campania, Napoli, Sez. II, 6 giugno 2014, n. 5716; Tar Campania, Napoli, Sez. VIII, 4 settembre 2015, n. 4289), la censura circa la mancata applicazione della sanzione pecuniaria in luogo di quella ripristinatoria deve pertanto essere respinta.

Quanto alla dedotta mancata valutazione dell’aspettativa ingenerata in capo alla ricorrente a seguito del rilascio dei titoli edilizi annullati, va osservato che in realtà è la ratio della disposizione di cui all’art. 38 del DPR 6 giugno 2001, n. 380, ad essere ispirata alla tutela di quanti vengano colpiti da un’abusività sopravvenuta che nella specifica considerazione del legislatore si traduce nella previsione di una forma di tutela – ove possibile e al ricorrere delle condizioni prestabilite – dell’affidamento riposto dall’autore dell’intervento sulla presunzione di legittimità e comunque sull’efficacia del titolo assentito.

Ciò non implica tuttavia che l’Amministrazione, in sede di applicazione della norma, debba farsi carico della tutela dell’aspettativa dell’interessato, dato che deve limitarsi ad applicare la stessa entro i confini ed i presupposti delineati dal legislatore.

Nessun rimprovero può pertanto essere mosso al Comune per non aver valutato in modo specifico l’aspettativa ingenerata dal rilascio del titolo annullato.

Il primo motivo deve pertanto essere respinto.

Parimenti infondato è il secondo motivo, con il quale la ricorrente sostiene che la nuova nozione di ristrutturazione di cui all’art. 30 del decreto legge 21 giugno 2013, n. 69, convertito in legge 9 agosto 2013, n. 98, che qualifica come ristrutturazione anche gli interventi che comportano una modifica della sagoma, deve ritenersi applicabile anche agli interventi edilizi realizzati antecedentemente alla sua entrata in vigore perché un tale principio è stato affermato dall’ordinanza della Corte Costituzionale n. 35 del 12 marzo 2013.

In primo luogo va osservato che la questione è inconferente nel caso di specie.

Infatti l’accoglimento del ricorso straordinario è stato determinato non solo dall’impossibilità di qualificare come ristrutturazione l’intervento a causa della diversa sagoma dell’edificio realizzato a seguito della demolizione di quello precedente, ma anche per l’aumento del volume.

Poiché anche nella norma modificata, al fine di poter qualificare come ristrutturazione un intervento edilizio, permane il requisito della stessa volumetria di quello preesistente, è evidente che l’intervento realizzato che ha comportato la sopraelevazione di due piani e quindi un aumento di volume, non può essere qualificato come intervento di ristrutturazione, ma deve essere qualificato come intervento di nuova costruzione.

Il dato, chiaramente evincibile dalla documentazione versata in atti, può essere agevolmente desunto anche dalle conclusioni della seconda verificazione disposta dal Consiglio di Stato in sede di appello avverso la sentenza Tar Veneto, Sez. II, 6 febbraio 2014, n. 150 (cfr. doc. 2 allegato alle difese dei controinteressati pagg. 13 e 14).

Inoltre per completezza va anche soggiunto che la tesi secondo cui alla nuova nozione di ristrutturazione avrebbe portata retroattiva è infondata.

Infatti la norma invocata, come condivisibilmente affermato in giurisprudenza (cfr. Tar Lombardia, Milano, Sez. II, ord. 5 novembre 2015 n. 2342) nell’eliminare l’obbligo del rispetto della sagoma strutturale preesistente “non ha portata retroattiva in tanto in quanto dà luogo ad una diversa composizione funzionale del concetto di ristrutturazione si da ampliarne, in modo del tutto nuovo, il contenuto materiale” e “si può poi escludere che tale norma statale proprio per evidenti ragioni lessicali, assuma le caratteristiche di interpretazione autentica”, atteso che la disposizione (cfr. Tar Marche, Sez. I, 9 ottobre 2014, n. 880) “non ha introdotto norme di condono né di sanatoria edilizi e non è suscettibile di applicazione a fattispecie antecedenti alla sua entrata in vigore, non essendo munita di efficacia retroattiva”.

Inoltre, contrariamente a quanto dedotto dalla parte ricorrente, è priva di rilievo l’ordinanza della Corte Costituzionale n. 35 del 12 marzo 2013.

Con tale ordinanza la Corte si è limitata a restituire gli atti al giudice a quo perché l’oggetto del giudizio era la legittimità costituzionale o meno della legge della Regione Lombardia rispetto alla norma statale, costituente parametro interposto del giudizio di costituzionalità, che ha subito modificazioni nelle more della definizione del giudizio, ma non ha sancito la retroattività della norma.

Anzi, il giudice a quo successivamente a questa ordinanza ha sollevato nuovamente la medesima questione proprio sul presupposto della non retroattività della norma sopravvenuta e la Corte Costituzionale con sentenza 20 ottobre 2016, n. 226, ha dichiarato l’incostituzionalità della norma regionale in ragione della non retroattività dello ius superveniens costituito dalla norma statale.

In definitiva il ricorso r.g. n. 714 del 2016 deve essere respinto.

Il ricorso r.g. n. 273 del 2017, con il quale è impugnato il provvedimento prot. n. 47271 del 15 dicembre 2016, con cui il Comune, a seguito dell’inottemperanza della ricorrente, ha disposto l’acquisizione al patrimonio disponibile delle opere edilizie abusivamente realizzate, deve parimenti essere respinto.

In particolare non può essere accolta la doglianza proposta nell’ambito del primo motivo con la quale la parte ricorrente si duole della mancata indicazione nell’ordinanza di demolizione dell’avvertimento che, in caso di inadempimento, il Comune avrebbe proceduto ad acquisire l’immobile al proprio patrimonio.

Si tratta infatti di un effetto di legge che non necessita di un’espressa menzione nel provvedimento per divenire operativo, e l’art. 31 del DPR 6 giugno 2001, n. 380, non prevede un tale obbligo.

L’ulteriore tesi proposta nell’ambito del primo motivo secondo la quale doveva essere acquisita solo la porzione dell’edificio che sovrasta di 13 cm la proprietà dei vicini è anch’essa priva di fondamento.

Infatti i titoli edilizi in base ai quali è stato realizzato l’immobile all’esito dei ricorsi straordinari al Capo dello Stato non sono stati annullati solo per questo profilo, ma anche perché l’intervento edilizio che è stato assentito relativamente alla porzione sul lato ovest nel suo complesso è qualificabile come di nuova costruzione non ammessa dallo strumento urbanistico.

Ne discende che, contrariamente a quanto dedotto, l’acquisizione non può che riguardare l’intero immobile oggetto dell’ordinanza di demolizione.

Parimenti infondata è anche la censura, proposta sempre nell’ambito del primo motivo, di mancata indicazione dell’immobile da acquisire e di omessa motivazione in ordine all’estensione dell’area di sedime.

Infatti il provvedimento impugnato limita l’acquisizione alla misura minima con riguardo all’immobile abusivo e alla relativa area di pertinenza di cui sono indicati in modo puntuale gli estremi catastali con allegata un’apposita planimetria.

Ne consegue che il Comune non aveva l’obbligo di offrire ulteriori motivazioni, necessarie solo nell’ipotesi, qui non ricorrente, di acquisizione di aree in misura maggiore a quella minima (cfr. Tar Campania, Napoli, Sez. II, 12 giugno 2017 n. 3136).

Priva di fondamento è anche la censura contenuta sempre nell’ambito del primo motivo volta a valorizzare la prima verificazione disposta dal Consiglio di Stato nel giudizio di appello di cui al ricorso r.g. n. 6048 del 2014, avente ad oggetto la sentenza Tar Veneto, Sez. II, 6 febbraio 2014, n. 150.

Infatti la prima verificazione è stata giudicata non attendibile, e con ordinanza n. 3790 del 15 giugno 2017 ne è stata disposta un’altra le cui conclusioni convergono nell’affermare che non può essere definito come ristrutturazione un intervento edilizio che ha comportato un aumento di volume (cfr. il già citato doc. 2 allegato alle difese dei controinteressati pagg. 13 e 14).

Il primo motivo del ricorso r.g. n. 273 del 2017 deve pertanto essere respinto.

Quanto esposto in relazione al ricorso r.g. n. 714 del 2016, comporta anche la reiezione delle censure di illegittimità derivata riproposte con il secondo motivo.

In tale contesto l’istanza di svolgere una consulenza tecnica d’ufficio avanzata dalla parte ricorrente deve essere respinta, perché, come è noto, tale strumento istruttorio non è destinato ad esonerare la parte dalla prova dei fatti dalla stessa dedotti e posti a base delle proprie richieste, ma ha la funzione di fornire all’attività valutativa del giudice l’apporto di cognizioni tecniche non possedute (ex pluribus cfr. Consiglio di Stato, Sez. IV, 26 aprile 2018, n. 2506), e la parte ricorrente non ha assolto all’onere probatorio sulla stessa incombente.

Per completezza deve anche essere precisato che le argomentazioni spese dalla parte ricorrente, soprattutto nelle memorie, volte a dimostrare la legittimità originaria dei titoli edilizi in base ai quali è stata realizzata la porzione sul lato ovest devono essere considerate inammissibili, perché mirano in realtà a contestare questioni già coperte dal giudicato formatosi sui ricorsi straordinari al Capo dello Stato che hanno definitivamente annullato quei titoli.

In definitiva anche il ricorso r.g. n. 273 del 2017, deve essere respinto.

Per il principio della soccombenza le spese di giudizio sono poste a carico della parte ricorrente e sono liquidate nella misura indicata nel dispositivo.

P.Q.M.

Il Tribunale Amministrativo Regionale per il Veneto (Sezione Seconda), definitivamente pronunciando, previa riunione, sui ricorsi in epigrafe, li respinge.

Condanna la parte ricorrente alla rifusione delle spese di giudizio in favore del Comune di Legnago e dei controinteressati liquidandole nella somma di € 3.000,00 per ciascuna parte a titolo competenze e spese oltre ad iva e cpa.

Ordina che la presente sentenza sia eseguita dall’autorità amministrativa.

Così deciso in Venezia nella camera di consiglio del giorno 5 luglio 2018 con l’intervento dei magistrati:

Stefano Mielli, Presidente FF, Estensore

Daria Valletta, Referendario

Mariagiovanna Amorizzo, Referendario

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