di Carlo Rapicavoli –
Un vero e proprio appello a Governo e Parlamento per una riforma razionale degli Enti Locali è stato sottoscritto da 44 costituzionalisti.
L’iniziativa era stata già annunciata dal Presidente dell’UPI, Unione delle Province d’Italia, Antonio Saitta, in occasione di un convegno sul ruolo delle Province in Europa e ribadito in un incontro a Milano il 16 ottobre scorso.
Già nella relazione finale del 17 settembre 2013 della Commissione per le riforme costituzionali, nominata con DPCM 11 giugno 2013, dopo le conclusioni sul tema della riforma delle Province: “In relazione al travagliato tema delle Province, si è proposto di eliminare la parola “Provincia” dagli artt. 114 e segg. della Costituzione, abrogando conseguentemente il primo comma dell’art. 133. In questo senso, l’opinione prevalente della Commissione riflette sostanzialmente l’orientamento già emerso in ambito governativo che, nello stabilire la soppressione delle Province, demanda allo Stato (per i princìpi) e alle Regioni (per la loro attuazione) la disciplina dell’articolazione di enti di area vasta per la gestione e il coordinamento delle funzioni che insistono sul territorio regionale”, è stata introdotta una espressa riserva del Presidente emerito della Corte Costituzionale, Valerio Onida.
Queste le osservazioni del prof. Onida:
“Non concordo con la ipotesi della drastica totale soppressione delle Province in Costituzione.
Un livello di governo intermedio fra Comuni (tenendo conto della loro dimensione media comunque assai limitata) e Regione è indispensabile nelle Regioni di maggiori dimensioni.
I servizi e le funzioni di area vasta infraregionale (pianificazione urbanistica sovracomunale, gestione dei rifiuti e dell’ambiente, viabilità, trasporti automobilistici locali, assistenza tecnica ai Comuni, ecc.) non possono né essere frammentati a livello comunale, né accentrati a livello regionale.
La creazione di indeterminati “enti di area vasta” rischia di tradursi in una molteplicità scoordinata di enti funzionali.
Meglio un ente di governo unico e responsabile verso la popolazione sia dei capoluoghi che dei centri minori.
Invece della soppressione, andrebbe perseguito un processo di riordino e razionalizzazione delle Province esistenti, con riduzione del loro numero, in stretto collegamento con la parallela riorganizzazione territoriale dei servizi decentrati dello Stato.
Quanto alle Città Metropolitane, di cui dovrebbe essere accelerata la concreta istituzione come enti di governo elettivi e non semplici forme di collaborazione fra Comuni, con contemporanea soppressione della Provincia nella stessa area, non concordo con la tesi della attribuzione allo Stato del potere esclusivo di disciplinarle.
Le rilevanti differenze di fatto fra le diverse aree metropolitane, e la necessità di uno stretto collegamento con la Regione, richiedono l’attribuzione alle singole Regioni interessate del compito di disciplinarne ordinamento e funzioni secondo principi dettati dalla legge dello Stato”.
Adesso è stato redatto un documento articolato, che finalmente rende ragione a quanti, negli ultimi anni, hanno obiettato alla spinta demagogica verso la soppressione delle Province, argomenti di valenza giuridica e costituzionale, ma anche di razionalizzazione dell’organizzazione dello Stato.
Solo pochi giorni fa sono stati resi noti i dati riferiti alle società partecipate e agenzie varie di Stato, Regioni e Enti Locali: si apprende che sono circa 7.800; oltre 19.000 consiglieri di amministrazione; 15 miliardi solo di stipendi per oltre 300.000 addetti.
Eppure negli ultimi tre anni sembra che il problema sia rappresentato soltanto dalle Province.
Molte delle funzioni svolte dalle varie partecipate potrebbero essere gestite direttamente da Regioni, Province e Comuni, così sfoltendo immediatamente – senza alcuna necessità di riforme costituzionali – presidenti e consiglieri di amministrazione, non eletti dal popolo, ma nominati dalla politica, con risparmi che andrebbero ben oltre quelli che si immagina possano derivare dalla riforma voluta dal Ministro Delrio, anche se mai dimostrati.
L’UPI ha presentato due anni fa una propria proposta orientata verso la razionalizzazione delle Province e la soppressione di tutti gli enti intermedi, ma senza esito.
L’auspicio è che finalmente si possa avviare un dibattito serio e approfondito, anche grazie all’intervento di illustri giuristi, individuando davvero interventi organici ed efficaci di riforma.
Di seguito il testo del documento, come risulta dall’anticipazione pubblicata dalla Gazzetta di Sondrio, grazie al prof. Balboni dell’Università di Milano che risulta tra i firmatari.
“Per una riforma razionale del sistema delle autonomie locali
Il sovrapporsi disordinato di provvedimenti di “riforma” del sistema delle autonomie locali (sul destino delle Province, sull’istituzione delle Città metropolitane, sulla riduzione della frammentazione territoriale dei Comuni) lascia disorientati, sia quanto al merito delle politiche di riorganizzazione tentate, sia quanto alla loro legittimità costituzionale.
Siamo consapevoli che una radicata campagna di opinione vede con sospetto ogni ipotesi che venga rappresentata come di “conservazione” dell’esistente. Ma non possiamo sottrarci al dovere, scientifico prima che morale, di richiamare tutte le forze politiche e la società civile, le imprese, le forze intellettuali del nostro Paese ad una riflessione attenta e condivisa.
Quanto al destino delle Province – oltre a ricordare che la Corte costituzionale ha dichiarato la incostituzionalità (con la sentenza n. 220/13) dei confusi e contraddittori provvedimenti degli ultimi governi, perché approvati con atti di urgenza (decreti-legge) – riteniamo che non si possa comunque con legge ordinaria sopprimere le funzioni di area vasta delle Province e attribuirle a Regioni e Comuni, né trasformare gli organi di governo da direttamente a indirettamente elettivi, né rivedere con una legge generale gli ambiti territoriali di tutte le Province.
Non si possono, infatti, svuotare di funzioni enti costituzionalmente previsti e costitutivi della Repubblica (art. 114), né eliminare la diretta responsabilità politica dei loro organi di governo nei confronti dei cittadini, trasformando surrettiziamente la Provincia in un ente associativo tra i Comuni, mentre le funzioni da svolgere non sono comunali. Quanto alla revisione generalizzata degli ambiti territoriali provinciali, c’è il problema della compatibilità con il procedimento previsto dall’art. 133 Cost.
Aggiungiamo, peraltro, che perplessità suscita anche la strada della revisione costituzionale, intrapresa dal Governo all’indomani della ricordata pronuncia della Corte, con una iniziativa (A.C. n. 1543) volta alla soppressione-decostituzionalizzazione delle Province, poi seguita da un disegno di legge ordinario (A.C. 1542) volto a sottrarre alle Province la gran parte delle funzioni di area vasta, nonché da un opinabilissimo provvedimento di commissariamento fino a giugno 2014 di tutte le Province con organi in scadenza prima della prossima tornata elettorale-amministrativa (art. 12 del D. L. n. 93/13, ora A.C. n. 1540). Questa appare per molti versi una scorciatoia fonte di ulteriori complicazioni per il rischio di un mancato rispetto del principio autonomistico sancito in Costituzione.
In effetti, la soppressione delle Province potrebbe essere realizzata solo se le funzioni di area vasta, risultassero tutte attribuibili ai Comuni o alle Regioni. Ma queste funzioni, di cui tutti riconoscono l’esistenza e il necessario esercizio, sia quelle operative (viabilità, edilizia per l’istruzione secondaria, lavoro e formazione professionale, trasporti pubblici locali, gestione del ciclo dei rifiuti, protezione della natura e dell’ambiente), sia quelle di coordinamento (le pianificazioni con riflessi territoriali cioè le più rilevanti scelte di localizzazione) non sono attribuibili ai Comuni, che anzi sono in molti casi i principali destinatari delle scelte di area vasta operate nei loro confronti.
L’attribuzione delle funzioni di area vasta alle Regioni è, a sua volta, in contrasto con la configurazione costituzionale, non amministrativa e operativa, dell’ente regione, che dovrebbe invece qualificarsi essenzialmente come sede di scelte legislative e programmatorie, evitando di burocratizzarsi e di accentrare gestioni amministrative, oltretutto in contrasto con il principio di sussidiarietà.
La decostituzionalizzazione, che consisterebbe nella soppressione della parola Provincia in Costituzione, salvo a consentire alle Regioni di costituire con proprie leggi enti intermedi per svolgere le funzioni di area vasta – come di recente prospettato anche da opinioni espresse nell’ambito della “Commissione per le riforme costituzionali” – appare quindi assai opinabile, perché cade in una contraddizione evidente: se si riafferma l’esistenza di funzioni di area vasta (né comunali, né regionali), queste funzioni non possono essere attribuite ad enti di incerta e variabile natura (in qualche regione enti o uffici dipendenti, in altre enti locali a base associativa, in altre enti locali elettivi).
Occorre, invece, una garanzia generale dell’esistenza di enti locali “necessari” di area vasta per tutto il territorio nazionale (salvo forse il caso delle Regioni più piccole) di cui la Costituzione e la legge statale devono continuare a tracciare gli elementi di base, a partire dalle funzioni e dal carattere direttamente elettivo degli organi.
Nel contempo va ridotta drasticamente la miriade di enti e altri soggetti strumentali e di società a vario titolo costituite da Regioni e Enti locali, che complicano, spesso duplicano e comunque costano, sfuggendo anche al controllo democratico e alle garanzie che debbono offrire autonomie effettivamente responsabili.
L’affidamento eventuale di funzioni di area vasta ad enti o soggetti politici (burocratici o solo indirettamente elettivi), appare oltretutto, chiaramente in contrasto anche con l’articolo 3, comma 2, della Carta europea delle autonomie locali, trattato internazionale che vincola direttamente il nostro legislatore, anche ai sensi dell’art. 117, comma 1, Cost., costituendo altresì un parametro per il giudizio sulla costituzionalità delle leggi.
Sul versante delle Città metropolitane i provvedimenti adottati sono, se possibile, ancora più incerti e contraddittori, perché, da un lato, evitano di affrontare in modo adeguato sia il nodo essenziale (e preliminare) della determinazione degli ambiti territoriali metropolitani, sia la questione del riparto delle funzioni locali all’interno del sistema metropolitano; dall’altro, prefigurano forme di governo metropolitano assai deboli, con incarichi a titolo gratuito e peso determinante dei Comuni capoluogo, in contrasto con la necessità di dar vita ad un modello di governo differenziato, con un riequilibrio nei rapporti tra capoluogo e comuni contigui, in queste aree strategiche di forte conurbazione in cui risiede la maggioranza della popolazione italiana.
Quanto, infine, alla riduzione della frammentazione territoriale dei piccoli comuni, che rende del tutto virtuale la loro autonomia, se va di massima condivisa la soluzione – prevista anche nel ddl n. 1542 – della obbligatorietà di unioni polifunzionali dei piccoli comuni (sotto i cinquemila abitanti, ridotti a tremila nelle zone montane), in modo da realizzare gestioni associate più efficienti, incentivando al tempo stesso processi di fusione delle realtà comunali più frammentate, si deve per altro verso sottolineare che manca del tutto la previsione di una dimensione territoriale o demografica massima delle unioni, che devono servire a concretare e rafforzare l’autonomia dei Comuni, con funzioni e servizi di prossimità, evitando però che si trasformino in una sorta di Province o in enti di area vasta mascherati.
L’appello che rivolgiamo a chi ha responsabilità politiche è, quindi, il seguente: si cerchi di tracciare una linea di riforma delle autonomie locali condivisa ed efficace, con un approccio coerente e di sistema, senza strappi, senza operazioni di pura immagine, destinate a produrre danni profondi e duraturi sulla nostra democrazia locale.
A questo fine si deve sottolineare anzitutto l’urgenza di attuare finalmente in modo corretto il disegno di riassetto delle funzioni amministrative nel rispetto dei principi di sussidiarietà, differenziazione e adeguatezza sanciti nell’art. 118 Cost., approvando una Carta delle autonomie che sia la premessa per riorganizzare, semplificare e garantire effettive autonomie responsabili sul piano sia politico-amministrativo che finanziario, applicando anche in modo sistematico quanto previsto dall’art. 119 Cost. in ordine alla correlazione tra funzioni e risorse in base a standard oggettivi di fabbisogni e di costi (salve eventuali perequazioni).
Nel contempo vanno messe a fuoco le correzioni e integrazioni del Titolo V – tra le quali quelle volte a rafforzare la rappresentanza e la interlocuzione delle autonomie al centro e quelle volte a garantire, sia pure con opportuni filtri, l’accesso diretto delle autonomie locali alla Corte costituzionale – utili a realizzare il disegno autonomistico fondato sull’art. 5 Cost., prevedendo altresì norme transitorie volte ad assicurare tempestività di decisione e procedure condivise tra Stato e autonomie nel riassetto del sistema istituzionale e amministrativo.
In questa prospettiva, sul piano delle misure di carattere ordinamentale riguardanti le autonomie locali riteniamo in particolare prioritario:
– accelerare, in primo luogo, il processo di individuazione delle funzioni fondamentali di Comuni e Province (e Città metropolitane), tenendo conto anche del principio di “unicità” per la distribuzione delle funzioni (ad evitare la sovrapposizioni di compiti), nonché della distinzione tra funzioni di prossimità e di area vasta nel riassetto delle funzioni locali;
– mantenere alla legge statale la definizione degli elementi di base della Provincia (funzioni fondamentali, organi, elezione), salvo a riconoscere un ruolo maggiore alle Regioni: nell’attribuzione di nuove funzioni (ora accentrate a livello regionale o gestite da enti strumentali); nella determinazione di strumenti di raccordo interistituzionale infraregionale (al di là dei Consigli delle autonomie previsti dall’art. 123, ultimo comma, Cost.); nei procedimenti di revisione territoriale delle Province. A quest’ultimo proposito potrebbe essere riscritto (non soppresso) l’art. 133, primo comma, Cost., attribuendo alla Regione un ruolo di proposta in un procedimento di legge statale volto ad una revisione complessiva dei territori delle Province (con una loro significativa riduzione rispetto alla recente proliferazione) entro un tempo breve e certo;
– imporre, con norma transitoria, l’istituzione, entro un termine breve, delle Città metropolitane (che sostituiscono la Provincia nel loro territorio), anche con unica legge statale sugli organi di governo e sul riparto delle funzioni, salvo eventuali spazi per scelte statutarie differenziate per ciascuna Città;
– approvare norme statali di guida e stimolo alla revisione, necessariamente regionale, dei territori comunali, ricorrendo a forme associative “forti” (quanto a dimensioni minime e massime, a funzioni, a organi di governo, a fiscalità propria) o a processi di fusione che producano – entro tempi brevi e certi – il risultato della riduzione degli apparati amministrativi (e dei centri di spesa) comunali;
– ricondurre, in tempi brevi e certi, agli enti autonomi territoriali le funzioni amministrative attualmente esercitate dalla miriade di enti e società strumentali regionali e locali (pubblici o privati in controllo pubblico), in larga misura da sopprimere (semplificando e risparmiando non poco), anche perchè figli di una pessima concezione dell’autonomia politica degli enti territoriali, con scarsa trasparenza e controlli nelle gestioni e quindi anche fonti frequenti di sprechi e di fenomeni corruttivi”.
11 ottobre 2013
Gian Candido De Martin (Università Luiss Guido Carli – Roma)
Francesco Merloni (Università di Perugia)
Piergiorgio Alberti (Università di Genova)
Laura Ammannati (Università di Milano)
Enzo Balboni (Università Cattolica – Milano)
Luigi Benvenuti (Università di Venezia – Cà Foscari)
Mario Bertolissi (Università di Padova)
Raffaele Bifulco (Università Luiss Guido Carli – Roma)
Antonio Brancasi (Università di Firenze)
Maria Agostina Cabiddu (Politecnico di Milano)
Marcello Cecchetti (Università di Sassari)
Vincenzo Cerulli Irelli (Università di Roma Sapienza)
Omar Chessa (Università di Sassari)
Mario Pilade Chiti (Università di Firenze)
Pietro Ciarlo (Università di Cagliari)
Stefano Civitarese Matteucci (Univ.“G.D’Annunzio” Chieti – Pescara)
Guido Clemente di San Luca (II Università di Napoli)
Francesco Clementi (Università di Perugia)
Cecilia Corsi (Università di Firenze)
Gianfranco D’Alessio (Università di Roma Tre)
Mario Dogliani (Università di Torino)
Carlo Emanuele Gallo (Università di Torino)
Silvio Gambino (Università della Calabria)
Maria Immordino (Università di Palermo)
Aldo Loiodice (Università “Aldo Moro” di Bari)
Isabella Loiodoce (Università “Aldo Moro” di Bari)
Nicola Lupo (Università Luiss Guido Carli – Roma)
Stelio Mangiameli (Università di Teramo)
Guido Meloni (Università del Molise)
Ida Nicotra (Università di Catania)
Valerio Onida (Università di Milano)
Giorgio Pastori (Università Cattolica – Milano)
Aristide Police (Università di Roma Tor Vergata)
Ferdinando Pinto (Università di Napoli “Federico II”)
Alessandra Pioggia (Università di Perugia)
Andrea Piraino (Università di Palermo)
Paola Piras (Università di Cagliari)
Aldo Sandulli (Università S.Orsola Benincasa – Napoli)
Giovanni Serges (Università di Roma Tre)
Fabio Severo Severi (Università di Trieste)
Ernesto Sticchi Damiani (Università del Salento)
Vincenzo Tondi della Mura (Università del Salento)
Paolo Urbani (Università “G. D’Annunzio” Chieti – Pescara)
Mauro Volpi (Università di Perugia)