di Luca Palladini. Nella tarda mattina dell’11 febbraio u.s., Papa Benedetto XVI ha sorpreso l’intero mondo cattolico annunciando di volersi dimettere dal proprio ministero al quale è stato chiamato nel 2005. Il 28 febbraio 2013, alle ore 20, pertanto, la Sede apostolica sarà vacante e dovrà essere convocato il Conclave per la designazione del nuovo sommo Pontefice della Chiesa cattolica di Roma. Qui, sarà osservato il consueto iter di elezione, con l’unica differenza che non saranno rispettati – logicamente – i novendiali e, cioè, i tradizionali 9 giorni di lutto seguenti alla morte del Papa.
Ammettendo la difficoltà di amministrare adeguatamente il proprio ufficio ed, altresì, individuando il bisogno per la Chiesa di avere qualcuno che vi si possa dedicare con la necessaria forza (sia del corpo sia dell’anima), il vicario di Cristo in terra, dall’alto dei suoi quasi ottantasei anni, spiega di aver preso questa decisione in assoluta libertà.
Si viene a raffigurare, quindi, un contesto piuttosto insolito e difficile da definirsi. In epoca moderna, infatti, non si è mai assistito ad un evento simile, sebbene – è opportuno precisare – la storia (medievale) del papato includa diverse forme di rinuncia più o meno conosciute: dal primo caso, nel lontano 235, di Papa Ponziano; al famoso rifiuto di Celestino V; passando, poi, per l’ultimo esempio datato 1415, con Gregorio XII.
In realtà, come stabilito dal Libro II, “Il popolo di Dio”, del Codice di Diritto Canonico la rinuncia al ruolo di Pontefice – proprio perché trattasi di un ufficio e di un servizio – risulta un’eventualità normativamente ammissibile. Infatti, il canone 332, al secondo paragrafo, prevede espressamente che: “Nel caso in cui il Romano Pontefice rinunci al suo ufficio si richiede per la validità che la rinuncia sia fatta liberamente e che venga debitamente manifestata, non si richiede invece che qualcuno la accetti”. Si parla, dunque, di un atto libero, unilaterale e privo di alcuna forma di ratificazione od autorizzazione essendo il pontefice posto al vertice delle istituzioni della Chiesa. Inoltre, ai sensi del can. 188, tale atto, proprio perché libero, è da considerarsi nullo se fatto “per timore grave, ingiustamente incusso, per dolo o per errore sostanziale oppure con simonia”.
In verità, sul fronte dimissionario il vero rebus sembra riguardare il dopo-elezioni e, cioè, quale sarà l’esatto profilo giuridico di Benedetto XVI a partire da marzo. Saranno presenti due papi? Uno “legittimo” e l’altro “emerito”? Se il Papa è titolare di un potere che discende direttamente da Dio – si è detto – tale potere non potrebbe cessare se non per cause naturali e, pertanto, anche in seguito alla sua rinuncia, Joseph Ratzinger non potrà perdere né la dignità e la sacramentalità del suo essere Sovrano (emerito) dello Stato della Città del Vaticano né il titolo di “Sua Santità”.
È però opportuno evidenziare che, anche da un punto di vista logico, le dimissioni da una carica elettiva (come quella del Papa) determinano la necessaria perdita del titolo e dello status, sicché Benedetto XVI dal prossimo mese potrà essere considerato solo un vescovo – in questo caso, si, emerito – della Chiesa. Invero, sebbene l’emeritato sia noto alle norme della cattoliche tuttavia il diritto canonico non prevede che ci sia uno specifico ruolo per il Papa neo-dimesso né, altresì, contempla il particolare titolo di «Papa emerito». Giuridicamente, infatti, l’ufficio supremo del Papa è unico e, di conseguenza, sarebbe improprio ed a-tecnico parlare di “Papa emerito”.