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di Carlo Rapicavoli – La decisione del Presidente della Repubblica di “non decidere” sulla formazione del nuovo Governo e di individuare due gruppi di lavoro, composti da “personalità tra loro diverse per collocazione e per competenze” ha suscitato diverse obiezioni e grandi perplessità.

Molto si è detto e scritto anche sulle “personalità” individuate dal Presidente.

Ci limitiamo ad alcune considerazioni.

La prima: l’incapacità dei partiti politici e la loro sostanziale, forse temporanea, delegittimazione.

Dal comunicato del Presidente si chiarisce che obiettivo di tali gruppi di lavoro è di “formulare – su essenziali temi di carattere istituzionale e di carattere economico-sociale ed europeo – precise proposte programmatiche che possano divenire in varie forme oggetto di condivisione da parte delle forze politiche”.

E, spiega il Presidente, si è giunti a tale decisione in quanto “gli incontri svoltisi in Quirinale con i rappresentanti delle forze politiche presenti in Parlamento mi hanno permesso di accertare la persistenza di posizioni nettamente diverse rispetto alle possibili soluzioni da dare al problema della formazione del nuovo governo”.

I partiti, dunque, non riescono ad esercitare qualsivoglia mediazione politica, arroccati in posizioni inconciliabili che hanno condotto ad una situazione di stallo.

Non riescono a dialogare per trovare posizioni programmatiche comuni e condivisibili, seppure con argomentazioni diversificate ma tutte per non disperdere il consenso e per un immediato tornaconto elettorale, presupponendo un rapido ritorno alle urne.

Dunque i “saggi” dovrebbero riuscire dove non possono o non vogliono i dirigenti di tutte le formazioni politiche presenti in parlamento: formulare proposte programmatiche condivise.

Di cosa si tratta?

I “saggi” redigeranno il programma del futuro Governo?

L’attuale o il futuro Presidente della Repubblica affideranno al nuovo Presidente del Consiglio incaricato un mandato programmatico definito? E il ruolo del Presidente del Consiglio?

Oppure i “saggi” sono incaricati di svolgere un ennesimo giro di consultazioni dopo l’infruttuosità di quelle svolte finora? E perché mai i “saggi” dovrebbero trovare quella mediazione che non riescono a trovare i dirigenti di partito?

Non v’è dubbio che si tratta di un inedito per la nostra storia Repubblicana di cui è impossibile trovare traccia nella prassi costituzionale, tanto più che, ovviamente, manca un ruolo istituzionale definito per tali gruppi.

Probabilmente si tratta di un modo individuato dal Quirinale per tentare di far decantare le tensioni politiche, rinviando ogni decisione sul futuro Governo ad una fase successiva agli inevitabili accordi/scontri che si avvieranno nei prossimi giorni in vista della imminente scadenza del 15 aprile per la convocazione del Parlamento in seduta comune e integrata dai rappresentanti delle Regioni per l’elezione del nuovo Presidente della Repubblica.

A tutte le questioni aperte potrà essere data una prima risposta solo dopo aver capito e circoscritto meglio il ruolo che il Presidente della Repubblica intende attribuire ai due gruppi.

La seconda considerazione, ancora più carica di questioni giuridiche e costituzionali: il ruolo del Governo Monti.

Il Presidente della Repubblica ha tenuto a sottolineare un aspetto: “non può sfuggire agli italiani e all’opinione internazionale che un elemento di concreta certezza nell’attuale situazione del nostro paese è rappresentato dalla operatività del governo tuttora in carica, benché dimissionario e peraltro non sfiduciato dal Parlamento”.

Va ricordato che il Governo Monti ha rassegnato le dimissioni il 21 dicembre 2012, a conclusione dell’iter parlamentare di esame e di approvazione della legge di stabilità e del bilancio di previsione dello Stato, già preannunciate come irrevocabili secondo quanto risulta dal comunicato diramato dal Quirinale l’8 dicembre.

Il Presidente della Repubblica ha preso atto delle dimissioni e ha invitato il governo a rimanere in carica per il disbrigo degli affari correnti.

Inoltre, a seguito delle elezioni, si è modificata sostanzialmente la composizione e la rappresentanza dei vari gruppi politici in Parlamento.

Qualche osservazione di carattere costituzionale.

È necessario tener presente tre articoli della Costituzione, il 92, il 93 e il 94, che segnano le tappe dell’iter giuridico per la formazione del Governo.

Il Governo è nominato dal Presidente della Repubblica (art. 92); prima di assumere le funzioni, il Presidente del Consiglio dei ministri e i Ministri prestano giuramento (art. 93); il Governo deve avere la fiducia delle due Camere (ari. 94).

La nomina è, quindi l’atto di nascita del Governo.

Essa produce tre effetti:

a) fa cessare l’attività del Governo preesistente, che sopravviveva, in forza del principio della continuità nel funzionamento degli organi costituzionali, alle dimissioni volontarie o alla revoca della fiducia;
b) impone ai Ministri l’onere di prestare il giuramento;
c) impone al Gabinetto l’onere di presentarsi alle Camere.

Ma perché il Governo possa svolgere pienamente le sue funzioni “deve avere la fiducia delle due Camere” come sancisce l’art. 94 della Costituzione.

Deve avere la fiducia. E l’attuale Governo non l’ha ottenuta.

E lo stesso art. 94 aggiunge: “Entro dieci giorni dalla sua formazione il Governo si presenta alle Camere per ottenerne la fiducia”.

A poco vale affermare che non è stato sfiduciato.

E’ dimissionario e non ha ottenuto la fiducia dal nuovo Parlamento che esprime maggioranze politiche del tutto diverse dal precedente.

Di fondamentale importanza è, quindi, nel nostro sistema la fiducia, essenziale perché il Governo nominato dal Presidente della Repubblica resti in vita; si tratta d’una relazione giuridica (rapporto fiduciario) che legittima il Governo a svolgere un certo ordine di funzioni che, senza l’investitura parlamentare, gli sarebbero inibite.

La fiducia è concessa sulla composizione del Governo e sul programma politico che non si esaurisce nella enunciazione dei singoli provvedimenti che il Governo intende adottare, ma è concessa sulla linea generale politica del Governo, che si realizza in direttive e provvedimenti di varia natura; essa rappresenta la base fondamentale entro la quale si riconducono non solo i disegni di legge annunciati, ma eventuali iniziative, prese di posizione a livello internazionale, in politica estera ed economica, che si possono prendere nel corso della vita governativa e parlamentare, non rigidamente prefigurabile.

Il conferimento della fiducia stabilisce, quindi, una relazione di omogeneità tra le Camere e il Governo, una forma permanente e attiva di collaborazione sulla base dell’indirizzo politico di maggioranza.

Prive di fondamento giuridico e costituzionale sono dunque le opinioni di quanti sostengono una “prorogatio sine die” dell’attuale Governo, del tutto incompatibile con il nostro sistema costituzionale.

Una scelta di tale tipo dovrebbe ottenere legittimazione attraverso la presentazione dell’attuale Governo dinnanzi alle Camere per ottenere la fiducia.

Oggi il Governo può occuparsi solo del “disbrigo degli affari correnti”.

Non esiste una definizione giuridica di “affari correnti”; in dottrina sono state espresse varie opinioni.

Il problema di fondo, al di là della legittimazione ad assumere un certo atto, è il pilastro su cui si regge una democrazia parlamentare: il rapporto fiduciario di cui non si può prescindere.

Terza considerazione: il ruolo delle Camere fino alla formazione del nuovo Governo.

Non v’è dubbio che il Parlamento si trova nella pienezza delle proprie funzioni legislative.

Può esercitarle nell’alveo di quanto chiaramente disposto dalle norme costituzionali e dai regolamenti parlamentari che hanno fondamento costituzionale.

Vanno incardinate le Commissioni, secondo quanto previsto dai Regolamenti, in modo che in ciascuna di esse sia rispecchiata la proporzione dei gruppi parlamentari già costituiti. “Ogni disegno di legge, presentato ad una Camera è, secondo le norme del suo regolamento, esaminato da una commissione e poi dalla Camera stessa, che l’approva articolo per articolo e con votazione finale”, sancisce l’art. 72 della Costituzione.

Ciò non toglie che ogni disquisizione sulla possibilità che si possa fare a meno di un governo nella pienezza delle sue funzioni, avanzata ormai da più parti, è una evidente aberrazione giuridica e costituzionale.

Basta ricordare che nel sistema parlamentare il Governo non è un organo meramente ricettivo, in stato di subordinazione rispetto al Parlamento; ha una propria autonomia istituzionale che si esercita attraverso azioni di coordinamento, d’impulso, dì direzione e di guida.

E’ il “Governo della Repubblica” come afferma l’art. 92 della Costituzione.

Ben venga la rivendicazione del ruolo e della centralità del Parlamento mortificata negli ultimi anni dal sistematico ricorso alla decretazione d’urgenza, anche in palese assenza dei requisiti di straordinarietà ed urgenza, per di più aggravati dalla corrispondenti conversioni in legge con questioni di fiducia.

Ma tale rivendicazione non può spingersi fino ad elaborare tesi fantasiose sulla presunta non indispensabilità di un governo nella pienezza delle sue funzioni.

Un ultima considerazione: il gruppo dei quattro “saggi” incaricato di occuparsi dei temi istituzionali.

Dopo la nomina sono iniziate le prime dichiarazioni: il sen. Mauro si è affrettato a dichiarare: “bisogna partire da ciò che tutti riteniamo necessario come, ad esempio, la modifica del titolo V della Costituzione presente in tutti i programmi elettorali. Ora non si capisce chi, tra Stato e Regioni, fa cosa”.

Se queste sono le premesse allora è facile pronosticare l’esito: ancora una volta si pensa si intervenire sulle autonomie anziché preoccuparsi della crisi evidente del sistema politico-istituzionale centrale.

Non si risponde all’indignazione dell’opinione pubblica con la controriforma del sistema regionale e con il ritorno al centralismo.

L’indignazione deriva dal malcostume politico, a qualunque livello si riscontri, non dalle autonomie.

Per questo continuiamo a ribadire che proprio in questa fase in cui si registra la evidente difficoltà della politica a svolgere il suo ruolo di interpretare e tradurre in azioni amministrative e di governo i bisogni della gente, occorre ripartire dai territori e dalle amministrazioni locali, quali sedi storiche e naturali di esercizio della democrazia partecipata, evitando il ritorno al centralismo statale.

Dai “saggi” è lecito almeno attendersi proposte organiche e di sintesi e non le facili proposte su cui raccogliere consenso prive di una seria analisi.

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