Il titolare della ditta non avendo adoperato tutte le cautele e le misure di prevenzione necessarie a limitare la diffusione delle sopracitate sostanze dannose è stato considerato come penalmente responsabile dai giudici di legittimità che hanno, pertanto, respinto il suo ricorso condannandolo a cinque mesi di reclusione per omicidio colposo ex art. 589 c.p.. Sulla base di valutazioni scientifiche e dei rilievi peritali, infatti, il (non) contegno dell’imprenditore è stato riconosciuto come determinante per lo sviluppo della malattia, sboccata nel mesotelioma pleurico ed, infine, nel decisivo arresto cardiaco per grave insufficienza respiratoria. Invero, il titolare della ditta è stato individuato quale reo per non aver adottato alcuna forma precauzione: non avendo condotto, in primis, un’appropriata campagna informativa nei confronti dei suoi dipendenti; in secundis, non ponendo attenzione alla fornitura e alla cura del materiale ed, infine, non contenendo i (noti) rischi per la salute scaturenti dall’esposizione all’asbesto quale malattia “dose-correlata” (la quantità e la pericolosità dell’asbesto inalato sono legate alla durata dell’esposizione). Infatti, con particolare riguardo a quest’ultimo aspetto, attraverso questa decisione gli Ermellini hanno avuto occasione di confermare che «la pericolosità dell’amianto ha una stretta correlazione esistente tra l’esposizione a tale sostanza e talune patologie tumorali, nota fin dagli anni sessanta, tanto che persino alcune scritte apposte sui sacchi adoperati dall’azienda avvertivano della presenza di fibre di asbesto ed invitavano a porre attenzione al fine di evitare la formazione di polveri e di respirarne, poiché l’assunzione di esse avrebbe potuto provocare il cancro e altre gravi malattie. Di qui la prova della prevedibilità dell’evento e della evitabilità dello stesso ove fossero state rispettate le norme prevenzionali».