di Luigi Oliveri –
Da 20 anni a questa parte non c’è stata riforma che non abbia, pezzo dopo pezzo, dissolto lo Stato. Una compulsione “liberista” ha preso in particolare la sinistra italiana, che ha attivato una serie infinita di correttivi all’organizzazione dello Stato in senso, a parole, liberale, senza mai nemmeno ottenere l’effetto proprio di una simile impostazione: la riduzione della presenza della pubblica amministrazione e la conseguente contrazione delle imposte.
Due soli esempi sono illuminanti. Il “federalismo” avrebbe dovuto semplificare le norme e le procedure, avvicinare la spesa ai cittadini ed il controllo democratico di essa, ridurre l’imposizione fiscale centrale a vantaggio di quella locale, più facilmente verificabile.
Non è avvenuto nulla di tutto ciò. Le imposte locali sono aumentate, insieme con quelle statali. Le competenze si sono completamente ingarbugliate, nulla risulta semplificato. Per altro, si sta per giungere al paradosso che quella spesa avvicinata ai cittadini, che i cittadini dovrebbero poter controllare e giudicare col voto, nell’ambito delle province verrebbe del tutto sottratta appunto al controllo dei cittadini: il disegno di riforma delle province le intende trasformare in enti di secondo livello, i cui rappresentanti non sono espressione dell’elezione diretta del corpo elettorale.
Un secondo esempio è il famigerato Durc. L’intento di controllare la regolarità contributiva e retributiva ha prodotto l’ennesimo mostruoso certificato; per comprendere quale fosse la durata della sua vigenza si è dovuto aspettare anni, nei quali solo circolari, direttive e prassi erano intervenute. Il Durc ha contribuito fortemente al ritardo nei pagamenti, perché costituisce ostacolo appunto ai pagamenti delle amministrazioni. Nessuno ha mai pensato di consentire banalissime compensazioni dei crediti di Inps, Inail e Casse edili. Nessuno, ancora, ha pensato di semplificare questo Moloch: il legislatore insiste a pensare che la semplificazione passi per la richiesta informatica. Occorre, invece, in obbedienza al principio dell’amministrazione aperta – che evidentemente per Inps e Inail non vale – l’accesso on line alla situazione aggiornata. Del Durc è paradossale osservare come Inps, Inail e Ministero del lavoro abbiano difeso col coltello tra i denti la non autocertificabilità, in risposta alla fallimentare norma anti certificati della fine del Governo Berlusconi.
Si è sfaldata la funzione legislativa, col Titolo V riformato disordinatamente distribuita tra Stato e regioni, così da far esplodere letteralmente il contenzioso davanti alla Corte costituzionale. Si è creato un mostruoso ibrido nell’ambito della gestione del rapporto di lavoro pubblico, che è stato “contrattualizzato”, cioè in buona parte soggetto alla regolamentazione normativa del diritto privato ed alla contrattazione collettiva. Col bel risultato di far crescere la spesa del personale pubblico, in soli 10 anni, di 40 miliardi, a causa della connivenza tra amministrazioni in cerca di facili consensi e sindacati. Che ora si stupiscono e si contrariano, se si prolunga il congelamento di retribuzioni, cresciute a ritmi insostenibili in pochissimo tempo.
Nella ricerca del “federalismo”, dell’applicazione della “common law” (si veda l’articolo di Giulio Sapelli su Il Messaggero del 12 agosto 2013 (Una riforma radicale per salvare la PA), il liberismo è stato solo scimmiottato malissimo e con pessimi risultati.
L’ultimo approdo, suggerito da Romano Prodi, ora sarebbe l’abolizione della giustizia amministrativa. E si è scatenata subito una campagna per far vedere quanto costano Tar e Consiglio di stato (230 milioni di euro, di cui 173 per le retribuzioni dei giudici) e per dimostrare quanto pervasiva sia la giurisdizione amministrativa, che si interessa di tutto, dalla pagella all’appalto per il Colosseo.
Il Sapelli ragiona, considerando felice quella Nazione nel quale il diritto amministrativo non esiste o, comunque, non condiziona l’acquisto dell’auto o garantisca che quando qualcuno compri un terreno, ciò che vi è sotto appartenga a lui e non allo Stato che, dunque, non deve assegnare concessione alcuna.
Peccato che questa tipologia di esempi non rientri per nulla nel diritto amministrativo, ma in quello privato. I beni mobili registrati, così come i diritti sul sottosuolo e tutto quel che riguarda la proprietà, sono regolati dal codice civile. Il diritto amministrativo subentra in modo solo incidentale, per regolare le funzioni amministrative che il codice civile crea, rendendo necessario un apparato che attenda alla regolazione della registrazione dei beni e delle concessioni d’uso dei terreni.
L’intervento del Sapelli dimostra come il dibattito aperto sia certamente interessante, ma “gestito” da chi evidentemente non ha corretta cognizione di ciò di cui si parla. Troppo spesso economisti e sociologi parlano di diritto senza averne le corrette cognizioni, mentre moltissimi dottori in giurisprudenza pensano di poter governare le discipline economiche e sociali, delle quali hanno ovviamente cognizioni solo sommarie.
L’idea di eliminare la giurisdizione amministrativa, se prima non si modifica radicalmente l’ordinamento giuridico, spostando tutto ciò che è “regolazione” verso la “contrattazione”, appare francamente assurda.
Si tenga presente che il contenzioso amministrativo non è certo generato dall’amministrazione. Esso è un sistema offerto ai cittadini per verificare la legittimità dell’azione amministrativa: una tutela indiretta alla pretesa che l’azione amministrativa rispetti i principi di legalità, efficienza, trasparenza, imparzialità.
Sono i cittadini che si rivolgono ai Tar: le vertenze non nascono per partenogenesi. Nell’analisi frettolosa ed avventurosa di Romano Prodi evidentemente è sfuggito che, aboliti i Tar e modificato l’assetto, il contenzioso amministrativo certo non sparirebbe. Diverrebbe contenzioso civile, con uno tsunami di nuove ed ulteriori vertenze riguardanti la regolazione di rapporti non più amministrativi, ma di diritto comune, tra cittadini e organi preposti al governo della cosa pubblica.
Con conseguenze probabilmente esiziali sull’efficienza, già piuttosto bassa, dei tribunali. L’esempio della giurisdizione sul lavoro pubblico dovrebbe costituire un monito. E’ stata assegnata ai giudici ordinari, creando un cortocircuito spesso devastante, con l’applicazione al lavoro pubblico di regole proprie del sistema privatistico e l’allungamento dei tempi, nonché un’incertezza operativa ed interpretativa inaccettabili.
Soluzioni radicali come quelle proposte da Prodi appaiono boutade, provocazioni fuori da contesti di profonde e serie riforme, che richiedono ponderazione ed anni. Il problema è che se si scatena la conseguente e facile propaganda di stampa, totalmente generica e pronta solo a segnalare gli aspetti populistici, qualcuno penserebbe di attuarla sul serio, simile riforma, in fretta, furia e solo allo scopo di intestarsene il merito, per ricevere onori da Stella e Rizzo e nei talk show televisivi.
Contribuendo, così facendo, all’ulteriore dissoluzione dello Stato, aumentando solo caos e spese, in una spirale infinita.
Non ci si rende conto che riformare non vuol dire sperare nel “colpo di genio”, isolato dal contesto, come si continua a fare da 20 anni, con i risultati sotto gli occhi di tutti.