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RIFLESSIONI SULLA VIOLENZA.

Sergio Benedetto Sabetta

La violenza è insita nell’uomo in termini evolutivi come la collaborazione, il rapporto tra questi due opposti crea il successo – fitness sociale – o l’insuccesso dell’individuo o del gruppo.

La collaborazione d’altronde nasconde in sé il pericolo del parassitismo, dello sfruttamento, nasce quindi la necessità di una violenza repressiva calibrata in una regolamentazione giuridica che, nell’estendersi della complessità sociale, acquista una specializzazione sempre più spinta fino a sfumare il diritto in arbitrio, perdendo di vista la complessità dell’essere, sfogliato e frantumato in singoli aspetti in cui si esalta di volta in volta l’elemento che interessa, nel prevalere di un concetto economico-finanziario quale sublimazione della violenza fisica trasformata in una violenza psicologica, del tutto reale.

Già Sorel esalta la violenza come espressione della volontà fondata sul mito nella lotta fra classi, una violenza che è guerra fra classi nella distruzione della struttura sociale borghese esistente fondata di per sé sulla forza.

E’ il mito sociale che appassiona le masse e crea l’azione necessaria per la violenza sovvertitrice, non la violenza spicciola, singola, né l’utopia riformatrice permette un rinnovamento sociale profondo, in un discorso che vorrebbe superare i limiti dei rapporti sociali in cui la volontà agisce (1).

Vi è un richiamo alla volontà di potenza in cui il superuomo di Nietzsche diventa una comunità, la classe sociale lo identifica e lo alimenta nel mito, ma vi è un difficile equilibrio tra la volontà del singolo di superare i limiti che costumi, leggi e tradizioni impongono con la necessità dell’omeostasi che la società ricerca e necessita in un possibile divenire, nel sempre precario equilibrio della storia. (2).

Lo spezzare che la ricerca del superuomo impone è atto di violenza come lo è la forza repressiva che la società esercita nell’autoconservazione, la stessa violenza che si ritrova nei singoli rapporti familiari o di comunità semplici, è nella giustificazione della stessa violenza che nasce l’ambiguità della mistificazione.

Buber parla di conoscenza del bene e del male e della sua possibilità solo nel trovarsi in essa una antiteticità sempre latente in natura che irrompe nella realtà attuale.

La scelta a cui l’essere è obbligato può mancare a causa di una mistificazione quotidiana, l’indecisione diventa di per sé una “decisione a favore del male” nel negare l’esistenza dell’antiteticità in quella che Buber definisce “caoticità del possibile”.

Non è solo dal contrasto con il male che si rende riconoscibile il bene, è anche dal contrasto con la violenza che si rende riconoscibile il bene quale concordia, ma la decisione è quotidiana nel continuo dovere separare il ripetersi delle mescolanze di verità e inganno, una fatica continua che porta alla non decisione (3).

Ogni atto o pensiero umano quale parte della natura ha necessità della “forma”, di acquisire una visibilità giustificativa che viene a porsi in alternativa ad altre “forme”.

Essa nel momento del suo prodursi pretende (e nelle sfere puramente spirituali ancora più visibilmente che non in quelle economiche) una validità superiore” (4), che Simmel ritiene essere alla base del continuo conflitto tra vita e forma, ma la forma pone anche la giustificazione del suo essere e in questo si pone tra necessità e mistificazione.

Nietzsche nel parlare di “puntuazione di forza” richiama l’affermazione di Spinoza per cui l’esistenza è di per sé potenza, una potenza non omogeneamente distribuita che in quanto tale può diventare sopraffazione, violenza, ma anche all’opposto potere benefico (Kratos) necessario all’equilibrio della comunità, pertanto la forza è necessaria al potere ma non è di per sé arbitrio, lo diventa quale violenza dall’uso che se ne fa.

Il discrimine tra sopraffazione e governo benefico nasce anche dalla possibile mistificazione che giustifica l’uso della forza, l’ingannare, il nasconderne le finalità, il travisare, permette l’arbitrio che la violenza incarna, il peccato di onnipotenza di cui la violenza ne è espressione, la mistificazione diventa agguato, inganno quale possibile premessa nel giustificare la violenza stessa (5).

La violenza mina la società, diffonde nell’uso della mistificazione il sospetto e la sfiducia reciproca, come al contrario il giusto potere fornito della necessaria forza diventa “un principio di moderazione degli egoismi” (21- S. Natoli, Kratos: Potere e Società, Ed. Albo Versorio, 2015), nasce la necessità di interrogare in continuità il potere per evitare che diventi autocratico e che violenza debba opporsi a violenza.

La virtù relazionale della moderazione, considerata attualmente un difetto, nell’entrare nel potere pone la capacità etica di porsi nell’altro e riduce la necessità dell’obbligazione giuridica, a cui attualmente la società stessa continuamente si richiama nel cercare di superare i sempre presenti rapporti conflittuali, “quasi che l’aumento della legislazione producesse la virtù dei soggetti” (37, S. Natoli, Kratos: Potere e Società, Ed. Albo Versorio, 2015).

Non vi è nell’individuo una semplice successione di accadimenti ma la ricerca di un destino che crei una storia, una storicità dell’esserci, il modo di essere nel corso del tempo, vi è quindi un disvelarsi che può assumere i termini dell’atto o del pensiero violento, ossia della forma della violenza.

Così stando dentro all’evento l’individuo appartiene all’evento temporale, ma la violenza non può essere fine a se stessa e come tale deve essere giustificata unendola, mescolandola con il bene dell’individuo nella comunità, la violenza crea l’adesso, l’ora, rallenta lo scorrere del tempo, l’eterno ritorno dl pensiero al momento, essa diventa destino dell’Io (6).

Il racconto mistificatorio la giustifica, la fa diventare necessaria e consolatoria, se “noi non possiamo mai rappresentare l’evento come un qualcosa di fronte a noi”, non possiamo nemmeno rappresentarla “come ciò che tutto abbraccia e ingloba” (29, M. Heidegger, Tempo e essere, Longanesi, 2007), vi è pertanto la necessità di una normalità della violenza quale parte dell’essere, astraendola solo nel momento della sua spettacolarizzazione.

Nella ricerca di una normalità della violenza vi è il riconoscimento come semplice accettazione del potere, con un passaggio dall’ideale al reale, dalle possibilità alla certezza della realtà del vincente.

La violenza non esprime quindi più il male ma la semplice realtà quotidiana, acquista un proprio valore, come rilevato da Arendt nella banalità del male, in cui il volto del singolo si scioglie nella massa anche se apparentemente valorizzato.

Vi è quella che De Monticelli definisce come “auto destituzione del soggetto morale” in una solubilità della coscienza, che permette al singolo l’auto-assolvimento nel suo agire quotidiano identificandosi con il bene di così fan tutti, nella necessità di un male minore che proprio nel combattere il male maggiore acquista la valenza del bene, in una mescolanza tra bene e male nell’indefinito rapporto tra verità e falsità, sì da sfumare la virtù in una imprecisata menzogna, che si risolve nella quotidiana mistificazione del male, riconoscibile solo a posteriori nella sua valutazione storica dei risultati, viene meno la capacità critica della prova e degli errori (7).

La mistificazione della realtà, nel giustificare la violenza fisica e psichica, crea le premesse di un nichilismo giustificazionista, in cui, come afferma Nietzsche, l’intelletto “spiega le sue forze principali nella finzione“ ricercando l’utile nell’inganno, solo il progressivo caos relazionale che ne consegue creando uno stato di lotta permanente lo induce alla “verità”.

Sorge il contrasto tra verità e menzogna e la necessità di superare il puro nichilismo dell’inganno, lo sprofondare della società nella violenza autodistruttiva obbliga alla ricerca della “verità”, anche se limitata e puramente umana, molte volte illusoria sebbene, come sottolinea Nietzsche , ci dimentichiamo di tale natura (8).

Vi è la necessità di superare il puro nichilismo cosmologico che il negare l’esistenza dell’Ente superiore e l’identificarsi nella sola natura della nostra animalità sembra condurci, Lowith riconosce nella natura umana l’intrinseco rapporto tra essenza spirituale e animalità.

Vi è pertanto una problematicità in questa connessione che induce l’individuo a interrogare il mondo in tutta la sua essenza e nelle sue manifestazioni, nell’interrogare egli stesso ne diventa un problema e viene a porsi di fronte alla propria violenza, ad essere mistificatore della violenza stessa, il male subito nella violenza diventa motivo di interrogazione e riflessione.

La seconda natura che è per lui l’artificio del techne, nell’esaltarne le possibilità viene a coinvolgerne tutte le sue espressioni, dalla violenza, alla mistificazione, alla riflessione, dove la natura umana ne è al contempo limite e oggetto di pensiero codificato ed esprimibile attraverso il linguaggio che diventa mezzo di sopraffazione ma anche di salvezza, possibilità di un relazionarsi nella coscienza e nei propri limiti (9).

Vi è nella modernità una esaltazione dell’agire, ma l’agire può essere anche l’anticamera dell’arbitrio, della violenza, se non accompagnato dal pensare di cui il giudizio è la radice comune.

La libertà si può confondere con la possibilità della violenza e invertirsi nell’autoritarismo senza il limite del giudizio critico che permette di discernere, come sottolineato da Arendt, il bene dal male, il bello dal brutto nella decrescente perdita della capacità etica che il moderno nichilismo porta, dove una pluralità di norme conflittuali vengono ad affrontarsi e la tolleranza può essere garantita da quello che Habermas definisce come l’agire comunicativo (10).

In questo l’esercizio della critica verso i poli della comunicazione, come nella parresia della Grecia antica, acquista una funzione vitale, vi è sempre il pericolo dell’urto, dell’irritazione, ma è il rischio che il porsi contro il potere nel non acquietarsi ma domandare pone.

La parresia democratica ha come premessa la qualità morale della ricerca critica, da Foucault definita come una specifica relazione con se stessi, il domandare comporta il disvelamento della mistificazione che giustifica la violenza, diventa pertanto un dovere per l’individuo in quanto essere sociale (11).

Diogene, dunque, provoca volontariamente Alessandro e poi gli dice: Ebbene, puoi uccidermi; ma se lo fai nessun altro dirà la verità” (85, Foucault M., Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli ed., 2005), il vero problema, l’essenza è se si vuole conoscere la verità!

Se la violenza è sempre insita nel divenire dei rapporti sociali, pronta ad affiancarsi e rapportarsi all’inganno e alla mistificazione, nei rapporti privati subentrano quelli che Laszlo Héro definisce come “calcoli morali”, secondo il principio di razionalità le strategie miste dovrebbero portare ad un equilibrio ottimale, in un alternarsi di interessi di gruppo ed interessi individuali, di cooperazione ed atteggiamenti egoistici, in cui predominano inganni e aggressività all’interno del gruppo.

Il comportamento quale bagaglio genetico viene ad interferire con le condizioni generali e quelli che Lumsden e Wilson chiamano geni culturali, ossia la trasmissione dei valori e dei comportamenti premianti all’interno del gruppo, in cui scala di valori e calcolo delle probabilità si mescolano nella decisione finale, dove vi sono numerosi concetti di razionalità che vengono a superare l’idea di una razionalità unica, sulla base di stati d’animo e sentimenti mutevoli, con una razionalità limitata che Hofstadter definisce “pigra” (12).

Weil ci ricorda che la violenza è sempre presente nell’individuo e attorno ad esso, essa può assumere forme diverse materiali ed immateriali ma è sempre incipiente e frammista ad una indefinita mistificazione, che fa sì che ci appaia giusta e comunque dovuta.

Essa nel fare perdere l’innocenza altera la normalità del singolo e la rende quotidianamente accettabile, nella ricerca di una affermazione evoluzionistica del tutto fisica dove l’uomo è ridotto al calcolo delle risorse, unico elemento su cui valutarlo senza alcun orientamento morale, asservito in un girone di autodistruzione nella totale pervasività della miscela di violenza e inganno, senza che tuttavia possa acquisire la rotonda completezza dell’essere umano.

In questi termini violenza è anche soffocare la capacità creativa del singolo sotto una serie infinita di inutili atti burocratici o, più semplicemente, deviare e comprimere il pensiero sotto richieste e pretese aventi quale fine ultimo porre il proprio “io” innanzi all’altro.

Coloro che cercano il potere hanno un orientamento politico oltre i confini dell’autorità legittima, con tendenze al machiavellismo, ossia all’agire sempre con freddezza nel proprio interesse, manipolando gli altri, unite a forti motivazioni al potere personalistico.

La freddezza emotiva permette una maggiore complessità cognitiva (Tosi – Pilati), né dobbiamo disconoscere l’esistenza di categorie di persone prive di empatia, in grado di fingere emozioni al fine di farsi accettare e manipolare le relazioni che si creano, è per loro più semplice salire le scale sociali in qualsiasi professione in cui entrino.

Esse nel loro potenziale distruttivo delle comunità hanno la capacità di imporsi attraverso la mistificazione dell’essere, di condurre alla distruzione senza rimpianti individui e intere comunità.

I questi vi è l’esaltazione del narcisismo, sempre presente nell’essere umano in termini moderati quale necessità dell’autostima, diviene patologico nella sua esaltazione e gratificativo della violenza usata, l’amore smisurato per sé diviene premessa per la riduzione violenta, tanto fisica che psicologica, dell’altro in un passaggio dal privato al pubblico.

Il narcisismo estremo, patologico, viene giustificato come corretta normalità dell’esaltazione sociale dell’individualismo, che l’attuale cultura pone a base delle relazioni sociali ed economiche, estremizzandolo e facendolo diventare attraverso il culto ideologico dell’efficientismo, cosa diversa dall’efficienza, premiante.

“L’unica possibilità di pensare il male è pensare male, cioè mettere in essere un pensiero negativo che precede e fonda un agire negativo” vi è pertanto sempre la possibile “presenza del negativo accanto alla possibilità dell’essente o, anche, dentro questa positività” (13-14, E. Baccarini, (De) scrivere il male, in La plurivocità del male, a cura di Aldo Maccariello, Aracne ed. S.R.L., 2009).

NOTE

  1. Abbagnano N. , Sorel, in Storia della filosofia, Vol. III, 442 – 444, UTET, 1974;

  2. Abbagnano N., Nietzsche, in Storia della filosofia, Vol. III, Cap. XIII, 375 – 379, UTET, 1974;

  3. Buber M., Immagini del bene e del male, Ed. di Comunità, 1981;

  4. Simmel G., Il conflitto della civiltà moderna, 14, SE SRL., 1999;

  5. Natoli S., Kratos: potere e società, Ed. Albo Versorio, 2015;

  6. Heidegger M., Tempo e essere, Longanesi, 2007;

  7. De Monticelli, Al di qua del bene e del male, Einaudi, 2015;

  8. Nietzsche F., Su verità e menzogna in senso extramorale, Adelphi Edizioni, 2015;

  9. Franceschelli O., Karol Lowith. Le sfide della modernità tra Dio e nulla, Donzelli ed., 1997;

  10. Bodei R., La filosofia del Novecento, Donzelli ed. , 2006;

  11. Foucault M., Discorso e verità nella Grecia antica, Donzelli ed., 2005;

  12. Méro L., Calcoli morali. Teoria dei giochi, logica e fragilità umana, Dedalo Ed., 2005.

Nel pubblico

La vita pubblica può permettere un esercizio della violenza ben superiore a quello che un singolo otterrebbe, le istituzioni vengono a moltiplicare le potenzialità grazie all’organizzazione, d’altronde le funzioni pubbliche possiedono propri criteri di valutazione etici diversi dal privato in quanto tesi a quello che è definito come “bene pubblico”.

Azioni che da un punto di vista privato sarebbero disapprovate vengono permesse in favore di un risultato pubblico positivo, questo comporta tuttavia la necessità di porre dei freni personali al proprio agire che compensino la maggiore ampiezza d’azione che il singolo possiede nel suo ruolo pubblico.

L’irreprensibilità del suo privato, probità e disinteresse garantiscono il corretto uso dell’esercizio del potere, ma il potere è una espressione propria dell’individuo che affonda le sue radici nell’evoluzione e nei primi rapporti infantili; nel ruolo pubblico l’individuo assume obbligazioni sia verso la collettività che verso dei gruppi specifici (teoria dell’obbligazione), l’impersonalità dell’azione pubblica implica accanto alla maggiore attenzione dei risultati una più rigorosa imparzialità (Nagel).

Raggiungimento dei risultati e mezzi impiegati dovranno essere valutati nell’insieme, ma non possono essere disgiunte dalle “caratteristiche morali delle istituzioni”, questo non deve scivolare verso la auto indulgenza o parzialità circostanza che impone una maggiore attenzione all’etica privata, ai modelli di vita individuali.

L’indebolimento dei vincoli pubblici comporta una compensazione nel privato, una maggiore attenzione alla condotta nei rapporti personali sì da compensare la necessaria maggiore libertà nel conseguire i risultati desiderati e ritenuti necessari per il bene pubblico.

Il ricorso all’elettorato non implica naturalmente un consenso per tutte le azioni, è il fine conseguito che giustifica l’appoggio, la violenza è pertanto comunque limitata nella sua legittimazione sia dal consenso nei fini che dall’aspetto privato della valutazione delle azioni incentrata sull’agente, né le restrizioni all’agire potranno essere delegate interamente ai tribunali, i vincoli morali individuali persisteranno comunque (1).

Il potere ha una pervasività nella vita tale da riscontrarsi dalle istituzioni, alle organizzazioni, fino alle relazioni personali, tanto che Weber distingue tra potenza (macht) e potere legittimo (herrschaft), dove quest’ultimo può incarnarsi in una legittimità tradizionale, carismatica o legal-razionale.

La dipendenza che si origina può nascere sia da una condivisione di valori che da un coinvolgimento per calcolo, ma può essere anche forzata, priva del contratto psicologico necessario al fine di definire le reciproche aspettative.

La legittimazione dell’autorità viene meno anche se nasce da una originaria legittimità, vi è una distorsione dei confini propri del contratto psicologico a cui gli individui tendono tuttavia ad adattarsi, ad accettare, quale propensione personale all’autorità fino alle estreme conseguenze della crudeltà e distruzione, come dimostrato negli esperimenti di Milgran e Zimbardo nei quali la deresponsabilizzazione si riassumeva nell’osservazione preliminare, “…, se lei si assume la responsabilità…” (Tosi, Pilati, 2).

Machiavellismo, ossia la capacità di manipolare il proprio controllo delle emozioni, unito a forti motivazioni al potere personalistico e ad un alto narcisismo patologico, possono superare la restrizione dell’uso del potere pubblico per vantaggi privati e rafforzare gli interessi verso gruppi particolari a scapito dell’insieme, nei calcoli morali individualismo e cooperazione si alternano e le condizioni generali che le sovraintendono possono essere modificate (Méro).

La mistificazione tende pertanto a modificare le condizioni o comunque le loro percezioni entro cui si agisce, si ottiene quindi la legittimazione del proprio agire e della violenza che il potere può permettere, l’uso delle risorse viene distorto richiamandosi ad urgenze e necessità, le valutazioni superano popolazioni ed ecosistemi.

L’orizzonte istituzionale con le proprie necessità si collega all’agire economico, trasferendo i costi ad altre generazioni e in altri luoghi, falsando le decisioni sui rischi e la vulnerabilità sociale (Beck).

Nel presente la frammentazione culturale e il valore riconosciuto alla menzogna quale strumento di lotta e difesa ha impedito la formazione di una etica pubblica quale semplice contenitore della convivenza civile, né i capitali trattenuti dalle Istituzioni si trasformano in crescita economica, diventando spesso oggetto di una rapina truffaldina dove si evita di indicare le ragioni delle decisioni.

Lo Stato rifacendosi ad un programma qualitativo della spesa riesce ad evitare una dettagliata indicazione delle spese stesse, rifacendosi a generici valori retoricamente ripetuti (Viano), ma trasferiti di fatto direttamente dal pubblico ai rapporti tra privati.

Vi è una debolezza strutturale dello Stato rispetto alla società civile, ai gruppi di pressione che in esso prosperano, questo conduce alla permeabilità e disponibilità rispetto ai gruppi stessi e in ultima analisi a una rifeudalizzazione dello Stato, dove interessi privati e pubblici si mescolano e stringono patti riservati (Cassese).

Nei reciproci appoggi lo Stato risulta con le sue Istituzioni strumentalizzato, facilitato dal venire meno di un centro riconosciuto se non per richiedere favori o appoggi, vi è quindi una ambiguità di fondo tra centro e periferia in quella che è stata definita una amministrazione “porosa” (3).

Se dal finire del ‘900 allo Stato etico si è sostituita una concezione puramente economica dello stesso favorita dall’espandersi dell’intervento pubblico in economia, secondo il modello keynesiano, non può nascondersi che lo Stato etico nato con la Rivoluzione francese conduce agli orrori delle Guerre Mondiali, ai campi di concentramento ideologici, all’eliminazione di coloro che sono individuati come il nemico.

Lo Stato etico fondato su principi liberali, sotto la pressione di un ribellismo giovanile a cavallo tra ‘800 e ‘900, dagli interessi economici contrastanti dei vari blocchi, dall’esaltazione delle comunità nazionali trasformate in miti fondatori (Alberoni), conduce al crogiolo della Grande Guerra, all’apertura del vaso di Pandora degli istinti primordiali, la promessa menzognera del sacrificio attuale per un radioso futuro promesso.

Per questa promessa menzognera ma inebriante nel fornire all’uomo la potenza creativa di Prometeo, si giustificano massacri, abusi e sofferenze, alla meschineria egoistica dei vecchi capi si sostituivano nuove generazioni di leaders così da dare “l’impressione che il movimento non avesse limiti precisi, che fosse una ininterrotta estasi nitzscheana” (39, Mosse G.L., Il fascismo .Verso una teoria generale, Laterza, 1998).

Questo ricostruire continuamente attraverso la propaganda un vitalistico mito giovanile viene a coinvolgere tutti i regimi autoritari della prima metà del ‘900 ed è ripreso in termini politici nel mito del ’68, per diventare un esclusivo mito economico al volgere del nuovo millennio.

Foucault, rovesciando il detto di Clausewitz, dichiara la politica come la prosecuzione con altri mezzi della guerra, in cui “la teoria è sempre un’arma che produce potere”, sia nel rafforzare il vecchio che nel creare il nuovo (4).

Il potere è impalpabile e diffuso in termini “microfisici”, esso è solo in parte individuabile lungo canali chiaramente determinati, in parte è sulla società ma nella realtà è sparso prevalentemente nella società.

Esso non è solo repressione bensì anche funzione produttiva nella quale vi è sapere, scienza e inganno, pertanto Foucault sottolinea che non vi può essere una chiara distinzione tra “teoria” e “ideologia”, la guerra non è quindi solo quella guerreggiata ma anche quella silenziosa che avvolge il corpo sociale, in un continuo rapporto tra cooperazione e conflitto.

La comunicazione diventa l’arma prevalente, un’arma psicologica che sostituisce la pura violenza fisica delle armi tradizionali, ma attualmente è venuta meno una visione unitaria del soggetto politico ed istituzionale in un racconto fondante, tanto che è stata teorizzata la “morte del soggetto” ( P. Hammond, Media e guerra. Visione postmoderna, Odoya 2008) in favore di un rapporto edonistico- utilitarista direttamente funzionale al semplice rapporto economico- finanziario.

La tecnologia ha potenziato nella falsità di una promessa di trasparenza la asimmetria della manipolazione delle informazioni, sia da parte delle organizzazioni pubbliche che delle sempre più potenti organizzazioni private, “la registrazione assicura un sapere su tutte le operazioni compiute in rete, di qui la situazione asimmetrica: l’utente sa molto poco, l’apparato sa tantissimo” (69, Ferraris M., Mobilitazione totale, Laterza, 2015).

la privacy risulta uno schema piuttosto debole a cui aggrapparsi essendo noi costretti e desiderosi per necessità, speranza, ambizione o narcisismo di confluire nel fornire i dati necessari, è quindi l’apparato mitizzato attraverso sapienti opere di marketing che crea il consenso necessario a facilitare l’opera dando un senso al mondo.

Lo Stato tradizionale entra quindi in crisi travalicato da una economia globale fortemente interconnessa da una tecnologia della comunicazione dilagante, che trasferisce fette sempre più consistenti di potere ad organizzazioni private sovranazionali, si creano burocrazie private che si sovrappongono ai funzionari pubblici in un ritorno alle varie Compagnie delle Indie proprie del periodo tra XVII – XIX secolo.

Bauman parla di “glocalizzazione” quale “combinazione di luoghi che diventano importanti simultaneamente (e in stretta connessione), mentre la distanza spaziale perde significato” (149, Bauman Z. e Bordoni C., Stato di crisi, Einaudi, 2014).

Il potere di creare un ordinamento giuridico secondo una dottrina teologica secolarizzata di onnipotenza legislativa viene meno, come la garanzia della difesa dei confini esterni e “interni”, un senso di insicurezza pervade l’individuo che avendo creduto in una scalata perpetua si sente oppresso ma non protetto dalle Istituzioni.

Lo Stato è in crisi, i pubblici funzionari hanno perso parte della loro credibilità, travolti dallo stesso successo economico dell’intervento pubblico che ha scatenato interessi incrociati e lobby, la globalizzazione economica ha posto nuovi miti, creato desideri, tuttavia “per il benessere degli uomini un altro PIL pro capite non è tutto. Il mercato va inserito in uno Stato che lo sostenga e sia sostenibile.

Per fortuna lo Stato non è più considerato un amministratore attivo dell’economia, ma il suo ruolo sociale è vitale e sempre più importante perché se non è ben diretto può distruggere la compattezza sociale che è alla base del moderno capitalismo”(XIII, Prefazione di Ralf Dahrendorf, in Turner, Just Capital, Laterza, 2004), la politica deve quindi riacquistare la capacità di scelta ma nello spostare risorse indicare senza mistificare, in quanto la scoperta di una realtà diversa conduce dall’esaltazione al rifiuto (Turner).

Carl J. Friedrich considera il potere sia come un possesso che come un rapporto con il quale influenzare in termini indiretti e non strutturati, si ha solo apparentemente la possibilità democratica di entrare in politica e sostenere le proprie idee, nella realtà, osservano Dahl e Polsby, l’elemento decisivo è il controllo di una rete di gestione delle risorse.

Questo comporta il prevalere di leaders o coalizioni di leaders e sovranità indipendenti costituite dai vertici istituzionali e organizzativi, si ha pertanto il carattere relazionale del potere, dove il dominio è generato da quello che Emerson e Blou definiscono uno squilibrio fra relazioni di scambio, la politica diventa quindi un sistema rapido di ascesa sociale e di arricchimento, che può portare a fenomeni di “bossismo” (Merton), con ampia corruzione, estorsioni e ricatti (Sola G. – Potere, elitismo e pluralismo, in Storia della scienza politica, La Nuova Italia Scientifica, 1996).

NOTE

  1. Nagel T., La spietatezza nella vita pubblica, in “Questioni mortali”, Il Saggiatore, 2015;

  2. Tosi A., Pilati M., Potere, in “Comportamento organizzativo”, Egea, 2008;

  3. Cassese S., Un’amministrazione “porosa”, in Lo Stato introvabile. Modernità e arretratezza delle istituzioni italiane, Donzelli ed., 1998;

  4. Bodei R., La filosofia nel Novecento, 145, Donzelli ed. ,2006;

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