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REATO DI TORTURA: Iter, testo e critiche. Articoli 613-bis e 613-ter codice penale. – QUOTIDIANO LEGALE
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REATO DI TORTURA: Iter, testo e critiche. Articoli 613-bis e 613-ter codice penale.

Bandiera italiana

Approvato in via definitiva il ddl che introduce il reato di tortura nell’ordinamento italiano. I sì sono stati 198 (Pd e Ap), i no 35 (Fi, Cor, Fdi e Lega), gli astenuti 104 (M5S, Si, Mdp, Scelta civica e Civici e innovatori). Le pene previste appaiono pesanti: la reclusione da 4 a 10 anni chiunque, che salgono fino a un massimo di 12 se a commettere il reato è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei suoi doveri, tuttavia non sono poche le contestazioni.

 

L’ITER

Il dibattito sul reato di tortura ha subito un’accelerazione nell’aprile 2015, quando la Corte europea dei diritti umani di Strasburgo ha condannato l’Italia per la condotta tenuta dalle forze dell’ordine durante l’irruzione alla scuola Diaz al G8 di Genova del 2001, dove secondo i giudici le azioni della polizia ebbero «finalità punitive» con una vera e propria «rappresaglia, per provare l’umiliazione e la sofferenza fisica e morale delle vittime». La Corte parlò quindi di «tortura» e invitò l’Italia a «dotarsi di strumenti giuridici in grado di punire adeguatamente i responsabili di atti di tortura o altri maltrattamenti impedendo loro di beneficiare di misure in contraddizione con la giurisprudenza della Corte». I giudici hanno infatti dichiarato all’unanimità che è stato violato l’articolo 3 della Convenzione europea dei diritti umani, che recita: «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti».

 

Il testo originale
Il disegno di legge sul reato di tortura era stato presentato da Luigi Manconi nel marzo 2013, era composto da quattro articoli, introduceva il reato di tortura e lo rendeva punibile con la reclusione da 4 a 10 anni. Il primo articolo, il più importante, recitava:

Il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che infligge ad una persona, con qualsiasi atto, lesioni o sofferenze, fisiche o mentali, al fine di ottenere segnatamente da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o su di una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su ragioni di discriminazione, è punito con la reclusione da quattro a dieci anni.

La pena è aumentata se ne deriva una lesione personale, è raddoppiata se ne deriva la morte.

Alla stessa pena soggiace il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio che istiga altri alla commissione del fatto, o che si sottrae volontariamente all’impedimento del fatto, o che vi acconsente tacitamente».

 

IL TESTO APPROVATO

Con l’introduzione degli articoli 613-bis e 613-ter nel codice penale viene inserito il reato di tortura.

Le nuove disposizioni prevedono la reclusione da tre a dodici anni: queste le pene previste per “chiunque, con violenza o minacce gravi, infligge ad una persona forti sofferenze fisiche o mentali ovvero trattamenti crudeli, disumani o degradanti, allo scopo di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni su un atto che essa stessa o una terza persona ha compiuto o è sospettata di avere compiuto ovvero allo scopo di punire una persona per un atto che essa stessa o una terza persona ha compiuto o è sospettata di avere compiuto ovvero per motivi di discriminazione razziale, politica, religiosa o sessuale.

La pena è aumentata se le condotte di cui al primo comma sono poste in essere da un pubblico ufficiale o da un incaricato di pubblico servizio.

La pena è aumentata se dal fatto deriva una lesione grave o gravissima; è raddoppiata se ne deriva la morte.

Non può essere assicurata l’immunità diplomatica per il delitto di tortura ai cittadini stranieri sottoposti a procedimento penale o condannati da una autorita` giudiziaria straniera o da un tribunale internazionale. In tali casi lo straniero è estradato verso lo Stato nel quale è in corso il procedimento penale o è stata pronunciata sentenza di condanna per il reato di tortura o, nel caso di
procedimento davanti a un tribunale internazionale, verso lo Stato individuato ai sensi della normativa internazionale vigente in materia”. (art.613 bis c.p., introdotto dall’articolo 1 del ddl)

Il cittadino o lo straniero che commette nel territorio estero il delitto di tortura di cui all’articolo 613-bis è punito secondo la legge italiana, ai sensi dell’articolo 7, numero 5) (art.613 ter c.p., introdotto dall’articolo 1 del ddl).

 

LE CRITICHE

Le maggiori associazioni che si sono spese negli anni contro la tortura contestano fortemente questa legge nata e fatta male: “In Italia da oggi c’è il reato di tortura nel codice penale. Una legge da noi profondamente criticata per almeno tre punti: la previsione della pluralità delle condotte violente, il riferimento alla verificabilità del trauma psichico e i tempi di prescrizione ordinari”. Così in una nota l’Associazione Antigone. La legge approvata che incrimina la tortura non è la nostra legge e non è una legge conforme al testo Onu – denuncia Antigone -. Per noi la tortura è e resta un delitto proprio, ossia un delitto che nella storia del diritto internazionale, è un delitto tipico dei pubblici ufficiali”. “Quella approvata oggi dal Parlamento, che introduce con quasi 30 di ritardo il reato specifico di tortura nel codice penale ordinario, non è una buona legge. È carente sotto il profilo della prescrizione” dice Antonio Marchesi, presidente di Amnesty International Italia.

 

LE PENE
L’articolo 613-bis c.p. punisce con la reclusione da 4 a 10 anni chiunque, con violenze o minacce gravi ovvero agendo con crudeltà cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza ovvero che si trovi in situazione di minorata difesa, se il fatto è commesso con più condotte ovvero comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. La pena sale da 5 a 12 anni se a commettere il reato è un pubblico ufficiale o un incaricato di pubblico servizio.

 
ARTICOLO 2 
L’articolo 2 stabilisce che “le dichiarazioni o le informazioni ottenute mediante il delitto di tortura non sono comunque utilizzabili” in un processo penale.

 
LESIONE GRAVE
Se c’è “una lesione personale grave le pene sono aumentate di un terzo e se ne deriva una lesione personale gravissima sono aumentate della metà”. Se invece “dal fatto deriva la morte quale conseguenza non voluta, le pene sono aumentate di due terzi. Se il colpevole cagiona volontariamente la morte, la pena è dell’ergastolo. Se dai fatti di cui al primo comma deriva la morte quale conseguenza non voluta, la pena è della reclusione di anni trenta”.

 
ISTIGAZIONE
Viene anche punito da 6 mesi a 3 anni “il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio il quale, nell’esercizio delle funzioni o del servizio, istiga in modo concretamente idoneo altro pubblico ufficiale o altro incaricato di un pubblico servizio a commettere il delitto di tortura”.

 
STOP ESPULSIONI
Divieto delle espulsioni, dei respingimenti e delle estradizioni ogni volta che sussistano fondati motivi di ritenere che, nei Paesi nei confronti dei quali queste misure amministrative dovrebbero produrre i loro effetti, la persona rischi di essere sottoposta a tortura. La disposizione – sostanzialmente aderente al contenuto dell’articolo 3 della Convenzione Onu – precisa che tale valutazione tiene conto se nel Paese in questione vi siano violazioni “sistematiche e gravi” dei diritti umani.

 
ESTRADIZIONE
Viene poi previsto l’obbligo di estradizione verso lo Stato richiedente dello straniero indagato o condannato per il reato di tortura; nel caso di procedimento davanti ad un tribunale internazionale, lo straniero è estradato verso il Paese individuato in base alla normativa internazionale.

 
IMMUNITA’
Il provvedimento esclude il riconoscimento di ogni “forma di immunità” per gli stranieri che siano indagati o siano stati condannati per il delitto di tortura in altro Stato o da un tribunale internazionale (comma 1). L’immunità diplomatica riguarda in via principale i Capi di Stato o di governo stranieri quando si trovino in Italia nonché il personale diplomatico-consolare eventualmente da accreditare presso l’Italia da parte di uno Stato estero. Seguono l’articolo 5 (invarianza degli oneri) e l’articolo 6 (entrata in vigore).

 

LAVORI PARLAMENTARI

Gli atti internazionali
  Numerosi atti internazionali prevedono che nessuno possa essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti: tra gli altri, la Convenzione di Ginevra del 1949 relativa al trattamento dei prigionieri di guerra; la Convenzione europea dei diritti dell’uomo del 1950 (ratificata dalla L. 848/1955), la Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948, il Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 1966 (ratificata dalla L. 881/1977), la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea del 2000, la Convenzione ONU del 1984 contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli, inumane e degradanti (la cd. CAT), ratificata dall’Italia con la legge n. 489/1988; lo Statuto di Roma istitutivo della Corte penale internazionale del 1998 (L. 232/1999). La maggior parte di tali atti si limita a proibire la tortura ma non ne fornisce una specifica definizione.
  Tale definizione è invece contenuta, oltre che nella citata Convenzione ONU, nello Statuto della Corte penale internazionale nonché nella più datata Dichiarazione ONU del 1975. Per un confronto tra le definizioni date dai diversi atti internazionali si rinvia al dossier n. 149 del Servizio Studi.
 
Il reato di tortura

La proposta di legge introduce nel titolo XII (Delitti contro la persona), sez. III (Delitti contro la libertà morale), del codice penale, i reati di tortura (art. 613-bis) e di istigazione alla tortura (art. 613-ter), connotando l’illecito in modo solo parzialmente coincidente con la Convenzione ONU del 1984 contro la tortura che, in particolare, definisce la tortura come reato proprio del pubblico ufficiale.

Nel testo, la commissione del reato da parte del pubblico ufficiale o dell’incaricato di pubblico servizio costituisce una fattispecie aggravata del delitto di tortura. Ulteriore elemento di distinzione, rispetto al testo della Convenzione ONU, concerne la situazione di inferiorità della vittima del reato, non più limitata alla privazione della libertà personale.

In particolare, l’articolo 613-bis c.p. punisce con la reclusione da 4 a 10 annichiunque, con violenze o minacce gravi ovvero agendo con crudeltà cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza ovvero che si trovi in situazione di minorata difesa, se il fatto è commesso con più condotte ovvero comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.

Rispetto all’art. 1 della Convenzione ONU del 1984, che prevede una condotta a forma libera da parte dell’autore del reato, l’art. 613-bis prevede esplicitamente che la tortura si realizza mediante violenze o minacce gravi o crudeltà (ovvero con trattamento inumano e degradante).

La necessità della pluralità delle condotte (violenze o minacce) non sembra, quindi, consentire di contestare il reato di tortura in presenza di un solo atto di violenza o minaccia. Peraltro, dalla formulazione del testo si realizza il reato di tortura anche qualora si sia determinato un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona. In tale ultima ipotesi, per la contestazione del reato, si dovrebbe prescindere dalla pluralità delle condotte.  

Sono poi previste dall’art. 613-bis  fattispecie aggravate del reato di tortura:

  • la prima, conseguente all’opzione del delitto come reato comune, interessa la qualifica di pubblico ufficiale o di incaricato di pubblico servizio dell’autore del reato, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio; la pena prevista è in tal caso la reclusione da 5 a 12 anni (era da 5 a 15 anni nel testo Camera). Viene, tuttavia, precisato dal terzo comma dell’art. 613-bis che la fattispecie aggravata non si applica se le sofferenze per la tortura derivano unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti.
  • il secondo gruppo di fattispecie aggravate consiste nell’avere causato lesioni personali comuni (aumento fino a 1/3 della pena), gravi (aumento di 1/3 della pena) o gravissime (aumento della metà). Il Senato ha precisato che anche tali fattispecie aggravate derivano “dai fatti” indicati dal primo comma e non “dal fatto” quindi, anche in questo caso, il reato aggravato si perfeziona solo in presenza di una pluralità di azioni;
  • le altre fattispecie aggravate riguardano la morte come conseguenza della tortura nelle due diverse ipotesi: di morte non voluta, ma conseguenza dell’attività di tortura (30 anni di reclusione, mentre nel testo della Camera era previsto l’aumento di due terzi delle pene); di morte come conseguenza voluta da parte dell’autore del reato (pena dell’ergastolo). Anche in questo caso, Il Senato ha precisato che tali fattispecie aggravate derivano “dai fatti” indicati dal primo comma.

 

Il reato di istigazione a commettere tortura

La proposta di legge introduce, poi, nel codice penale l’art. 613-ter con cui si punisce il reato proprio consistente nell’istigazione a commettere tortura commessa dal pubblico ufficiale o dall’incaricato di pubblico servizio, sempre nei confronti di altro pubblico ufficiale o incaricato di pubblico servizio. In base all’art. 414 c.p. chiunque pubblicamente istiga a commettere uno o più reati è punito, per il solo fatto dell’istigazione: con la reclusione da uno a cinque anni, se trattasi di istigazione a commettere delitti; con la reclusione fino a un anno, ovvero con la multa fino a euro 206, se trattasi di istigazione a commettere contravvenzioni (primo comma). Se si tratta di istigazione a commettere uno o più delitti e una o più contravvenzioni, si applica la pena da uno a cinque anni (secondo comma). Alla medesima pena soggiace anche chi pubblicamente fa l’apologia di uno o più delitti. Le pene sono aumentate se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici (terzo comma). Se l’istigazione o l’apologia di cui ai commi precedenti riguarda delitti di terrorismo o crimini contro l’umanità la pena è aumentata della metà. La pena è aumentata fino a due terzi se il fatto è commesso attraverso strumenti informatici o telematici (quarto comma). La nuova fattispecie introdotta dall’art. 613-ter non è connotata dalla pubblicità della condotta.

Il Senato, rispetto al precedente testo approvato dalla Camera:

  • ha introdotto il riferimento alle modalità concretamente idonee proprie della istigazione alla tortura;
  • ha soppresso la clausola di specialità del reato di cui all’art. 613-ter rispetto all’istigazione a delinquere di cui all’art. 414 c.p. (“fuori dei casi previsti dall’articolo 414); 
  • ha ridotto l’entità della sanzione (ora da sei mesi a tre anni, nel testo della Camera era da uno a sei anni).

L’istigazione sarà punibile sia nel caso in cui non sia accolta sia nel caso in cui sia accolta ma ad essa non segua alcun reato.

 

Disposizioni processuali e prescrizione

La proposta di legge introduce una disposizione procedurale che – novellando il codice di procedura penale –  stabilisce l’inutilizzabilità, nel processo penale, delle dichiarazioni eventualmente ottenute per effetto di tortura. La norma fa eccezione a tale principio solo nel caso in cui tali dichiarazioni vengano utilizzate contro l’autore del fatto e solo al fine di provarne la responsabilità penale.

Il Senato ha soppresso la disposizione del testo trasmesso dalla Camera, che inseriva anche il delitto di tortura fra i reati per i quali sono raddoppiati i termini di prescrizione

 

La modifica del testo unico immigrazione

La proposta di legge coordina con l’introduzione del resto di tortura l‘art. 19 del testo unico immigrazione (d.lgs. 286/1998): sono vietate le espulsioni, i respingimenti e le estradizioni ogni volta che sussistano fondati motivi di ritenere che, nei Paesi nei confronti dei quali queste misure amministrative dovrebbero produrre i loro effetti, la persona rischi di essere sottoposta a tortura. La disposizione – sostanzialmente aderente al contenuto dell’art. 3 della Convenzione ONU –  precisa che tale valutazione tiene conto se nel Paese in questione vi siano violazioni “sistematiche e gravi” dei diritti umani.

 

Il limite alle immunità diplomatiche e l’estradizione

ll provvedimento esclude il riconoscimento di ogni “forma di immunità” per gli stranieri che siano indagati o siano stati condannati  per il delitto di tortura in altro Stato o da un tribunale internazionale (comma 1). L’immunità diplomatica riguarda in via principale i Capi di Stato o di governo stranieri quando si trovino in Italia nonchè il personale diplomatico-consolare eventualmente da accreditare presso l’Italia da parte di uno Stato estero.

Viene poi previsto l’obbligo di estradizione verso lo Stato richiedente dello straniero indagato o condannato per il reato di tortura; nel caso di procedimento davanti ad un tribunale internazionale, lo straniero è estradato verso il Paese individuato in base alla normativa internazionale.

 

 

CORTE EUROPEA DEI DIRITTI DELL’UOMO

QUARTA SEZIONE

CAUSA CESTARO c. ITALIA

(Ricorso n. 6884/11)

SENTENZA

STRASBURGO

7 aprile 2015

Questa sentenza diverrà definitiva alle condizioni definite nell’articolo 44 § 2 della Convenzione. Può subire modifiche di forma.

Nella causa Cestaro c. Italia,
La Corte europea dei diritti dell’uomo (quarta sezione), riunita in una camera composta da:
Päivi Hirvelä, presidente,
Guido Raimondi,
George Nicolaou,
Ledi Bianku,
Nona Tsotsoria,
Krzysztof Wojtyczek,
Faris Vehabović, giudici,
e da Françoise Elens-Passos, cancelliere di sezione,
Dopo aver deliberato in camera di consiglio il 17 marzo 2015,
Pronuncia la seguente sentenza, adottata in tale data:

PROCEDURA

1. All’origine della causa vi è un ricorso (n. 6884/11) proposto contro la Repubblica italiana con il quale un cittadino di tale Stato, il sig. Arnaldo Cestaro («il ricorrente»), ha adito la Corte il 28 gennaio 2011 in virtù dell’articolo 34 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali («la Convenzione»).

2. Il ricorrente è stato rappresentato dinanzi alla Corte dagli avv. Nicolò Paoletti e Natalia Paoletti, del foro di Roma, dall’avv. Joachim Lau, del foro di Firenze, e dall’avv. Dario Rossi, del foro di Genova.
Il Governo italiano è stato rappresentato dal suo agente, Ersiliagrazia Spatafora, e dal suo co-agente, Paola Accardo.

3. Il ricorrente espone che, nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001, al termine del summit detto «G8» di Genova, si trovava in un luogo adibito a dormitorio, ossia la scuola Diaz-Pertini.
Invocando l’articolo 3 della Convenzione, il ricorrente lamenta di essere stato vittima di violenze e sevizie, che secondo lui possono essere qualificate tortura, nel corso dell’irruzione delle forze dell’ordine nella scuola Diaz-Pertini.
Invocando poi gli articoli 3, 6 e 13 della Convenzione, il ricorrente sostiene che i responsabili di questi atti non sono stati sanzionati adeguatamente, soprattutto in ragione della prescrizione della maggior parte dei delitti loro ascritti intervenuta nel corso del procedimento penale, dell’indulto di cui avrebbero beneficiato alcuni condannati e dell’assenza di sanzioni disciplinari nei confronti di queste stesse persone. Egli aggiunge, in particolare, che lo Stato, astenendosi dal punire qualsiasi atto di tortura e dal prevedere una pena adeguata per un delitto di questo tipo, non ha adottato le misure necessarie per prevenire e poi sanzionare le violenze e gli altri maltrattamenti denunciati.

4. Il 18 dicembre 2012 il ricorso è stato comunicato al Governo.

5. Il ricorrente e il Governo hanno depositato osservazioni scritte sulla ricevibilità e sul merito della causa. 
Sono stati ricevuti i commenti congiunti dal Partito Radicale Nonviolento Transnazionale e Transpartito, dall’associazione «Non c’è pace senza giustizia» e dai Radicali Italiani (ex Partito Radicale Italiano) che il vicepresidente della sezione aveva autorizzato ad intervenire nella procedura scritta (articolo 36 § 2 della Convenzione e articolo 44 § 3 del regolamento).

IN FATTO

I. LE CIRCOSTANZE DEL CASO DI SPECIE

6. Il ricorrente è nato nel 1939 e risiede a Roma.

A. Il contesto nel quale si è svolto il G8 di Genova

7. Il 19, 20 e 21 luglio 2001 si svolse a Genova, sotto la presidenza italiana, il ventisettesimo summit del G8.

8. In vista di questo summit, numerose organizzazioni non governative avevano costituito un gruppo di coordinamento chiamato Genoa Social Forum («GSF»), al fine di organizzare a Genova, nello stesso periodo, un summit altermondialista (si veda la Relazione conclusiva dell’indagine parlamentare conoscitiva sui fatti del G8 di Genova («Relazione conclusiva dell’indagine parlamentare»), pagg. 7-18).

9. Dopo la riunione dell’Organizzazione mondiale del commercio che si tenne a Seattle nel novembre 1999, il movimento altermondialista organizzò manifestazioni simili durante i summit interstatali o durante le riunioni di istituzioni internazionali sui diversi aspetti della governance globale. Talvolta tali manifestazioni sono accompagnate da atti di vandalismo e scontri con la polizia (ibidem).

10. La legge n. 149 dell’8 giugno 2000 («la legge n. 149/2000») aveva affidato l’organizzazione delle riunioni preliminari e del summit finale dei capi di Stato e di governo previsto per luglio 2001 ad una struttura plenipotenziaria creata in seno alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Si tennero molte riunioni in cui si incontrarono rappresentanti del GSF, il capo della struttura plenipotenziaria, il prefetto di Genova, il Ministro dell’Interno, il Ministro degli Affari esteri e alcuni rappresentanti delle istituzioni locali (Relazione conclusiva dell’indagine parlamentare, pagg. 18-21).

11. Le autorità italiane misero in atto un importante dispositivo di sicurezza (Giuliani e Gaggio c. Italia [GC], n. 23458/02, § 12, CEDU 2011). La legge n. 149/2000 autorizzava il Prefetto di Genova a ricorrere al personale delle forze armate. Inoltre, era stata delimitata una «zona rossa» nel centro storico della città interessata dalle riunioni del G8, alla quale potevano accedere soltanto i residenti e le persone che dovevano lavorarvi. L’accesso al porto era stato vietato e l’aeroporto era stato chiuso al traffico. La zona rossa era circondata da una zona gialla che, a sua volta, era circondata da una zona bianca (zona normale).

12. Secondo le informazioni raccolte dalla questura di Genova fino a luglio 2001 (Relazione conclusiva dell’indagine parlamentare, pag. 23), i diversi gruppi attesi nel quadro delle manifestazioni potevano, in funzione della loro pericolosità, essere riferiti a diversi blocchi: «il blocco rosa», non pericoloso; «il blocco giallo» e il «blocco blu», che comprendevano alcuni potenziali autori di atti di vandalismo, di blocco delle strade e dei binari, e di scontri con la polizia; e, infine, il «blocco nero», di cui facevano parte più gruppi anarchici e, più in generale, quei manifestanti che, agendo incappucciati, mascherati e vestiti di nero, in occasione di altri summit avrebbero sistematicamente commesso dei saccheggi («i black bloc»).

13. Durante la giornata del 19 luglio 2001 si svolsero due manifestazioni senza alcun incidente. Alcuni disordini si verificarono in serata (Relazione conclusiva dell’indagine parlamentare, pag. 25).

14. Il 20 luglio nelle diverse zone della città erano annunciate parecchie manifestazioni ed erano previsti degli assembramenti su alcune piazze tematiche (Relazione conclusiva dell’indagine parlamentare, pagg. 25-27).

15. La mattina del 20 luglio, i black bloc provocarono numerosi incidenti e degli scontri con le forze dell’ordine, e saccheggiarono alcune banche e supermercati (Giuliani e Gaggio, sopra citata, § 17). Fu attaccato il carcere di Marassi e diversi commissariati di polizia furono oggetto di atti di vandalismo (Giuliani e Gaggio, sopra citata, § 134, e Relazione conclusiva dell’indagine parlamentare, pag. 26).

16. I black bloc provocarono lo stesso tipo di incidenti in via Tolemaide durante il passaggio del corteo delle Tute Bianche, un gruppo che poteva essere collocato nel «blocco giallo». Questo corteo fu in seguito il bersaglio dei lacrimogeni lanciati da una unità dei carabinieri che avanzarono facendo uso dei loro manganelli o di bastoni non regolamentari. Alcuni manifestanti si dispersero, altri reagirono all’attacco lanciando oggetti contundenti verso le forze dell’ordine; i veicoli delle forze dell’ordine, a loro volta, percorsero ad alta velocità le vie degli scontri, sfondano le barricate sistemate dai manifestanti e respingendo questi ultimi. Gli scontri tra manifestanti e forze dell’ordine proseguirono nei dintorni (Giuliani e Gaggio, sopra citata, §§ 17-20, 126-127 e 136).

17. Contrasti simili si verificarono verso le ore 15 in piazza Manin (Relazione conclusiva dell’indagine parlamentare, pag. 26).

18. Verso le ore 17.20, durante uno scontro in piazza Alimonda, Carlo Giuliani, un giovane manifestante, fu raggiunto da un colpo di arma da fuoco proveniente da una jeep di carabinieri che tentavano di sfuggire ad alcuni manifestanti (Giuliani e Gaggio, sopra citata, §§ 21-25).

19. Il 21 luglio si svolse la manifestazione finale degli ultramondialisti cui parteciparono circa 100.000 persone (Giuliani e Gaggio, sopra citata, § 114).

20. I saccheggi e le devastazioni cominciarono la mattina e proseguirono in città per tutta la giornata. All’inizio del pomeriggio, la testa del corteo incontrò sul suo percorso un gruppo di un centinaio di persone che fronteggiavano le forze dell’ordine. Scoppiarono nuovi scontri con lancio di gas lacrimogeni e cariche delle forze dell’ordine, con le quali si mescolò il corteo (Relazione conclusiva dell’indagine parlamentare, pagg. 27-28).

21. Nel corso dei due giorni di incidenti, parecchie centinaia di manifestanti e di membri delle forze dell’ordine furono feriti o intossicati dal gas dei lacrimogeni. Interi quartieri della città di Genova furono devastati.

B. La costituzione di unità speciali di forze dell’ordine per arrestare i black bloc

22. La mattina del 21 luglio 2001, il capo della polizia ordinò al prefetto A., vice capo vicario della polizia e capo della struttura plenipotenziaria, di affidare la direzione di una perquisizione della scuola Paul Klee a M.G., capo del servizio centrale operativo della polizia criminale («SCO») (si veda la sentenza n. 1530/2010 della corte d’appello di Genova del 18 maggio 2010 («sentenza d’appello»), pag. 194). All’esito di questa operazione furono arrestate una ventina di persone che vennero immediatamente rimesse in libertà su ordine della procura o del giudice per le indagini preliminari (sentenza d’appello, pag. 196).

23. Dalle dichiarazioni del prefetto A. rese dinanzi al tribunale di Genova risulta che l’ordine del capo della polizia si spiegava con la sua volontà di passare ad una linea di condotta più «incisiva» che doveva portare a degli arresti per cancellare l’impressione che la polizia non avesse reagito dinanzi ai saccheggi e alle devastazioni commessi in città. Il capo della polizia avrebbe voluto costituire grandi pattuglie miste, sotto la direzione di funzionari delle unità mobili e dello SCO e coordinate da funzionari di sua fiducia, allo scopo di arrestare i black bloc (si veda la sentenza n. 4252/08 del tribunale di Genova, emessa il 13 novembre 2008 e depositata l’11 febbraio 2009 («la sentenza di primo grado»), pag. 243; si veda anche la sentenza n. 38085/12 della Corte di cassazione del 5 luglio 2012, depositata il 2 ottobre 2012 («la sentenza della Corte di cassazione»), pagg. 121 122).

24. Il 21 luglio, alle ore 19.30, M.G. ordinò a M.M., capo della divisione investigazioni generali e operazioni speciali (DIGOS) di Genova, di mettere a disposizione alcuni agenti della sua unità affinché fossero formate, con altri agenti dell’unità mobile di Genova e dello SCO, le pattuglie miste (Rapporto finale dell’inchiesta parlamentare, pag. 29).

C. I fatti che avevano preceduto l’irruzione della polizia nelle scuole Diaz-Pertini e Diaz-Pascoli

25. Il comune di Genova aveva messo a disposizione del GSF, tra l’altro, i locali di due scuole adiacenti, situate in via Cesare Battisti, affinché vi fosse installato un centro multimediale. In particolare, la scuola Diaz-Pascoli («Pascoli») ospitava l’ufficio stampa e degli uffici provvisori di avvocati; la scuola Diaz-Pertini ospitava un internet point. A causa del violento temporale che si era abbattuto sulla città e che aveva reso inagibili alcune zone di campeggio, il comune aveva autorizzato l’uso della scuola Diaz-Pertini come luogo di soggiorno e pernottamento per i manifestanti.

26. Il 20 e 21 luglio alcuni abitanti del quartiere segnalarono alle forze dell’ordine che dei giovani vestiti di nero erano entrati nella scuola Diaz-Pertini ed avevano preso del materiale nel cantiere aperto per i lavori in corso.

27. All’inizio della serata del 21 luglio, una delle pattuglie miste transitò per via Cesare Battisti, provocando un’accesa reazione verbale da parte di decine di persone che si trovavano dinanzi alle due scuole. Una bottiglia vuota fu lanciata in direzione dei veicoli della polizia (sentenza di primo grado, pagg. 244-249, e sentenza della Corte di cassazione, pag. 122).

28. Di ritorno in questura, i funzionari della polizia che dirigevano la pattuglia riferirono i fatti nel corso di una riunione tenutasi fra i più alti funzionari delle forze dell’ordine (in particolare il prefetto A., il prefetto L.B., il questore C. e M.G.).

29. Dopo essersi messi in contatto con il responsabile del GSF al quale era stata affidata la scuola Diaz-Pertini, essi decisero di effettuare una perquisizione per raccogliere elementi di prova e, eventualmente, arrestare i membri dei black bloc responsabili dei saccheggi. Dopo aver scartato l’ipotesi di un attacco alla scuola con gas lacrimogeni, essi decisero di agire secondo le seguenti modalità: una unità della polizia, costituita principalmente da agenti appartenenti a una divisione specializzata nelle operazioni antisommossa e che aveva seguito una formazione ad hoc (il «VII Nucleo antisommossa», costituito in seno all’unità mobile di Roma) doveva «mettere in sicurezza» l’edificio; un’altra unità doveva eseguire la perquisizione; infine una unità dei carabinieri doveva circondare l’edificio al fine di impedire la fuga delle persone sospettate. Anche il capo della polizia fu informato dell’operazione (sentenza di primo grado, pagg. 226 e 249-252, e Relazione conclusiva dell’indagine parlamentare, pagg. 29-31).

30. Verso la fine della serata, molti agenti delle forze dell’ordine, provenienti da diverse unità e servizi, lasciarono la questura di Genova e si diressero verso via Cesare Battisti (Relazione conclusiva dell’indagine parlamentare, idem). Secondo la sentenza della Corte di cassazione, il numero complessivo dei partecipanti all’operazione era di «circa 500 tra agenti di polizia e carabinieri, questi ultimi incaricati solo della cinturazione degli edifici». La sentenza d’appello (pag. 204) sottolinea che questo numero non è mai stato stabilito con precisione.

D. L’irruzione della polizia nella scuola Diaz-Pertini

31. Verso mezzanotte, una volta arrivati in prossimità delle due scuole, i membri del VII Nucleo antisommossa, dotati di caschi, scudi e manganelli di tipo tonfa, nonché altri agenti equipaggiati allo stesso modo iniziarono ad avanzare a passo di corsa. Un giornalista e un consigliere comunale, che si trovavano all’esterno degli edifici delle due scuole, furono colpiti con calci e manganelli (sentenza di primo grado, pagg. 253-261).

32. Alcuni occupanti della scuola Diaz-Pertini che si trovavano all’esterno rientrarono quindi nell’edificio e chiusero il cancello e le porte d’ingresso, tentando di bloccarle con dei banchi di scuola e delle tavole di legno. Gli agenti di polizia si ammassarono davanti al cancello che forzarono con un mezzo blindato dopo aver tentato invano di sfondarlo a spallate. Infine, l’unità di polizia descritta sopra sfondò la porta d’ingresso (ibidem).

33. Gli agenti si divisero nei piani dell’edificio, parzialmente immersi nel buio. La maggior parte di loro aveva il viso coperto da un foulard, essi cominciarono a colpire gli occupanti con pugni, calci e manganelli, gridando e minacciando le vittime. Alcuni gruppi di agenti si accanirono anche su degli occupanti che erano seduti o allungati per terra. Alcuni degli occupanti, svegliati dal rumore dell’assalto, furono colpiti mentre si trovavano ancora nei loro sacchi a pelo; altri lo furono mentre tenevano le braccia in alto in segno di resa o mostravano le loro carte d’identità. Altri occupanti tentarono di scappare e si nascosero nei bagni o nei ripostigli dell’edificio, ma furono riacciuffati, colpiti, talvolta tirati fuori dai loro nascondigli per i capelli (sentenza di primo grado, pagg. 263-280, e sentenza d’appello, pagg. 205-212).

34. Il ricorrente, che all’epoca dei fatti aveva sessantadue anni, si trovava a piano terra. Svegliato dal rumore, all’arrivo della polizia si era seduto con le spalle al muro, a fianco di un gruppo di occupanti e aveva le braccia alzate (sentenza di primo grado, pagg. 263-265 e 313). Fu colpito soprattutto sulla testa, le braccia e le gambe, i colpi ricevuti gli provocarono fratture multiple: fratture dell’ulna destra, dello stiloide destro, del perone destro e di varie costole. Secondo le dichiarazioni dell’interessato rese dinanzi al tribunale di Genova, il personale sanitario entrato nella scuola dopo le violenze lo aveva preso in carico per ultimo, nonostante le sue richieste di soccorso.

35. Il ricorrente fu operato presso l’ospedale Galliera di Genova, dove rimase quattro giorni, poi, qualche anno dopo, presso l’Ospedale Careggi di Firenze. Gli venne riconosciuta una incapacità temporanea al lavoro superiore a quaranta giorni. Delle ferite descritte sopra è rimasta la debolezza permanente del braccio destro e della gamba destra (sentenza di primo grado, pagg. XVII e 345).

E. L’irruzione della polizia nella scuola Pascoli

36. Poco dopo l’irruzione nella scuola Diaz-Pertini, una unità di agenti fece irruzione nella scuola Pascoli, dove alcuni giornalisti stavano filmando ciò che succedeva sia all’esterno che all’interno della scuola Diaz-Pertini. Una stazione radio raccontava questi eventi in diretta.

37. All’arrivo degli agenti, i giornalisti furono obbligati a terminare le loro riprese e la trasmissione radio. Alcune cassette che contenevano le riprese filmate raccolte durante i tre giorni del summit furono sequestrate e gli hard disk dei computer degli avvocati del GSF furono gravemente danneggiati (sentenza di primo grado, pagg. 300-310).

F. Gli eventi che seguirono l’irruzione nelle scuole Diaz- Pertini e Pascoli

38. Dopo l’irruzione nella scuola Diaz-Pertini, le forze dell’ordine vuotarono gli zaini e gli altri bagagli degli occupanti, senza cercare di identificarne i rispettivi proprietari né di spiegare la natura dell’operazione in corso. Riunirono una parte degli oggetti così raccolti in un telo nero che si trovava nella palestra della scuola. Nel corso di questa operazione, alcuni occupanti furono portati in questa stessa sala e costretti a sedersi o ad allungarsi per terra (sentenza di primo grado, pagg. 285-300).

39. I novantatré occupanti della scuola furono arrestati e accusati di associazione per delinquere finalizzata al saccheggio e alla devastazione.

40. Per la maggior parte furono condotti negli ospedali della città. Alcuni di loro furono trasferiti immediatamente nella caserma di Bolzaneto.

41. Nella notte tra il 21 e il 22 luglio, il capo dell’ufficio stampa della polizia italiana, intervistato in prossimità delle scuole, dichiarò che, nel corso della perquisizione, la polizia aveva trovato abiti e cappucci neri simili a quelli utilizzati dai black bloc. Egli aggiunse che le numerose macchie di sangue nell’edificio erano dovute alle ferite che la maggior parte degli occupanti della scuola Diaz-Pertini si sarebbero procurate durante gli scontri verificatisi nel corso della giornata (sentenza di primo grado, pagg. 170-172).

42. Il giorno successivo, nella questura di Genova, la polizia mostrò alla stampa gli oggetti sequestrati durante la perquisizione, soprattutto due bottiglie molotov. Fu anche mostrata la divisa di un agente che aveva partecipato all’irruzione nella scuola Diaz-Pertini; questa presentava una lacerazione netta che poteva essere stata causata da una coltellata (ibidem).

43. I procedimenti penali avviati a carico degli occupanti per i capi di accusa di associazione per delinquere volta al saccheggio e alla devastazione, resistenza aggravata alle forze dell’ordine e porto abusivo di armi si sono conclusi con l’assoluzione degli interessati.

G. Il procedimento penale avviato contro i membri delle forze dell’ordine per l’irruzione nelle scuole Diaz-Pertini e Pascoli

44. La procura della Repubblica di Genova aprì un’indagine per stabilire gli elementi sui quali si era fondata la decisione di fare irruzione nella scuola Diaz-Pertini, e per chiarire le modalità di esecuzione dell’operazione, l’aggressione con il coltello che era stata commessa nei confronti di un agente e la scoperta delle bottiglie molotov, nonché gli eventi che avevano avuto luogo nella scuola Pascoli.

45. Nel dicembre 2004, dopo circa tre anni di indagini, furono rinviate a giudizio ventotto persone fra funzionari, dirigenti e agenti delle forze dell’ordine. In seguito, due procedimenti riguardanti altri tre agenti furono uniti al primo.

46. Il ricorrente si era costituito parte civile all’udienza preliminare del 3 luglio 2004. In totale, le parti civili, fra cui decine di occupanti italiani e stranieri delle due scuole nonché sindacati e altre associazioni non governative, erano centodiciannove.

47. Questo procedimento aveva ad oggetto gli eventi della scuola Diaz-Pertini, luogo in cui alloggiava il ricorrente (paragrafi 31-34 supra), e quelli della scuola Pascoli (paragrafi 36 e 37 supra). Comportò l’audizione di più di trecento persone fra imputati e testimoni (tra cui molti stranieri), due perizie e l’esame di un abbondante materiale audiovisivo.

1. Sugli eventi della scuola Diaz-Pertini

48. I capi di accusa presi in esame relativamente agli eventi della scuola Diaz-Pertini furono i seguenti: falso ideologico, calunnia semplice e aggravata, abuso di ufficio (soprattutto per l’arresto illegale degli occupanti), lesioni personali semplici e aggravate nonché porto abusivo di armi da guerra.

a) La sentenza di primo grado

49. Con la sentenza n. 4252/08 del 13 novembre 2008, depositata l’11 febbraio 2009, il tribunale di Genova dichiarò dodici degli imputati colpevoli dei delitti di falso (un imputato), di calunnia semplice (due imputati) e di calunnia aggravata (un imputato), di lesioni personali semplici e aggravate (dieci imputati) nonché di porto abusivo di armi da guerra (due imputati). Il tribunale li condannò a pene comprese tra 2 e 4 anni di reclusione, all’interdizione dai pubblici uffici per tutta la durata della pena principale nonché, in solido con il Ministero dell’Interno, al pagamento delle spese e al versamento del risarcimento danni alle parti civili, alle quali il tribunale accordò una provvisionale compresa tra i 2.500 e i 50.000 euro (EUR).
In particolare, al ricorrente fu accordata una provvisionale di 35.000 EUR, che fu versata nel luglio 2009 in seguito a un sequestro presso terzi.

50. Per la determinazione delle pene principali, il tribunale tenne conto, in quanto circostanze attenuanti, del fatto che gli autori dei delitti avevano un casellario giudiziale vergine e che avevano agito in condizione di stress e di fatica. Un condannato beneficiò della sospensione condizionale della pena e della non menzione nel casellario giudiziale. Peraltro, in applicazione della legge n. 241 del 29 luglio 2006 che stabiliva le condizioni da soddisfare per ottenere l’indulto, dieci dei condannati beneficiarono di un indulto totale della loro pena principale e uno di loro, condannato a quattro anni di reclusione, beneficiò di un indulto di tre anni.

51. Nella motivazione della sentenza (373 pagine su 527), il tribunale scartò, innanzitutto, la tesi secondo la quale l’operazione sarebbe stata organizzata fin dall’inizio come una spedizione punitiva contro i manifestanti. Dichiarò di ammettere che le forze dell’ordine potessero pensare, alla luce degli eventi che avevano preceduto l’irruzione (in particolare, le indicazioni degli abitanti del quartiere e l’aggressione contro la pattuglia nel pomeriggio del 21 luglio – paragrafi 26-27 supra), che la scuola Diaz-Pertini ospitasse anche dei black bloc. Tuttavia il tribunale ritenne che gli eventi controversi costituissero una violazione chiara della legge e al tempo stesso di ogni principio di umanità e di rispetto della persona. In effetti, secondo lui, anche in presenza dei black bloc, le forze dell’ordine erano autorizzate a utilizzare la forza soltanto nella misura necessaria per vincere la resistenza violenta degli occupanti, e ciò fatto salvo il rispetto del rapporto di proporzionalità tra la resistenza incontrata e i mezzi utilizzati. Ora, sottolineò il tribunale, né il ricorrente né ad esempio un’altra occupante che era di bassa statura avrebbero potuto compiere degli atti di resistenza tali da giustificare i colpi che sarebbero stati loro inferti e che avevano provocato ecchimosi e fatture.

52. Il tribunale sottolineò anche che la procura non aveva richiesto il rinvio a giudizio degli autori materiali delle violenze, tenuto conto della difficoltà di procedere alla loro identificazione, e che la polizia non aveva collaborato efficacemente. Al riguardo notò che alla procura erano state fornite delle foto vecchie dei funzionari accusati e che erano stati necessari sette anni per identificare un agente particolarmente violento – filmato nel corso dell’irruzione – nonostante la sua capigliatura lo rendesse facilmente riconoscibile.

53. Nella valutazione della responsabilità individuale degli accusati, il tribunale ritenne che, tenuto conto delle circostanze della causa, gli autori materiali avevano agito con la convinzione che i loro superiori tollerassero gli atti da loro commessi. Precisò che il fatto che alcuni funzionari e dirigenti, presenti sui luoghi sin dall’inizio dell’operazione, non avessero immediatamente impedito la prosecuzione delle violenze aveva contribuito alle condotte degli agenti del VII Nucleo antisommossa e degli altri membri delle forze dell’ordine. Pertanto, secondo il tribunale, soltanto questi funzionari e dirigenti potevano essere giudicati colpevoli di complicità nel delitto di lesioni.

54. Il tribunale esaminò poi la tesi della procura secondo la quale le forze dell’ordine avevano fabbricato delle false prove e riferito degli eventi non corrispondenti al vero allo scopo di giustificare, a posteriori, sia le perquisizioni che le violenze.

55. In particolare, per quanto riguardava il comportamento degli occupanti prima dell’irruzione della polizia, il tribunale osservò che le registrazioni video acquisite al fascicolo non mostravano lanci di oggetti di grandi dimensioni dall’edificio, ma che si poteva considerare, secondo le dichiarazioni di un testimone e secondo l’atteggiamento degli agenti, filmati con i loro scudi alzati al di sopra della testa, che qualche piccolo oggetto (monete, bulloni, ecc.) era stato verosimilmente lanciato sugli agenti mentre questi tentavano di sfondare la porta d’ingresso della scuola.

56. Per quanto riguarda la presunta aggressione con il coltello subita da un agente, il tribunale, visti i risultati della perizia eseguita sulla divisa di questo agente e gli elementi di cui disponeva, espose che non poteva concludere che tale aggressione fosse realmente avvenuta né escludere tale possibilità.

57. Inoltre, il tribunale notò che le due bottiglie molotov mostrate alla stampa il 22 luglio erano state trovate in città dalla polizia nel pomeriggio del 21 luglio e in seguito, su iniziativa del vicequestore di Genova, portate nel cortile della scuola verso la fine della perquisizione, e che avevano finito per essere ritrovate, in circostanze poco chiare, fra gli oggetti raccolti e ammassati nel ginnasio.

58. Infine, il tribunale ritenne che il verbale dell’operazione contenesse una descrizione dei fatti non corrispondente al vero, perché attestava una resistenza violenta da parte di tutti gli occupanti e non menzionava affatto che la maggior parte di costoro erano stati feriti dalle forze dell’ordine.

b) La sentenza d’appello

59. La corte d’appello di Genova, adita dagli imputati, dalla procura della Repubblica presso il tribunale di Genova, dal procuratore generale, dal Ministero dell’Interno (responsabile civile) e dalla maggior parte delle vittime, fra cui il ricorrente, con la sentenza n. 1530/10 del 18 maggio 2010, depositata il 31 luglio 2010, riformò parzialmente la sentenza impugnata.

60. La corte d’appello dichiarò gli imputati colpevoli dei delitti di falso (diciassette imputati), di lesioni aggravate (nove imputati) e di porto abusivo di armi da guerra (un imputato) condannandoli a pene comprese tra tre anni e otto mesi e cinque anni di reclusione, e all’interdizione dai pubblici uffici per cinque anni. In applicazione della legge n. 241 del 29 luglio 2006, tutti i condannati beneficiarono di un indulto di tre anni.

61. Poiché il termine di prescrizione dei delitti di calunnia aggravata (quattordici accusati), di abuso di ufficio per l’arresto illegale degli occupanti della scuola Diaz-Pertini (dodici imputati) e di lesioni semplici (nove imputati) era scaduto, la corte d’appello dichiarò non doversi procedere nei confronti di costoro. Dichiarò non doversi procedere anche nei confronti del capo del VII Nucleo antisommossa, condannato in primo grado per lesioni aggravate. Infine, la corte d’appello assolse una persona accusata del delitto di calunnia semplice e di porto abusivo di arma da guerra e un’altra persona accusata del delitto di calunnia semplice.

62. Le condanne al risarcimento dei danni nonché al pagamento delle spese, emesse in primo grado, furono essenzialmente confermate, con estensione degli obblighi civili agli imputati che erano stati condannati per la prima volta in secondo grado.

63. Nella motivazione della sentenza (120 pagine su 313), la corte d’appello precisò innanzitutto che, anche se i sospetti relativi alla presenza delle armi utilizzate dei black bloc per i saccheggi potevano giustificare, in linea di principio, la perquisizione nelle scuole, gli indizi che consentivano di concludere che tutti gli occupanti delle due scuole fossero armati e potessero essere considerati appartenenti ai black bloc erano tuttavia molto deboli.

64. La corte d’appello indicò poi che parecchi elementi dimostravano che l’operazione non si prefiggeva affatto l’identificazione dei black bloc e che era di tutt’altra natura.

65. In primo luogo, i più alti responsabili della polizia, fin dalla pianificazione della «perquisizione», avrebbero previsto che le prime linee delle forze dell’ordine sarebbero state costituite dal VII Nucleo antisommossa e da altri agenti armati pesantemente; a queste unità non sarebbe stato dato alcun ordine, soprattutto in merito all’uso della forza contro gli occupanti, in quanto il loro unico compito era quello di mettere in sicurezza l’edificio.

66. In secondo luogo, anche alcune persone che si trovavano all’esterno della scuola Diaz-Pertini e che non avevano mostrato il minimo segno di resistenza sarebbero state immediatamente attaccate dalle forze dell’ordine.

67. In terzo luogo, le forze dell’ordine avrebbero attaccato sfondando le porte senza aver tentato di parlare con gli occupanti per spiegare loro che doveva essere eseguita una «perquisizione inoffensiva», e senza farsi aprire pacificamente la porta, secondo la corte d’appello legittimamente chiusa da questi ultimi. Una volta nell’edificio, gli agenti avrebbero sistematicamente picchiato gli occupanti in maniera crudele e sadica, anche mediante manganelli non regolamentari. Secondo la corte d’appello, le tracce di sangue visibili sulle foto scattate nel corso dell’ispezione sui luoghi erano fresche e non potevano che essere il risultato di queste violenze, contrariamente alla «vergognosa tesi» secondo la quale provenivano dalle ferite verificatesi durante i saccheggi dei giorni precedenti.

68. Alla luce di questi elementi, la corte d’appello ritenne che lo scopo di tutta l’operazione fosse quello di eseguire numerosi arresti, anche in assenza di finalità di ordine giudiziario, in quanto era essenziale porre rimedio presso i media all’immagine di una polizia percepita come impotente. I più alti funzionari delle forze dell’ordine avrebbero dunque radunato attorno al VII Nucleo antisommossa una unità armata pesantemente, dotata di manganelli di tipo tonfa i cui colpi potevano essere mortali, e avrebbero dato come unica raccomandazione quella di neutralizzare gli occupanti della scuola Diaz-Pertini, stigmatizzando questi ultimi come pericolosi teppisti, autori dei saccheggi dei giorni precedenti. La condotta violenta e coordinata di tutti gli agenti che avevano preso parte all’operazione sarebbe stata conseguenza naturale di tali indicazioni.

69. Così, secondo la corte d’appello, almeno tutti i funzionari a capo e i dirigenti del VII Nucleo antisommossa erano colpevoli delle lesioni inflitte agli occupanti. Per quanto riguarda i responsabili della polizia di rango più elevato, la corte d’appello precisò che la decisione di non chiedere il loro rinvio a giudizio impediva di valutare la loro responsabilità in ambito penale.

70. Inoltre, secondo la corte d’appello, una volta presa la decisione di assalire l’edificio e di procedere agli arresti, le forze dell’ordine avevano tentato di giustificare il loro intervento a posteriori.

71. A tale riguardo, la corte d’appello notò, da una parte, che, nel corso dell’indagine, erano stati attribuiti agli occupanti dei delitti che questi non avevano commesso: in effetti, secondo la corte, dall’istruzione non risultava affatto che gli occupanti avessero resistito alle forze dell’ordine né che contro di loro avessero lanciato oggetti mentre stazionavano nel cortile della scuola, in quanto gli scudi di qualche agente erano levati verosimilmente per semplice precauzione; e soprattutto, tenuto conto di tutte le circostanze, l’aggressione con il coltello asseritamente subita da un agente nel corso dell’irruzione si sarebbe rivelata come una «impudente messa in scena».

72. La corte d’appello rilevò d’altra parte che i più alti funzionari delle forze dell’ordine, presenti sui luoghi, avevano convenuto di sistemare le due bottiglie molotov, trovate altrove nel pomeriggio, fra gli oggetti raccolti durante la perquisizione e ciò allo scopo di giustificare la decisione di effettuare la perquisizione e di arrestare gli occupanti della scuola. Per la corte d’appello, questo arresto, privo di base fattuale e giuridica, era dunque illegale.

73. Nella determinazione delle pene da infliggere, la corte d’appello ritenne che, fatta eccezione per il capo del VII Nucleo antisommossa che aveva tentato di limitare le violenze e alla fine aveva confessato i delitti nel corso del dibattimento, non poteva essere ritenuta nessuna circostanza attenuante per gli altri imputati. Basandosi soprattutto sulle dichiarazioni del ricorrente, la corte d’appello sottolineò che gli agenti delle forze dell’ordine si erano trasformati in «picchiatori violenti», indifferenti a qualsiasi vulnerabilità fisica legata al sesso e all’età come pure a qualsiasi segno di capitolazione, anche da parte di persone che erano state svegliate bruscamente dal rumore dell’attacco. La corte d’appello indicò che a tutto ciò gli agenti avevano aggiunto ingiurie e minacce. Così facendo, essi avrebbero gettato sull’Italia il discredito dell’opinione pubblica internazionale. Per di più, dopo aver commesso le violenze, le forze dell’ordine avrebbero avanzato tutta una serie di circostanze a carico degli occupanti, inventate di sana pianta.
Il carattere sistematico e organizzato delle violenze da parte dei poliziotti nonché i suddetti tentativi di giustificarle a posteriori denotavano, secondo la corte d’appello, un comportamento consapevole e concertato piuttosto che una condizione di stress e di fatica.

74. Tuttavia, tenendo conto del fatto che tutta l’operazione in causa era stata disposta su ordine del capo della polizia di eseguire degli arresti e che dunque gli imputati avevano chiaramente agito sotto questa pressione psicologica, la corte d’appello determinò le pene prendendo in considerazione il minimo edittale per ciascuno dei delitti in questione.

c) La sentenza della Corte di cassazione

75. Gli imputati, il procuratore generale presso la corte d’appello di Genova, il Ministero dell’Interno (responsabile civile) e alcune delle vittime proposero ricorso per cassazione avverso la sentenza d’appello; il ricorrente e altre vittime si costituirono parte civile.

76. Con la sentenza n. 38085/12 del 5 luglio 2012, depositata il 2 ottobre 2012, la Corte di cassazione confermò essenzialmente la sentenza impugnata, dichiarando tuttavia prescritto il delitto di lesioni aggravate per il quale dieci imputati e nove imputati erano stati rispettivamente condannati in primo e in secondo grado (paragrafi 49 e 60 supra).

77. Nella motivazione della sentenza (71 pagine su 186), la Corte di cassazione esaminò innanzitutto l’eccezione di illegittimità costituzionale dell’articolo 157 del codice penale, in materia di prescrizione dei reati, sollevata dal procuratore generale in relazione all’articolo 3 della Convenzione e, di riflesso, con l’articolo 117, primo comma, della Costituzione. Essa osservò che – come constatato dalle decisioni di primo e secondo grado e come, peraltro, non sarebbe mai stato contestato – «le violenze perpetrate dalla polizia nel corso dell’intervento presso la scuola Diaz-Pertini [erano] state di una gravità inusitata». L’«assoluta gravità» starebbe nel fatto che queste violenze generalizzate, commesse in tutti i locali della scuola, si erano scatenate contro persone all’evidenza disarmate, dormienti o sedute con le mani alzate; si sarebbe trattato dunque di «violenza non giustificata e, come correttamente rilevato dal Procuratore generale, [esercitata con finalità] punitiva, vendicativa e diretta all’umiliazione ed alla sofferenza fisica e mentale delle vittime». Per la Corte di cassazione queste violenze potevano definirsi «tortura» secondo la Convenzione ONU contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti oppure dei «trattamenti inumani o degradanti» ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione.

78. La Corte di cassazione rilevò che, mancando un reato ad hoc nell’ordinamento giuridico italiano, le violenze in causa erano state perseguite come delitti di lesioni personali semplici o aggravate in relazione alla quali, in applicazione dell’articolo 157 del codice penale, era intervenuta la prescrizione nel corso del procedimento. La Suprema Corte notò che era questo il motivo per cui il Procuratore Generale aveva denunciato la contraddizione tra la regolamentazione della prescrizione dei reati prevista dall’articolo 157 del codice penale – nella misura in cui tale disposizione non includerebbe fra i delitti imprescrittibili i maltrattamenti di cui all’articolo 3 della Convenzione – e l’articolo 3 della Convenzione che, secondo una consolidata giurisprudenza della Corte, comporterebbe l’obbligo di sanzionare adeguatamente i maltrattamenti e sarebbe dunque di ostacolo alla prescrizione dei delitti o dell’azione penale in materia.
La Corte di cassazione ritenne tuttavia che un cambiamento delle regole della prescrizione, come proposto dal procuratore generale, si poneva al di fuori dei poteri della Corte costituzionale in quanto, ai sensi dell’articolo 25 della Costituzione italiana, soltanto il legislatore poteva stabilire i reati e le sanzioni penali.

79. Per quanto riguarda i delitti di lesioni personali, la Corte di cassazione, dopo aver riepilogato i fatti che precedettero l’irruzione della polizia (paragrafi 25-30 supra), ritenne logica la constatazione della corte d’appello secondo la quale l’esortazione del capo della polizia ad eseguire arresti avrebbe comportato, sin dall’inizio, la «militarizzazione» dell’operazione di perquisizione che la polizia doveva realizzare nella scuola. Per la Corte di cassazione, l’elevato numero di agenti, la mancanza di istruzioni sulle modalità operative alternative al lancio dei lacrimogeni contro la scuola (paragrafo 29 supra) e l’assenza di qualsiasi direttiva in merito all’uso della forza contro gli occupanti dimostravano, assieme ad altri elementi, che questa operazione non era stata concepita come una perquisizione inoffensiva. Queste modalità operative avrebbero comportato il pestaggio di quasi tutti gli occupanti della scuola, con la conseguente conferma della responsabilità, fra altri, dei funzionari a capo del VII Nucleo antisommossa. Dapprima costoro non avrebbero fornito alcuna indicazione su come «mettere in sicurezza» l’edificio e non avrebbero mai infornato gli agenti della possibile presenza di persone inoffensive; inoltre, non avrebbero impedito l’aggressione contro alcune persone che si trovavano all’esterno dell’edificio, l’irruzione violenta nella scuola e l’assalto contro gli occupanti del luogo. In conclusione, come correttamente giudicato dalla corte d’appello, questi funzionari sarebbero stati consapevoli che la violenza era connaturata all’esecuzione di questo tipo di operazione.
Tuttavia, la Corte di cassazione notò che anche per i delitti di lesioni personali aggravate era intervenuta la prescrizione il 3 agosto 2010 in seguito al gioco dei termini, dei criteri di calcolo e delle interruzioni procedurali previste dagli articoli 157 e seguenti del codice penale, come modificati dalla legge n. 251 del 5 dicembre 2005.

80. La Corte di cassazione confermò inoltre le conclusioni della sentenza d’appello quanto al delitto di falso, di calunnia e di porto abusivo di armi da guerra commessi, nell’ambito di una «scellerata operazione mistificatoria», per giustificare a posteriori le violenze perpetrate nella scuola e l’arresto degli occupanti. La suprema Corte rilevò, da una parte, che gli occupanti della scuola non avevano opposto resistenza, né prima dello sfondamento della porta di ingresso né all’interno dei locali e, dall’altra parte, che gli occupanti non erano in possesso di bottiglie molotov, in quanto queste ultime erano state introdotte nella scuola dalla polizia dall’esterno. Anche la Corte di cassazione concluse per il carattere fallace dei rapporti della polizia che attestavano il contrario e per il carattere calunnioso dell’accusa di associazione per delinquere formulata contro gli occupanti. Quanto alle conclusioni della sentenza d’appello relativa all’aggressione con il coltello che un agente asseriva di aver subito, la Corte di cassazione si limitò a rideterminare la pena pronunciata contro due agenti condannati in seguito a ciò per falso (tre anni e cinque mesi, come indicato nella motivazione della sentenza di appello, in luogo di tre anni e otto mesi, come indicato nel dispositivo). Infine, pronunciò una pena di tre anni e tre mesi nei confronti di una persona condannata per falso, in seguito alla prescrizione del delitto di lesioni personali aggravate e alla inapplicabilità che ne derivava del criterio di calcolo previsto dall’articolo 81 del codice penale per la continuazione dei delitti.

2. Sugli eventi della scuola Pascoli

81. I capi di accusa ritenuti per gli eventi della scuola Pascoli furono, in particolare, i delitti di perquisizione arbitraria e danneggiamento.

82. Con la sentenza n. 4252/08 (paragrafo 49 supra), il tribunale di Genova ritenne che l’irruzione degli agenti della polizia nella scuola Pascoli fosse la conseguenza di un errore nell’individuare l’edificio da perquisire. Inoltre giudicò che non vi fossero prove certe per poter concludere che gli imputati avessero effettivamente commesso i danni denunciati nella scuola Pascoli.

83. Con la sentenza n. 1530/10 (paragrafo 59 supra), la corte d’appello di Genova ritenne, al contrario, che non vi fosse errore o malinteso all’origine dell’irruzione della polizia nella scuola Pascoli. Secondo la corte d’appello, le forze dell’ordine avevano voluto eliminare ogni prova filmata dell’irruzione che si svolgeva nella vicina scuola Diaz-Pertini e avevano volontariamente danneggiato i computer degli avvocati. La corte d’appello dichiarò tuttavia non doversi procedere nei confronti del funzionario di polizia accusato essendo intervenuta la prescrizione dei delitti.

84. Con la sentenza n. 38085/12 (paragrafo 76 supra), la Corte di cassazione confermò questa decisione sottolineando che la corte d’appello aveva pienamente giustificato le sue conclusioni rilevando che, nella scuola Pascoli, la polizia aveva eseguito una perquisizione arbitraria, allo scopo di cercare e distruggere il materiale audiovisivo e qualsiasi altra documentazione riguardante gli eventi della scuola Diaz-Pertini.

H. L’indagine parlamentare conoscitiva

85. Il 2 agosto 2001 i presidenti della Camera dei Deputati e del Senato decisero che le Commissioni Affari costituzionali delle due camere del Parlamento avrebbero avviato una indagine conoscitiva sui fatti accaduti in occasione dello svolgimento del G8 di Genova. A tale scopo fu creata una commissione composta da diciotto deputati e diciotto senatori.

86. Il 20 settembre 2001 la commissione depositò la relazione contenente le conclusioni della maggioranza, intitolata «Relazione conclusiva dell’indagine parlamentare conoscitiva sui fatti del G8 di Genova». Secondo questa relazione, la perquisizione nella scuola Diaz-Pertini «sembrava forse l’esempio più significativo di carenze organizzative e di disfunzioni operative».

II. IL DIRITTO E LA PRASSI INTERNI PERTINENTI

A. Le disposizioni penali pertinenti

87. L’articolo 39 del codice penale (CP) distingue i reati in due categorie: i delitti e le contravvenzioni.

1. I capi di imputazione presi in esame relativamente agli eventi della scuola Diaz-Pertini e le disposizioni pertinenti ai fini della determinazione delle pene

88. Secondo l’articolo 323 del CP, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, nello svolgimento delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge o di regolamenti, procura a sé o ad altri un ingiusto vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un danno ingiusto (delitto di abuso di ufficio) è punito con la reclusione da sei mesi a tre anni.

89. Secondo l’articolo 368, commi 1 e 2, del CP, chiunque, con denunzia diretta all’autorità giudiziaria o ad altra autorità che a quella abbia obbligo di riferirne, incolpa di un reato taluno che egli sa innocente o simula a carico di lui un reato, è punito con la reclusione da due a sei anni. La pena è aumentata se il delitto che costituisce l’oggetto della denuncia calunniosa è punito con almeno sei anni di reclusione.

90. Ai sensi dell’articolo 479 del CP, il pubblico ufficiale o l’incaricato di un pubblico servizio che, ricevendo o formando un atto nell’esercizio delle sue funzioni, attesta falsamente che un fatto è stato da lui compiuto o è avvenuto alla sua presenza o altera in altro modo la presentazione dei fatti dei quali l’atto è destinato a provare la verità (falsità ideologica in atti pubblici) è punito con la reclusione da uno a sei anni o, se l’atto ha fatto fede fino a querela di falso, da tre a dieci anni.

91. L’articolo 582 del CP stabilisce che chiunque cagiona ad alcuno una lesione personale, dalla quale deriva una malattia nel corpo o nella mente è punito con la reclusione da tre mesi a tre anni.
Ai termini dell’articolo 583 del CP, la lesione è considerata «grave» ed è punita con la reclusione da tre a sette anni se dal fatto deriva, in particolare, una infermità o una incapacità per un tempo superiore a quaranta giorni.
Secondo l’articolo 585 del CP, queste pene sono aumentate, in particolare, fino a un terzo se concorre alcuna delle circostanze aggravanti previste dall’articolo 577 del CP (ad esempio se il delitto è commesso con premeditazione o in una delle circostanze aggravanti previste dall’articolo 61, nn. 1 e 4 (paragrafo 93 infra).

92. Secondo l’articolo 2 della legge n. 895 del 2 ottobre 1967, chiunque detiene illegalmente armi o esplosivi è punito con la reclusione da uno a otto anni e con una multa.
L’articolo 4 della stessa legge sanziona chiunque porta in luogo pubblico o aperto al pubblico le armi o gli esplosivi con la reclusione da due a otto anni e con una multa; queste pene sono aumentate, tra l’altro, se il delitto è commesso da due o più persone o se è commesso di notte in un luogo abitato.

93. Il CP prevede come circostanze aggravanti comuni, tra altre, l’aver agito per motivi abbietti o futili (articolo 61, comma 1), l’aver commesso il reato per occultarne un altro (articolo 61, comma 2), l’aver adoperato sevizie o l’aver agito con crudeltà verso le persone (articolo 61, comma 4) e, infine, l’aver commesso il fatto con abuso dei poteri, o con violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico esercizio.
L’articolo 62 enumera le circostanze attenuanti comuni. Ai termini dell’articolo 62 bis del CP, nel determinare la pena, il giudice può prendere in considerazione altre circostanze non espressamente previste dall’articolo 62, qualora le ritenga tali da giustificare una diminuzione della pena.

94. Quando, con una sola sentenza si deve pronunciare condanna per più reati le pene detentive si cumulano come pure le ammende previste per i diversi delitti (articoli 71, 73 e 74 del CP). Tuttavia, la pena detentiva così calcolata non può essere superiore, complessivamente, al quintuplo della più grave fra le pene concorrenti, e comunque non può eccedere trenta anni (articolo 78, comma 1 del CP).

95. A colui che con più azioni o omissioni esecutive di un medesimo disegno criminoso commette più reati, il giudice deve infliggere la pena prevista per il reato più grave, aumentata fino al triplo e sempre nei limiti degli aumenti indicati, in particolare, dall’articolo 78 (articolo 81 del CP).

2. La prescrizione dei reati

96. La prescrizione costituisce uno dei motivi di estinzione dei reati (Capitolo I del Titolo VI del Libro I del CP). La sua regolamentazione è stata modificata dalla legge n. 251 del 5 dicembre 2005 e dal decreto-legge n. 92 del 23 maggio 2008.

97. Secondo l’articolo 157, comma 1, del CP, il reato è prescritto decorso il tempo corrispondente al massimo della pena edittale e comunque non inferiore a sei anni se si tratta di delitti e a quattro anni se si tratta di contravvenzioni.

98. Il secondo, terzo e quarto comma dell’articolo 157 fissano i criteri per calcolare il termine di prescrizione; il quinto comma prevede un termine di prescrizione di tre anni quando per il reato la legge stabilisce pene diverse da quella detentiva e da quella pecuniaria. Il sesto comma raddoppia i termini di prescrizione calcolati in base ai commi precedenti per alcuni reati (fra cui l’associazione per delinquere di stampo mafioso, la tratta degli esseri umani, il rapimento, il traffico di droga). Ai termini dell’ottavo comma dello stesso articolo, i reati per i quali la legge prevede la pena dell’ergastolo sono imprescrittibili.

99. La prescrizione è sempre espressamente rinunciabile dall’imputato (articolo 157, comma 7, del CP).

100. L’articolo 158, comma 1, del CP dispone che il termine di prescrizione decorre dal giorno della consumazione del reato.

101. Secondo l’articolo 160 del CP, il termine di prescrizione è prorogato in caso di interruzioni di natura procedurale, fra i quali figura la sentenza di condanna. Ai sensi del secondo comma dell’articolo 161, salvo alcuni reati che non sono pertinenti al caso di specie, le suddette interruzioni non possono prolungare il termine – calcolato in base all’articolo 157 – di più di un quarto e, in alcuni casi, di più della metà (in alcuni casi di recidiva), di più di due terzi (in caso di recidiva reiterata) o di oltre il doppio (se l’autore del reato è un delinquente abituale).

B. La legge n. 241 del 29 luglio 2006 (concessione di indulto)

102. La legge n. 241 del 29 luglio 2006 stabilisce le condizioni per la concessione dell’indulto. Essa contiene un unico articolo che, nella parte pertinente al caso di specie, recita:

«1. È concesso indulto, per tutti i reati commessi fino a tutto il 2 maggio 2006, nella misura non superiore a tre anni per le pene detentive e non superiore a 10.000 euro per quelle pecuniarie sole o congiunte a pene detentive (…)»

C. Rapporto tra azione civile e azione penale

103. Ai sensi degli articoli 75 e 76 del codice di procedura penale, il soggetto al quale il reato ha recato danno può esercitare l’azione civile davanti al giudice civile o in sede penale.

104. L’azione civile nel processo penale è esercitata mediante la costituzione di parte civile.

D. Relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2013

105. La relazione sull’amministrazione della giustizia nell’anno 2013 del primo presidente della Corte di cassazione, presentata il 24 gennaio 2014 in occasione dell’apertura dell’anno giudiziario, nella parte pertinente al caso di specie espone (pagina 29, traduzione [in francese. N.d.T.] della cancelleria):

«Fin dal 1989, […], l’Italia ha ratificato la Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura, impegnandosi a introdurre questo gravissimo reato anche nel nostro sistema penale, sancendo la sua imprescrittibilità e l’inapplicabilità di misure come l’amnistia e la grazia. A distanza di venticinque anni non è stato fatto nulla, sicché gli atti di tortura che anche in Italia si commettono vanno inevitabilmente in prescrizione, perché manca una legge che punisca la tortura come tale, fissando pene adeguate alla sua gravità.»

E. Proposta di legge volta a introdurre il delitto di tortura nell’ordinamento giuridico italiano

106. Il 5 marzo 2014 il Senato italiano ha approvato una proposta di legge (n. S-849, testo unificato con S-10, S-362, S-388, S-395, S-849 e S-874) volta a introdurre il reato di tortura nell’ordinamento giuridico italiano. Tale proposta è stata successivamente trasmessa alla Camera dei Deputati per l’approvazione.

III. ELEMENTI PERTINENTI DI DIRITTO INTERNAZIONALE

A. Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo

107. L’articolo 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10 dicembre 1948 dispone:

«Nessuno potrà essere sottoposto a tortura, né a pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti.»

B. Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici

108. L’articolo 7 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici del 16 dicembre 1966, entrato in vigore il 23 marzo 1976 e ratificato dall’Italia il 15 settembre 1978, dispone:

«Nessuno può essere sottoposto a tortura né a punizioni o trattamenti crudeli, inumani o degradanti. In particolare, nessuno può essere sottoposto, senza il suo libero consenso, ad un esperimento medico o scientifico.»

C. Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti

109. Gli articoli pertinenti al caso di specie della Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 10 dicembre 1984, entrata in vigore il 26 giugno 1987 e ratificata dall’Italia il 12 gennaio 1989, sono così formulati:

Articolo 1

«1. Ai fini della presente Convenzione, il termine “tortura” indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate.
2. Tale articolo non reca pregiudizio a qualsiasi strumento internazionale o a qualsiasi legge nazionale che contenga o possa contenere disposizioni di più vasta portata.»

Articolo 2

«1. Ogni Stato parte adotta misure legislative, amministrative, giudiziarie ed altre misure efficaci per impedire che atti di tortura siano commessi in qualsiasi territorio sottoposto alla sua giurisdizione. 
2. Nessuna circostanza eccezionale, quale che essa sia, che si tratti di stato di guerra o di minaccia di guerra, di instabilità politica interna o di qualsiasi altro stato di eccezione, può essere invocata per giustificare la tortura.
3. L’ordine di un superiore o di un’autorità pubblica non può essere invocato a giustificazione della tortura.»

Articolo 4

«1. Ogni Stato Parte vigila affinché tutti gli atti di tortura vengano considerati quali trasgressioni nei confronti del suo diritto penale. Lo stesso vale per i tentativi di praticare la tortura o ogni atto commesso da qualsiasi persona, che rappresenti una complicità o una partecipazione all’atto di tortura.

2. Ogni Stato Parte rende tali trasgressioni passibili di pene adeguate che tengano conto della loro gravità.»

Articolo 5

« 1. Ogni Stato Parte adotta le misure necessarie a determinare la sua competenza al fine di giudicare in merito alle trasgressioni di cui all’articolo 4, nei seguenti casi:

a) ) Qualora la trasgressione sia stata commessa su qualsiasi territorio sottoposto alla giurisdizione di detto Stato o a bordo di aeronavi o di navi immatricolate in questo Stato;

b) Qualora il presunto autore della trasgressione sia un cittadino di detto Stato;

c) Qualora la vittima sia un cittadino di detto Stato e quest’ultimo il giudice appropriato

2. Ogni Stato Parte adotta altresì le misure necessarie a determinare la sua competenza al fine di giudicare le suddette trasgressioni, qualora il loro presunto autore si trovi su qualsiasi territorio sottoposto alla sua giurisdizione, ed il detto Stato non lo estradi, in conformità all’articolo 8, verso uno degli Stati di cui al paragrafo 1 del presente articolo.

3. La suddetta Convenzione non esclude nessuna competenza penale esercitata in conformità alle leggi nazionali.»

Articolo 10

1. Ogni Stato Parte vigila affinché l’insegnamento e l’informazione relativi all’interdizione della tortura, siano parte integrante della formazione del personale civile o militare incaricato dell’applicazione delle leggi, del personale medico, degli agenti della funzione pubblica e di altre persone che possono intervenire nel corso della custodia, dell’interrogatorio o del trattamento di ogni individuo arrestato, detenuto o imprigionato in qualsiasi maniera.

2. Ogni Stato Parte inserisce detta interdizione nei regolamenti o nelle istruzioni promulgate in merito agli obblighi e alle competenze di tali persone.

Articolo 11

Ogni Stato Parte esercita una sistematica sorveglianza su regolamenti, istruzioni, metodi e pratiche di interrogatorio e sulle disposizioni relative alla custodia ed al trattamento delle persone arrestate, detenute o imprigionate in qualsiasi maniera, su qualsiasi territorio sottoposto alla sua giurisdizione, al fine di evitare ogni caso di tortura.

Articolo 12

Ogni Stato Parte vigila affinché le autorità competenti procedano immediatamente ad un’inchiesta imparziale, ogni volta che vi siano motivi ragionevoli di ritenere che un atto di tortura sia stato commesso su qualsiasi territorio sottoposto alla sua giurisdizione.

Articolo 13

Ogni Stato Parte garantisce ad ogni persona che pretende essere stata sottoposta alla tortura su qualsiasi territorio sottoposto alla sua giurisdizione, il diritto di sporgere denuncia davanti alle autorità competenti di detto Stato, che procederanno immediatamente ed imparzialmente all’esame della sua causa. Saranno presi provvedimenti per assicurare la protezione dell’attore e dei testimoni contro qualsiasi maltrattamento o intimidazione a causa della denuncia inoltrata o di qualsiasi deposizione resa.

Articolo 14

1. Ogni Stato Parte garantisce, nel suo sistema giuridico, alla vittima di un atto di tortura, il diritto di ottenere riparazione e di essere equamente risarcito ed in maniera adeguata, inclusi i mezzi necessari alla sua riabilitazione più completa possibile. In caso di morte della vittima, risultante da un atto di tortura, gli aventi causa di quest’ultima hanno diritto al risarcimento.

2. Il presente articolo non esclude alcun diritto al risarcimento cui la vittima od ogni altra persona avrebbe diritto in virtù delle leggi.

Articolo 16

1. Ogni Stato Parte s’impegna a proibire in ogni territorio, sottoposto alla sua giurisdizione, altri atti che costituiscono pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti che non siano atti di tortura come definiti all’articolo primo, allorché questi atti sono commessi da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. In particolare, gli obblighi enunciati agli articoli l0, 11, 12 e 13 sono applicabili mediante la sostituzione della menzione della tortura con la menzione di altre forme di pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti.

2. Le disposizioni della presente Convenzione non pregiudicano le disposizioni di ogni altro strumento internazionale o della legge nazionale che vietino le pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, o che siano relative all’estradizione o all’espulsione.

D. Dichiarazione sulla protezione di tutte le persone contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti

110. Gli articoli pertinenti al caso di specie della Dichiarazione sulla protezione di tutte le persone contro la tortura e altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite il 9 dicembre 1975, sono così formulati:

Articolo 4

«Ogni Stato, conformemente alle disposizioni della presente dichiarazione, adotta le misure effettive per impedire che sotto la sua giurisdizione siano praticati la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti.»

Articolo 7

«Ogni Stato vigila affinché tutti gli atti di tortura, come definiti all’articolo primo, vengano considerati delitti nella sua legislazione penale. Le stesse disposizioni devono applicarsi agli atti che costituiscono una partecipazione, complicità o istigazione alla tortura o un tentativo di praticare la tortura.»

Articolo 10

«Qualora una indagine effettuata conformemente all’articolo 8 o all’articolo 9 accerti che è stato manifestamente commesso un atto di tortura, come definito dall’articolo primo, è avviato un procedimento penale, conformemente alla legislazione nazionale, contro il o gli autori presunti dell’atto. Qualora venga considerata fondata la denuncia di altre forme di pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, il o gli autori presunti sono oggetto di procedimenti penali o disciplinari o di altri appropriati procedimenti.»

Articolo 11

«Quando è provato che un atto di tortura o altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti sono stati commessi da un agente della funzione pubblica o su sua istigazione, la vittima ha diritto di ottenere riparazione e di essere risarcita, conformemente alla legislazione nazionale.»

E. Principi di base dell’ONU sul ricorso alla forza e all’uso delle armi da fuoco da parte dei responsabili dell’applicazione delle leggi

111. Adottati il 7 settembre 1990 dall’ 8o Congresso delle Nazioni Unite per la prevenzione del crimine e il trattamento dei delinquenti, tali principi, nelle loro parti pertinenti, dispongono:
«(…)

3. La messa a punto e l’uso di armi neutralizzanti non letali dovrebbero essere oggetto di una attenta valutazione per ridurre al minimo i rischi nei confronti di terzi e l’uso di tali armi dovrebbe essere sottoposto ad un rigoroso controllo.

4. I responsabili dell’applicazione delle leggi, nello svolgimento delle loro funzioni, faranno ricorso per quanto possibile a mezzi non violenti prima di fare uso della forza o di armi da fuoco. Essi possono fare uso della forza o di armi da fuoco soltanto se gli altri mezzi non sono efficaci o non permettono di aspettarsi il risultato desiderato.

5. Quando l’uso legittimo della forza o delle armi da fuoco è inevitabile, i responsabili dell’applicazione delle leggi:

  1. Ne devono fare uso con moderazione e la loro azione sarà proporzionale alla gravità del reato e all’obiettivo legittimo da raggiungere;
  2. Si sforzeranno di provocare il minore dei danni e delle lesioni all’integrità fisica e di rispettare e preservare la vita umana;
  3. Vigileranno affinché a ogni persona ferita o colpita in altro modo vengano prestati il più rapidamente possibile l’assistenza e i soccorsi sanitari;
  4.  Vigileranno affinché la famiglia o i parenti della persona ferita o colpita in altro modo siano avvertiti il più rapidamente possibile.

(…)

7. I Governi faranno in modo che l’uso arbitrario o abusivo della forza o delle armi da fuoco da parte dei responsabili dell’applicazione delle leggi sia punito come un reato, in applicazione della legislazione nazionale.

8. Non può essere invocata alcuna circostanza eccezionale, come l’instabilità della situazione politica interna o uno stato di urgenza, per giustificare una deroga a questi Principi di base.
(…)

24. I poteri pubblici e le autorità di polizia devono fare in modo che i superiori gerarchici siano considerati responsabili se, sapendo o essendo tenuti a sapere che degli agenti incaricati dell’applicazione delle leggi sottoposti ai loro ordini fanno o hanno fatto ricorso all’uso illecito della forza o delle armi da fuoco, non hanno adottato tutte le misure in loro potere per impedire, far cessare o segnalare tale abuso.»

F. Osservazioni del Comitato dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite

112. Le Osservazioni finali del Comitato dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite riguardanti l’Italia, pubblicate il 18 agosto 1998 (UN Doc. CCPR/C/79/Add.94), riportano quanto segue nelle parti pertinenti nel caso di specie:

«13. Il Comitato è preoccupato per l’insufficienza delle sanzioni nei confronti del personale della polizia e del personale penitenziario che abusano del loro potere. Raccomanda di seguire con la dovuta attenzione il risultato delle denunce depositate contro membri dei Carabinieri e del personale penitenziario.

(…)

19. Il Comitato nota che vi sono degli ostacoli che continuano a ritardare l’adozione dei seguenti testi di legge: inserimento nel Codice penale del delitto di tortura come definito nel diritto internazionale (articolo 7 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici] (…)»

G. Atti del Comitato delle Nazioni unite contro la Tortura

113. Le Osservazioni conclusive del Comitato delle Nazioni Unite contro la tortura («CAT») pubblicate il 1o gennaio 1995 (UN Doc. A/50/44(SUPP)), sono così formulate per quanto riguarda l’Italia:

157. Il Comitato raccomanda quando segue allo Stato parte:

(…)

d) Verificare che le denunce di maltrattamenti e di atti di tortura siano prontamente oggetto di una indagine efficace, e imporre agli eventuali responsabili una pena adeguata, che sarà effettivamente eseguita (…).»

114. Le Osservazioni conclusive del CAT pubblicate il 1o gennaio 1999 (A/54/44(SUPP)), sono coì formulate per quanto riguarda l’Italia:

«141. Il Comitato nota con soddisfazione:
a) Che l’introduzione nel diritto interno di una caratterizzazione del reato di tortura è all’esame, come pure l’esistenza di un fondo speciale per le vittime di tali atti (…).

(…)

145. Il Comitato raccomanda:

a) Che il legislatore italiano qualifichi come reato nel diritto interno qualsiasi atto che corrisponda alla definizione di tortura contenuta nell’articolo primo della Convenzione, e che prenda le misure adeguate per istituire dei mezzi di riparazione appropriati per le vittime della tortura (…) »

115. Le Conclusioni e raccomandazioni del CAT riguardanti l’Italia, pubblicate il 16 luglio 2007 (UN Doc. CAT/C/ITA/CO/4), recitano:

«5. Benché lo Stato parte affermi che tutti gli atti che possono essere qualificati «tortura» ai sensi del primo articolo della Convenzione sono punibili in virtù del codice penale italiano e prendendo nota del progetto di legge (proposta di legge senatoriale n. 1216) che è stato approvato dalla Camera dei Deputati, attualmente in attesa di esame da parte del Senato, il Comitato è preoccupato dal fatto che lo Stato parte non abbia ancora inserito nel diritto interno il reato di tortura come definito nell’articolo primo della Convenzione (articoli 1 e 4). (…)

Il Comitato ribadisce la sua precedente raccomandazione (A/54/44, par. 145 a)) affinché lo Stato parte inserisca il reato di tortura nel suo diritto interno e adotti una definizione della tortura che comprenda tutti gli elementi contenuti nell’articolo primo della Convenzione. Lo Stato parte dovrebbe anche vigilare affinché tali reati siano sanzionati con pene adeguate che tengano in considerazione la loro gravità, come prevede il paragrafo 2 dell’articolo 4 della Convenzione.»

H. Rapporti del comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti e risposte del governo italiano

116. Il rapporto del CPT al governo italiano sulla visita che il Comitato ha effettuato in Italia dal 21 novembre al 3 dicembre 2004 (CPT/Inf (2006) 16 del 27 aprile 2006) è così formulato nella parte pertinente nel caso di specie:

«11. Il CPT ha seguito, da numerosi anni, il percorso parlamentare del progetto di legge volto a introdurre il delitto di tortura nel Codice penale. Tali sforzi sono culminati il 22 aprile 2004 con la discussione, in seduta plenaria, di un nuovo articolo 613 bis. Tuttavia, questo progetto di legge fu emendato all’ultimo minuto (l’aggiunta della nozione di violenze o di minacce «ripetute») restringendo eccessivamente il concetto di tortura previsto prima. Venne concordato un nuovo testo, che non riprende questa limitazione, in seno alla Commissione Giustizia del Parlamento il 9 marzo 2005. Da allora, l’iter legislativo è bloccato.
Il CPT spera vivamente che le autorità italiane persevereranno nei loro sforzi volti a introdurre nel Codice penale il reato di tortura.

(…)

14. Il CPT ha avviato, dal 2001, un dialogo con le autorità italiane in merito agli eventi che si sono verificati a Napoli (il 17 marzo 2001) e a Genova (dal 20 al 22 luglio 2001). Le autorità italiane hanno continuato ad informare il Comitato sui seguiti riservati alle denunce di maltrattamenti formulate nei confronti delle forze dell’ordine. In questo quadro, le autorità hanno fornito, in occasione della visita, un elenco di procedimenti giudiziari e disciplinari pendenti.

Il CPT desidera essere tenuto regolarmente informato sull’evoluzione dei procedimenti giudiziari e disciplinari di cui sopra. Inoltre, desidera ricevere informazioni dettagliate sulle misure prese dalle autorità italiane volte ad evitare il rinnovarsi di episodi simili in futuro (ad esempio, a livello di gestione delle operazioni di mantenimento dell’ordine di grande portata, a livello di formazione del personale di inquadramento e di esecuzione, e a livello dei sistemi di controllo e di ispezione).»

117. La risposta pubblicata su richiesta del governo italiano (CPT/Inf (2006) del 27 aprile 2006), è così formulata:

«Con specifico riferimento all’inserimento ed alla definizione formale del reato di tortura nel codice penale italiano, l’assenza di un reato di questo tipo nel codice penale non significa comunque che in Italia esista la tortura. Se, da un parte, la tortura non esiste perché è questa una pratica lontana dalla nostra mentalità, dall’altra alcune sezioni del codice penale puniscono severamente tale comportamento anche se il termine “tortura” in quanto tale non è incluso nel codice stesso. Inoltre, per quanto riguarda l’adeguamento del nostro ordinamento giuridico allo Statuto della Corte penale internazionale, stiamo considerando la possibilità di inserire il reato di tortura nel nostro sistema, attraverso una definizione più ampia e completa rispetto alle pertinenti convenzioni internazionali. Tuttavia la sostanza non cambia; con o senza la parola “tortura” nel codice penale. L’art. 32 del disegno di legge n. 6050 (2005) come presentato al Senato, prevede inter alia: “chiunque procura ad una persona di cui abbia il controllo o la custodia gravi dolori o sofferenze fisiche o psichiche, è punito con la reclusione fino a dieci anni (…)

(…)

«Per quanto riguarda i cosiddetti “fatti di Genova”, i procedimenti giudiziari si riferiscono e riguardano tre diversi episodi:

(…)

iii. Per quanto riguarda il procedimento penale per i fatti che si sono verificati nei “locali della scuola Diaz”, l’ultima udienza si è svolta l’11 gennaio 2006. Si attende l’esito di questa udienza. Le suddette indicazioni mostrano che tale comportamento non resterà impunito. Infatti, nonostante la mancanza del nomen tortura nel pertinente codice italiano, quando vengono segnalati comportamenti di questo tipo sono applicate diverse disposizioni.

Alla luce dell’articolo 11 del decreto del Presidente della Repubblica n. 737/1981, non sono stati applicati provvedimenti disciplinari per il personale di polizia che era oggetto di procedimenti penali in relazione ai citati eventi, a causa del fatto che, qualora fossero state imposte le sanzioni, sarebbe stato necessario sospenderle. Il ragionamento dietro questa disposizione è evidente: evitare qualsiasi interferenza con l’azione penale per gli eventi che devono ancora essere valutati dall’autorità giudiziaria sia in termini di ricerca e ricostruzione storica dei fatti che di garanzie della difesa. Una valutazione disciplinare dei comportamenti individuali seguirà quindi la conclusione dei relativi procedimenti penali senza la possibilità di ricorrere alla legge sulla prescrizione. Si segnala in particolare che, dopo il 2001, grazie alle varie iniziative intraprese dal Dipartimento di Pubblica Sicurezza del Ministero dell’Interno anche nel campo della formazione, non sono state fatte osservazioni nei confronti della vigilanza degli eventi di maggiore rilievo. Inoltre, anche in occasione di eventi ordinari che sono importanti in termini di gestione dell’ordine pubblico, come eventi sportivi è stata registrata una sostanziale diminuzione degli episodi che richiedono l’uso della forza o misure deterrenti».

118. Il rapporto del CPT al Governo italiano sulla visita che ha effettuato in Italia dal 14 al 26 settembre 2008 (CPT/Inf (2010) 12 del 20 aprile 2010) nella parte pertinente al caso di specie espone quanto segue:

«11. Dal 2001 il CPT è impegnato in un dialogo con le autorità italiane per quanto riguarda gli eventi che si sono svolti a Napoli (il 17 marzo 2001) e a Genova (dal 20 al 22 luglio 2001).

Il Comitato ha preso nota delle informazioni fornite dalle autorità italiane durante la visita relativamente ad alcuni procedimenti giudiziari in corso riguardanti gli eventi sopra citati; esso desidera essere informato, in tempo utile, degli esiti dei procedimenti in questione.

12. Per quanto riguarda l’attuazione del progetto di vecchia data volto ad introdurre il reato di tortura nel codice penale, il CPT ha notato che, rispetto alla visita del 2004, erano stati fatti soltanto progressi minimi. Il Comitato incoraggia le autorità italiane a raddoppiare gli sforzi al fine di introdurre, il più rapidamente possibile, il reato di tortura nel codice penale, conformemente agli obblighi internazionali dell’Italia.»

119. La risposta pubblicata su richiesta del governo italiano (CPT/Inf (2010) 13 del 20 aprile 2010) è così formulata:

«20. Per quanto riguarda il codice penale, vale la pena ricordare che l’articolo 606 e altre disposizioni, contenute nella stessa sezione del codice penale, tutelano la persona da un arresto illegale, come restrizione indebita della libertà personale, abuso di ufficio contro i detenuti e i prigionieri, ispezioni illegali e ricerche personali.

21. Queste tutele sono integrate dalle disposizioni di cui agli articoli 581 (percosse), 582 (lesioni personali), 610 (violenza privata, nel caso in cui la violenza o la minaccia non siano considerate come un reato diverso) e 612 (minaccia) del codice penale. A maggior ragione, le disposizioni di cui agli articoli 575 (omicidio) e 605 (sequestro di persona), ai quali si applicano le circostanze aggravanti, per quanto riguarda la brutalità e la crudeltà contro le persone e il fatto di aver commesso questi reati con abuso di potere e violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, rispettivamente (articolo 61, comma 1, numeri 4 e 9 del codice penale). »

120. Il rapporto del CPT al governo italiano sulla visita che ha effettuato in Italia dal 13 al 25 maggio 2012 (CPT/Inf (2013) 32 del 19 novembre 2013) è così formulato nella parte pertinente nel caso di specie:

«Prima di esporre le conclusioni della delegazione, il CPT constata con preoccupazione che dopo più di venti anni di discussione in Parlamento e l’elaborazione di nove progetti di legge, il codice penale italiano non contiene ancora disposizioni che sanzionino espressamente il reato di tortura.

Il Comitato prega insistentemente le autorità italiane di raddoppiare gli sforzi per introdurre nel più breve tempo possibile il reato di tortura nel codice penale, conformemente agli obblighi internazionali di vecchia data dell’Italia. Inoltre, al fine di accrescere la forza di dissuasione relativamente a tali atti, dovrebbero essere prese le misure necessarie per garantire che il delitto di tortura non sia mai oggetto di prescrizione.»

121. La risposta pubblicata su richiesta del Governo italiano (CPT/Inf (2013) 33 del 19 novembre 2013) è formulata come segue:

«5. Per quanto riguarda il reato di tortura, oltre a ricordare le nostre informazioni precedenti, vorremmo ribadire quanto segue: l’articolo 606 e le altre disposizioni, contenute nella stessa sezione del codice penale, tutelano la persona contro un arresto illegale, una indebita restrizione della libertà personale, l’abuso di ufficio contro i detenuti e i prigionieri, le ispezioni illegali e le ricerche personali. Queste tutele sono integrate dalle disposizioni di cui agli articoli 581 (percosse), 582 (lesioni personali), 610 (violenza privata, nel caso in cui la violenza o la minaccia non siano considerate come un reato diverso) e 612 (minaccia) del codice penale. A maggior ragione, le disposizioni di cui agli articoli 575 (omicidio) e 605 (sequestro di persona), ai quali si applicano le circostanze aggravanti, riguardano la brutalità e la crudeltà contro le persone e il fatto di aver commesso questi reati con abuso di potere e violazione dei doveri inerenti a una pubblica funzione o a un pubblico servizio, rispettivamente (articolo 61, comma 1, numeri 4 e 9 del codice penale). Il codice di procedura penale contiene principi che mirano a salvaguardare la libertà morale delle persone: l’articolo 64, comma 2, e l’articolo 188 stabiliscono che durante l’interrogatorio “non possono essere utilizzati, neppure con il consenso della persona interrogata, metodi o tecniche idonei a influire sulla libertà di autodeterminazione o ad alterare la capacità di ricordare e di valutare i fatti” (paragrafo 6).

(…)

13. Per quanto riguarda la richiesta introduzione nel Sistema penale italiano del reato di tortura, sono già state presentate molte proposte legislative, non ancora approvate dal Parlamento. Secondo una di tali proposte, il reato si verifica ogniqualvolta ci sia una ripetizione della condotta criminale nel tempo (nella sentenza n. 30780 del 27 luglio 2012, la Corte di cassazione ha proposto una interpretazione estensiva del reato di maltrattamento previsto dall’articolo 572 del codice penale), di modo che se la violenza è stata commessa con un’unica azione, la situazione di fatto non sarebbe inclusa nelle previsioni del nuovo strumento giuridico.»

IN DIRITTO

I. OSSERVAZIONI PRELIMINARI

122. Il Governo eccepisce la tardività della domanda di intervento del Partito radicale non violento transnazionale e transpartito, dell’associazione «Non c’è pace senza giustizia» e dei Radicali italiani (ex «Partito radicale italiano»), affermando che essa è stata sottoposta alla Corte il 21 giugno 2013, ossia più di dodici settimane dopo la data in cui il ricorso sarebbe stato portato a sua conoscenza, cioè il 21 dicembre 2012 (paragrafi 4 e 5 supra). A tale proposito, il Governo invoca l’articolo 44 § 3 del regolamento, ai sensi del quale le richieste di autorizzazione ai fini dell’intervento di terzo «devono essere (…) presentate per iscritto in una delle lingue ufficiali (…) al massimo dodici settimane dopo che il ricorso è stato portato a conoscenza della Parte contraente convenuta».

123. Il Governo indica poi che gli interventi di terze parti devono avere lo scopo di aumentare la conoscenza della Corte con l’apporto di nuove informazioni o di argomenti giuridici supplementari con riguardo ai principi generali pertinenti per l’esito della causa. Ora, nel caso di specie, i terzi intervenienti si sarebbero limitati a proporre riforme legislative in Italia e a stigmatizzare la mancata criminalizzazione della tortura, il che non corrisponde, secondo il Governo, al ruolo che dovrebbe svolgere un amicus curiae dinanzi alla Corte.

124. Per questi motivi, il Governo sostiene che le osservazioni dei terzi intervenienti non dovrebbero essere acquisite agli atti o dovrebbero almeno essere ignorate dalla Corte. Esso aggiunge che, in ogni caso, tali osservazioni sono infondate nel caso di specie, in quanto l’assenza del crimine di tortura nel diritto italiano non ha, a suo parere, impedito l’identificazione e la punizione degli agenti delle forze dell’ordine implicati nei fatti della scuola Diaz-Pertini né che il ricorrente ricevesse un risarcimento danni.

125. Il ricorrente non ha formulato osservazioni in merito.

126. Per quanto riguarda la prima parte delle osservazioni preliminari del Governo, la Corte si limita a ricordare che, ai sensi dell’articolo 44 § 3 in fine del regolamento, «[il] presidente della camera può, a titolo eccezionale, fissare un altro termine» diverso da quello di dodici settimane indicato nella prima parte di questo stesso articolo.

127. Per il resto, la Corte si limiterà a tenere conto dei commenti dei terzi intervenienti che sarebbero pertinenti nell’esame dei motivi di ricorso del ricorrente.

II. SULLA DEDOTTA VIOLAZIONE DELL’ARTICOLO 3 DELLA CONVENZIONE

128. Il ricorrente sostiene che, in occasione dell’irruzione delle forze dell’ordine nella scuola Diaz-Pertini, è stato vittima di violenze e sevizie che definisce atti di tortura.
Sostiene altresì che la sanzione pronunciata a carico dei responsabili degli atti da lui denunciati è stata inadeguata a causa, in particolare, della prescrizione, nel corso del procedimento penale, della maggior parte dei reati ascritti, delle riduzioni di pena di cui alcuni condannati avrebbero beneficiato e dell’assenza di sanzioni disciplinari nei confronti di questi ultimi. Egli afferma, in particolare, che omettendo di qualificare come reato ogni atto di tortura e non prevedendo una pena adeguata per un tale reato, lo Stato non ha adottato le misure necessarie per prevenire le violenze e gli altri maltrattamenti di cui egli stesso sostiene di essere vittima.

Egli invoca l’articolo 3 della Convenzione, che recita: «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti.»

129. Per quanto riguarda le presunte lacune dell’inchiesta derivanti, in particolare, dalla prescrizione dei reati e dall’assenza del reato di tortura nell’ordinamento giuridico italiano, il ricorrente invoca anche gli articoli 6 § 1 (termine ragionevole del procedimento) e 13 della Convenzione, considerati separatamente e in combinato disposto con l’articolo 3.
Considerata la formulazione dei motivi di ricorso del ricorrente, la Corte ritiene opportuno esaminare la questione dell’assenza di un’inchiesta effettiva sui maltrattamenti dedotti unicamente sotto il profilo procedurale dell’articolo 3 della Convenzione (Dembele c. Svizzera, n. 74010/11, § 33, 24 settembre 2013, con i riferimenti ivi contenuti).

130. Il Governo si oppone alla tesi del ricorrente.

A. Sulla ricevibilità

1. L’eccezione del Governo relativa alla perdita della qualità di vittima

a) Tesi delle parti

i. Il Governo

131. Il Governo ritiene che, alla luce di una giurisprudenza ben consolidata (Amuur c. Francia, 25 giugno 1996, § 36, Recueil des arrêts et décisions 1996 III, Dalban c. Romania [GC], n. 28114/95, § 44, CEDU 1999 VI, Labita c. Italia [GC], n.26772/95, § 142, CEDU 2000 IV, e Gäfgen c. Germania [GC], n. 22978/05, §§ 115-116, CEDU 2010), il ricorso dovrebbe essere rigettato a causa della perdita, a suo parere, della qualità di vittima del ricorrente.
In effetti, secondo il Governo, il procedimento penale intentato contro i responsabili dei fatti accaduti alla scuola Diaz-Pertini ha accertato, in particolare, le violazioni dell’articolo 3 della Convenzione denunciate dal ricorrente. All’esito di tale procedura il ricorrente, che si era costituito parte civile, avrebbe ottenuto il riconoscimento del diritto a ricevere riparazione del pregiudizio subito, nonché il versamento, nel 2009, in esecuzione della sentenza di primo grado, dell’importo di 35.000 EUR a titolo di provvisionale sul risarcimento (paragrafo 49 supra).
Pertanto, secondo il Governo, le autorità nazionali hanno pienamente riconosciuto, esplicitamente e sostanzialmente, le violazioni denunciate dal ricorrente e vi avrebbero posto rimedio.

132. Per di più, la dichiarazione di prescrizione di alcuni dei reati nell’ambito del procedimento penale in questione non avrebbe privato il ricorrente della possibilità di intentare successivamente un’azione civile allo scopo di ottenere il pagamento complessivo e definitivo del risarcimento per il danno subito.

133. A sostegno dei suoi argomenti, il Governo fa riferimento anche alla causa Palazzolo c. Italia ([dec.], n. 32328/09, §§ 86, 103-104, 24 settembre 2014) per precisare che la Corte non può esaminare motivi di ricorso che non siano stati sollevati a livello nazionale e che essa non ha il compito di sostituirsi ai giudici nazionali per pronunciarsi in qualità di quarto grado di giudizio sul merito della causa.

ii. Il ricorrente

134. Basandosi, in particolare, sulle sentenze Gäfgen (sopra citata, §§ 116 e seguenti), Darraj c. Francia (n. 34588/07, §§ 45-48, 4 novembre 2010) e Dembele (sopra citata, § 62), il ricorrente indica che, in caso di violazione dell’articolo 3 della Convenzione, è indispensabile, per garantire una riparazione adeguata a livello nazionale e fare perdere in tal modo all’interessato la qualità di vittima, identificare i responsabili e infliggere loro delle sanzioni proporzionate alla gravità dei maltrattamenti perpetrati.

135. Egli sostiene che, nella fattispecie, le autorità nazionali non hanno riconosciuto alcuna violazione dell’articolo 3, che i responsabili dei maltrattamenti in questione sono rimasti in sostanza impuniti a causa, in particolare, della prescrizione dei reati di cui erano accusati, e che gli stessi non sono stati oggetto di alcuna misura disciplinare.
Il ricorrente è del parere che, in queste condizioni, il risarcimento che ha ottenuto in qualità di parte civile al procedimento penale riguardante i fatti accaduti alla scuola Diaz-Pertini non sia sufficiente per riparare in maniera adeguata le violazioni dell’articolo 3 di cui sostiene di essere vittima. Pertanto, egli ritiene che l’argomentazione del Governo che gli rimprovera di non avere intentato in seguito un procedimento civile per ottenere il pagamento complessivo e definitivo del risarcimento per il danno subito non possa essere accolta.

b) Valutazione della Corte

136. La Corte osserva che la questione centrale che si pone per quanto riguarda la perdita della qualità di vittima del ricorrente è strettamente legata alla sostanza della parte procedurale del motivo di ricorso relativo all’articolo 3 della Convenzione. Di conseguenza, essa decide di riunire tale eccezione al merito (Vladimir Romanov c. Russia, n. 41461/02, §§ 71-90, 24 luglio 2008, Kopylov c. Russia, n. 3933/04, § 121, 29 luglio 2010, e Darraj, sopra citata, § 28).

137. Per quanto riguarda il fatto, rilevato dal Governo, che il ricorrente non ha intentato in seguito un’azione civile di risarcimento, nonché la risposta del ricorrente a tale proposito, la Corte considera che tale circostanza si presti ad essere esaminata nell’ambito dell’eccezione del Governo relativa al mancato esaurimento delle vie di ricorso interne (paragrafi 149 e seguenti infra).

2. L’eccezione del Governo relativa al mancato esaurimento delle vie di ricorso interne

a) Tesi delle parti

i. Il Governo

138. Il Governo osserva anzitutto che il ricorso è stato presentato nel gennaio 2011, prima che il procedimento penale riguardante i fatti accaduti alla scuola Diaz-Pertini fosse terminato. Il Governo precisa a questo riguardo che il ricorrente ha adito la Corte dopo la sentenza di appello del 18 maggio 2010, depositata il 31 luglio 2010 (paragrafo 59 supra), ma prima della sentenza della Corte di cassazione del 5 luglio 2012, depositata il 2 ottobre 2012 (paragrafo 76 supra).

139. Inoltre, il Governo ribadisce che, dopo aver ottenuto una provvisionale sul risarcimento nel 2009, nell’ambito del procedimento penale (paragrafo 49 supra), il ricorrente non ha avviato un procedimento civile ai fini della determinazione dell’importo complessivo e definitivo del risarcimento per il danno subito a causa dei maltrattamenti in questione.

140. In definitiva, durante la presentazione del suo ricorso dinanzi alla Corte, il ricorrente non avrebbe preventivamente esaurito le vie di ricorso penali e civili disponibili a livello nazionale e, in tal modo, secondo il Governo, avrebbe contravvenuto all’articolo 35 § 1 della Convenzione.

ii. Il ricorrente

141. Per il ricorrente, l’obbligo di esaurire le vie di ricorso interne ai sensi dell’articolo 35 § 1 della Convenzione si applica soltanto quando esistono, a livello nazionale, dei ricorsi che permettono di accertare la violazione della Convenzione in questione e di offrire alla vittima una riparazione adeguata.

142. Nel caso di specie, egli afferma che le violenze e i maltrattamenti che sarebbero stati perpetrati dalla polizia durante l’irruzione nella scuola Diaz-Pertini e di cui sarebbe stato vittima non sono mai stati davvero contestati nell’ambito del procedimento penale (si veda, in particolare, la sentenza della Corte di cassazione, paragrafo 77 supra). Il ricorrente ritiene che, proprio a causa delle lacune del sistema giuridico italiano, al termine di tale procedimento penale nel quale è stato parte civile, non sono stati adeguatamente sanzionati i responsabili di questi maltrattamenti.

143. Tenuto conto di quanto precede, il ricorrente considera che un successivo procedimento civile, finalizzato al pagamento complessivo e definitivo del risarcimento danni per il pregiudizio subito, non possa essere considerato una via di ricorso effettiva tale da porre rimedio alle violazioni dell’articolo 3 della Convenzione di cui sarebbe stato vittima.

144. Per quanto riguarda il carattere presumibilmente prematuro del ricorso determinato dal fatto che esso è stato presentato prima della sentenza della Corte di cassazione, il ricorrente indica che la sentenza di appello (paragrafo 61 supra) aveva già dichiarato prescritti la maggior parte dei reati per i quali i responsabili degli atti in contestazione sarebbero stati perseguiti, e che, per i reati che non erano prescritti, aveva applicato, in favore degli interessati, la riduzione di pena prevista dalla legge n. 241 del 2006. Pertanto, poiché il carattere inadeguato dell’inchiesta sulla base dell’articolo 3 della Convenzione è già stato, secondo lui, evidenziato dalla corte d’appello, il ricorrente ritiene che non era tenuto ad aspettare la sentenza della Corte di cassazione per adire la Corte.

b) Valutazione della Corte

145. Per quanto riguarda la prima parte dell’eccezione del Governo, la Corte ha già dichiarato, in alcune cause avviate prima della fine del procedimento penale riguardante dei maltrattamenti ai sensi dell’articolo 3, che l’eccezione del Governo convenuto relativa al carattere prematuro del ricorso aveva perduto la sua ragione di essere una volta concluso il procedimento penale in questione (Kopylov, sopra citata, § 119, basandosi su Samoylov c. Russia, n. 64398/01, § 39, 2 ottobre 2008).

146. Inoltre, se, in linea di principio, il ricorrente ha l’obbligo di intentare lealmente vari ricorsi interni prima di adire la Corte, e se il rispetto di questo obbligo si valuta prendendo come punto di riferimento la data di presentazione del ricorso (Baumann c. Francia, n. 33592/96, § 47, CEDU 2001 V), la Corte accetta che l’ultimo stadio di questi ricorsi sia raggiunto poco dopo il deposito del ricorso, ma prima di essere chiamata a pronunciarsi sulla ricevibilità dello stesso (Ringeisen c. Austria, 16 luglio 1971, § 91, serie A n. 13, E.K. c. Turchia (dec.), n. 28496/95, 28 novembre 2000, Karoussiotis c. Portogallo, n. 23205/08, §§ 57 e 87-92, CEDU 2011, e Rafaa c. Francia, n. 25393/10, § 33, 30 maggio 2013).

147. Nel caso di specie, la Corte osserva che il ricorrente sostiene di essere stato aggredito in modo violento dalle forze dell’ordine quando queste hanno fatto irruzione nella scuola Diaz-Pertini, nel luglio 2001 (paragrafi 34-35 supra).
Essa osserva inoltre che il procedimento penale avviato contro le forze dell’ordine relativamente ai fatti accaduti nella scuola Diaz-Pertini, nel quale il ricorrente si è costituito parte civile nel luglio 2004 (paragrafo 46 supra), si è concluso, nel febbraio 2009, con il deposito della sentenza di primo grado (paragrafo 49 supra) e, nel luglio 2010, con il deposito della sentenza di appello (paragrafo 59 supra).

148. In queste circostanze, la Corte non può rimproverare al ricorrente di averle trasmesso le proprie doglianze riguardanti la violazione dell’articolo 3 della Convenzione nel gennaio 2011, quasi dieci anni dopo i fatti accaduti alla scuola Diaz-Pertini, senza avere atteso la sentenza della Corte di cassazione depositata il 2 ottobre 2012 (paragrafo 76 supra).
Di conseguenza, questa parte dell’eccezione del Governo relativa al mancato esaurimento delle vie di ricorso interne non può essere accolta.

149. Per quanto riguarda la seconda parte dell’eccezione del Governo, relativa al fatto che il ricorrente non ha intentato una successiva azione civile di risarcimento, la Corte rinvia, anzitutto, ai principi generali relativi alla regola dell’esaurimento delle vie di ricorso interne sintetizzati recentemente nella sentenza Vučković e altri c. Serbia ([GC], nn. 17153/11 e altri, §§ 69-77, 25 marzo 2014).

150. La Corte rammenta, in particolare, che l’articolo 35 § 1 della Convenzione prescrive l’esaurimento dei soli ricorsi che siano relativi alle violazioni contestate, disponibili e adeguati. Un ricorso è effettivo quando è disponibile sia in teoria che in pratica all’epoca dei fatti, ossia quando è accessibile, può offrire al ricorrente la riparazione delle violazioni da lui dedotte e presenta ragionevoli prospettive di successo (Akdivar e altri c. Turchia, 16 settembre 1996, § 68, Recueil 1996 IV, e Demopoulos e altri c. Turchia (dec.) [GC], nn. 46113/993843/0213751/0213466/0310200/0414163/0419993/04 e 21819/04, § 70, CEDU 2010).

151. La Corte rammenta anche che deve applicare la regola dell’esaurimento dei ricorsi interni tenendo debitamente conto del contesto: il meccanismo di salvaguardia dei diritti dell’uomo che le Parti contraenti hanno convenuto di instaurare. Essa ha così riconosciuto che l’articolo 35 § 1 si deve applicare con una certa flessibilità e senza eccessivo formalismo. Inoltre, ha ammesso che la regola dell’esaurimento delle vie di ricorso interne non si accontenta di una applicazione automatica e non riveste un carattere assoluto; per controllarne il rispetto, bisogna considerare le circostanze della causa. Ciò significa in particolare che la Corte deve tenere conto in maniera realistica del contesto giuridico e politico nel quale si inseriscono i ricorsi nonché della situazione personale dei ricorrenti (si vedano, tra molte altre, Akdivar e altri, sopra citata, § 69, Selmouni c. Francia [GC], n. 25803/94, § 77, CEDU 1999 V, Kozacıoğlu c. Turchia [GC], n. 2334/03, § 40, 19 febbraio 2009, e Reshetnyak c. Russia, n. 56027/10, § 58, 8 gennaio 2013).

152. Nella sua valutazione dell’effettività della via di ricorso indicata dal Governo convenuto, la Corte deve dunque tenere conto della natura delle doglianze e delle circostanze della causa per accertare se tale via di ricorso fornisse al ricorrente un mezzo adeguato per ottenere riparazione della violazione denunciata (Reshetnyak c. Russia, sopra citata, § 71, riguardante il carattere inadeguato di un ricorso risarcitorio in caso di violazione continua dell’articolo 3 dovuta alle condizioni di detenzione e, in particolare, all’aggravamento dello stato di salute del detenuto; si confronti anche con De Souza Ribeiro c. Francia [GC], n. 22689/07, §§ 82-83, CEDU 2012, in cui la Corte ha ricordato che l’esigenza di un ricorso di pieno diritto sospensivo contro l’espulsione dell’interessato dipendeva dalla natura della violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli che l’espulsione avrebbe comportato).

153. Nel caso di specie, la Corte osserva che, così come in materia di perdita della qualità di vittima (paragrafi 131-135 supra), le tesi delle parti divergono radicalmente anche per quanto riguarda la portata degli obblighi derivanti dall’articolo 3 della Convenzione e i mezzi necessari e sufficienti per porre rimedio alle violazioni in causa.

Considerata la sua decisione di riunire al merito la questione della perdita della qualità di vittima, la Corte ritiene che lo stesso debba farsi per quanto riguarda la seconda parte dell’eccezione di mancato esaurimento delle vie di ricorso interne.

3. Altri motivi di irricevibilità

154. Constatando che questo motivo di ricorso non è manifestamente infondato nel senso dell’articolo 35 § 3 a) della Convenzione e non incorre in altri motivi di irricevibilità, la Corte lo dichiara ricevibile.

B. Sul merito

1. Sulla parte materiale dell’articolo 3 della Convenzione

a) Tesi delle parti

i. Il ricorrente

155. Il ricorrente afferma che, durante l’irruzione della polizia nella scuola Diaz-Pertini, è stato insultato e preso a calci e manganellate soprattutto in testa, alle braccia e alle gambe, riportando ferite per le quali è stato necessario un ricovero di quattro giorni a Genova e, in particolare un’operazione all’ulna destra.
Quando è stato dimesso dall’ospedale, presentava una incapacità lavorativa superiore a quaranta giorni.
Egli precisa che, a seguito dell’aggressione, gli è rimasta una debolezza permanente del braccio destro e della gamba destra. Producendo i relativi documenti giustificativi sottolinea che, nel 2003, si è dovuto sottoporre a una nuova operazione all’ulna destra in quanto la frattura non si era consolidata e che, nel 2010, gli era stata raccomandata una nuova operazione per pseudoartrosi di tale osso.

156. Il ricorrente aggiunge che, nel momento in cui la polizia ha fatto irruzione, egli aveva, come molti altri occupanti, alzato le mani in aria in segno di sottomissione, e che ciò non aveva impedito agli agenti di polizia, armati di manganello, di picchiare tutte le persone presenti sui luoghi.
Egli esprime lo stupore e il panico che aveva provato durante i fatti in questione poiché, essendo un cittadino senza precedenti penali, aveva considerato che la polizia fosse tenuta a proteggere i cittadini dalle violenze di altri e non credeva che la stessa fosse capace di usare violenza contro persone inoffensive.

157. Basandosi sulla ricostruzione dei fatti riportata nelle decisioni di primo grado e di appello egli afferma, in maniera più generale, che l’irruzione della polizia nella scuola Diaz-Pertini era stata caratterizzata fin dall’inizio da una violenza estrema e ingiustificata rispetto ai presunti atti di resistenza degli occupanti: secondo lui, gli agenti di polizia avevano attaccato inizialmente persone evidentemente inoffensive che si trovavano all’esterno della scuola, e poi tutti gli occupanti di quest’ultima, nonostante i segni di sottomissione da parte loro, e si erano accaniti anche su persone già ferite. Inoltre, invece dei manganelli normali, gli agenti avrebbero fatto ampio uso dei manganelli tipo tonfa, i cui colpi potevano, secondo lui, facilmente causare fratture, se non addirittura la morte. Per di più, dopo questa esplosione di violenza, secondo il ricorrente gratuita e indiscriminata, la polizia avrebbe arrestato illegalmente gli occupanti della scuola Diaz-Pertini e avrebbe commesso tutta una serie di reati per cercare di giustificare, a posteriori, le sue condotte.

158. Peraltro, il ricorrente sostiene di essere stato costretto a rimanere in posizioni umilianti. Egli lamenta anche di non essersi potuto mettere in contatto con un avvocato o una persona di fiducia. Infine, egli denuncia l’assenza di cure adeguate in tempo utile e la presenza di agenti delle forze dell’ordine durante la sua visita medica.

159. Considerato quanto sopra esposto, il ricorrente ritiene di essere stato vittima di atti di tortura ai sensi dell’articolo 3 della Convenzione.

ii. Il Governo

160. Il Governo assicura che non intende «minimizzare o sottovalutare la gravità degli episodi» che sono avvenuti nella scuola Diaz-Pertini nella notte tra il 21 e il 22 luglio 2001. Esso ammette che si tratta di atti «molto gravi e deplorevoli commessi da agenti di polizia, costitutivi di vari reati, ai quali i giudici italiani hanno rapidamente reagito allo scopo di ristabilire il rispetto dello stato di diritto che questi fatti avevano irriso».

161. A garanzia del «completo riconoscimento da parte dell’Italia delle violazioni dei diritti perpetrate» il Governo afferma di sottoscrivere «al giudizio delle autorità giudiziarie nazionali, che hanno stigmatizzato con estrema durezza il comportamento degli agenti di polizia durante l’irruzione nella scuola Diaz-Pertini.

162. Esso considera tuttavia che i fatti in questione, tra i quali i maltrattamenti denunciati dal ricorrente, non rientrano nell’ambito di una prassi diffusa della polizia italiana. Secondo il Governo, tali fatti costituiscono in effetti un episodio infelice, isolato ed eccezionale, che dovrebbe essere visto nel contesto di estrema tensione del G8 di Genova e dell’esigenza assolutamente particolare di tutela dell’ordine pubblico derivante dalla presenza di migliaia di manifestanti provenienti da tutta l’Europa, e in quello dei numerosi incidenti e scontri che si sarebbero verificati durante le manifestazioni.
Il Governo conclude che, del resto, da vari anni la formazione delle forze dell’ordine italiane pone maggiormente l’accento sulla sensibilizzazione degli agenti al rispetto dei diritti dell’uomo per mezzo, soprattutto, della diffusione dei testi e delle linee guida internazionali in materia.

iii. I terzi intervenienti

163. I terzi intervenienti richiamano le conclusioni della sentenza di appello (paragrafi 64 e 68 supra) secondo le quali l’irruzione nella scuola Diaz-Pertini sarebbe stata finalizzata non tanto a cercare elementi di prova e a individuare gli autori dei saccheggi del giorno 21 luglio 2001, quanto piuttosto a procedere ad arresti numerosi e indiscriminati. Essi appoggiano anche le affermazioni della Corte di cassazione secondo le quali le violenze perpetrate dalla polizia nella scuola in questione sarebbero state di una gravità assoluta in quanto commesse in maniera generalizzata in tutti i locali della scuola e contro persone evidentemente disarmate, addormentate o sedute con le mani in alto (paragrafi 77 e 79 supra).

b) Valutazione della Corte

i. Sulla prova dei maltrattamenti dedotti

164. La Corte rammenta che, come risulta dalla sua giurisprudenza ben consolidata (si vedano, tra molte altre, Salman c. Turchia [GC], n. 21986/93, § 100, CEDU 2000-VII, e Gäfgen, sopra citata, § 92), in caso di dedotte violazioni dell’articolo 3 della Convenzione essa deve, per valutare le prove, procedere a un esame particolarmente approfondito. Quando sono stati condotti dei procedimenti a livello nazionale essa non deve sostituire la propria versione dei fatti a quella dei giudici nazionali, i quali hanno il compito di accertare i fatti sulla base delle prove da essi raccolte.
In effetti, anche se in questo tipo di cause essa è disposta ad esaminare con un occhio più critico le conclusioni dei giudici nazionali (El-Masri c. l’ex-Repubblica jugoslava di Macedonia [GC], n. 39630/09, § 155, CEDU 2012), la Corte deve normalmente disporre di elementi convincenti per potersi discostare dalle constatazioni alle quali questi sono giunti (si vedano, tra molte altre, Vladimir Romanov, sopra citata, § 59, 24 luglio 2008, Georgiy Bykov c. Russia, n. 24271/03, § 51, 14 ottobre 2010, Gäfgen, sopra citata, § 93, Darraj, sopra citata, § 37, Alberti c. Italia, n. 15397/11, § 41, 24 giugno 2014, Saba c. Italia, n. 36629/10, § 69, 1o luglio 2014, e Ataykaya c. Turchia, n. 50275/08, § 47, 22 luglio 2014).

165. Nel caso di specie, la Corte osserva che dalla sentenza di primo grado e dalla sentenza di appello (paragrafi 33 e 73 supra), alle quali fa riferimento la sentenza della Corte di cassazione (paragrafo 77 supra), risulta che, una volta entrati nella scuola Diaz-Pertini, gli agenti hanno colpito quasi tutti gli occupanti, anche quelli che erano seduti o distesi a terra, con pugni, calci e colpi di manganello, urlando e minacciando gli occupanti.
La sentenza di primo grado riferisce che, all’arrivo della polizia, il ricorrente era seduto con la schiena al muro, accanto ad un gruppo di occupanti, e aveva le braccia in aria; che ha ricevuto dei colpi soprattutto in testa, alle braccia e alle gambe, che gli hanno causato fratture multiple dell’ulna destra, del perone destro e di varie costole; che tali ferite hanno comportato un ricovero ospedaliero di quattro giorni, una incapacità temporanea superiore a quaranta giorni e una debolezza permanente del braccio destro e della gamba destra (paragrafi 34-35 supra).

166. Le affermazioni del ricorrente riguardanti l’aggressione di cui è stato vittima e le conseguenze che quest’ultima ha comportato sono state così confermate nelle decisioni giudiziarie nazionali.

167. Del resto, il Governo ha dichiarato di condividere, in generale, «la sentenza dei giudici nazionali, che hanno stigmatizzato con estrema durezza il comportamento degli agenti di polizia» in occasione dell’irruzione nella scuola Diaz-Pertini.

168. Pertanto, tenuto conto anche del carattere sistematico e generalizzato dell’aggressione fisica e verbale di cui sono stati oggetto gli occupanti della scuola Diaz-Pertini (Dedovski e altri c. Russia (n. 7178/03, §§ 77-79, CEDU 2008), la Corte ritiene che siano accertate sia l’aggressione fisica e verbale lamentata dal ricorrente che le conseguenze che la stessa ha comportato.

169. In queste condizioni, la Corte ritiene che il motivo di ricorso relativo alla violazione dell’articolo 3 sia sufficientemente chiaro e che non debba essere esaminata la questione della prova di quanto ulteriormente dedotto dal ricorrente (posizioni umilianti, impossibilità di contattare un avvocato e/o una persona di fiducia, mancanza di cure adeguate in tempo utile, presenza di agenti delle forze dell’ordine durante la visita medica).

ii. Sulla qualificazione giuridica dei trattamenti accertati

170. Considerati i criteri derivanti dalla sua giurisprudenza ben consolidata (si vedano, tra molte altre, Selmouni, sopra citata, § 104, Labita, sopra citata, § 120, İlhan c. Turchia [GC], n. 22277/93, § 84, CEDU 2000 VII, Batı e altri c. Turchia, nn.33097/96 e 57834/00, §§ 118-119, CEDU 2004-IV, Gäfgen, sopra citata, § 88, El-Masri, sopra citata, § 196, Alberti, sopra citata, § 40, e Saba, sopra citata, §§ 71-72), la Corte ritiene che non si possa seriamente dubitare che i maltrattamenti in questione rientrino nelle previsioni dell’articolo 3 della Convenzione. Il Governo, del resto, non lo mette in discussione. Rimane da stabilire se gli stessi maltrattamenti possano essere definiti torture, come afferma il ricorrente.

α) Cenni sulla giurisprudenza in materia di «tortura»

171. In linea di principio, per stabilire se una determinata forma di maltrattamento debba essere definita tortura, la Corte deve tenere presente la distinzione operata dall’articolo 3 tra questa nozione e quella di trattamenti inumani o degradanti. Come la Corte ha già osservato, questa distinzione sembra essere stata sancita dalla Convenzione per marchiare di una particolare infamia alcuni trattamenti inumani deliberati che provocano sofferenze estremamente gravi e crudeli (Batı e altri, sopra citata, § 116, Gäfgen, sopra citata, § 90, con le sentenze ivi citate, e El-Masri, sopra citata, § 197). Il carattere acuto delle sofferenze è «per la sua stessa natura relativo; esso dipende dai dati della causa considerati complessivamente, in particolare dalla durata del trattamento e dai suoi effetti fisici o psichici nonché, a volte, dal sesso, dall’età, dallo stato di salute della vittima, ecc. » (Selmouni, sopra citata, § 100, e Batı e altri, sopra citata, § 120).
Oltre alla gravità dei trattamenti, la «tortura» implica una volontà deliberata, come riconosciuto nella Convenzione delle Nazioni Unite contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, entrata in vigore il 26 giugno 1987 nei confronti dell’Italia (paragrafo 109 supra), che definisce la «tortura» come qualsiasi atto con il quale vengono intenzionalmente inflitti a una persona un dolore o delle sofferenze acute allo scopo, soprattutto, di ottenere dalla stessa informazioni, di punirla o di intimidirla (İlhan, sopra citata, § 85, Gäfgen, § 90, e El-Masri, sopra citata, § 197).

172. In alcuni casi, i fatti di causa hanno portato la Corte a ritenere che i maltrattamenti in questione dovessero essere definiti «tortura» dopo aver applicato congiuntamente i due criteri sopra menzionati, ossia la gravità delle sofferenze e la volontà deliberata (si veda, ad esempio, Aksoy c. Turchia, 18 dicembre 1996, §§ 63-64, Recueil 1996 VI: il ricorrente era stato sottoposto all’«impiccagione palestinese» affinché confessasse e rivelasse informazioni; Batı e altri, sopra citata, §§ 110, 122-124: i ricorrenti erano stati privati del sonno e sottoposti alla «impiccagione palestinese», a getti d’acqua, a percosse ripetute e al supplizio della falaka per vari giorni, affinché confessassero di appartenere a un partito politico; Abdülsamet Yaman c. Turchia, n. 32446/96, §§ 19-20, 2 novembre 2004: il ricorrente era stato sottoposto alla «impiccagione palestinese», a getti d’acqua e ad elettroshock per vari giorni per indurlo a confessare; Polonskiy c. Russia, n. 30033/05, § 124, 19 marzo 2009: il ricorrente era stato ripetutamente colpito in varie parti del corpo, e sottoposto ad elettroshock per indurlo a confessare un reato – è opportuno sottolineare che la Corte ha concluso che vi è stata «tortura» anche in assenza di conseguenze fisiche di lunga durata; Kopylov, sopra citata, §§ 125-126: perché confessasse un reato, il ricorrente era stato appeso per mezzo di una corda con le mani legate dietro la schiena, preso manganellate, pestato e sottoposto, per circa quattro mesi, a molte altre sevizie, il che ha comportato conseguenze gravi e irreversibili; El-Masri, sopra citata, §§ 205-211: il ricorrente era stato picchiato, svestito con la forza e sottoposto alla somministrazione di una supposta, poi incatenato e incappucciato prima di essere trascinato con la forza fino a un aereo, in cui era stato gettato a terra, attaccato e messo con la forza sotto sedativi; secondo la Corte, tutti questi trattamenti, perpetrati nell’ambito di una «consegna straordinaria», erano volti a ottenere informazioni dall’interessato, a punirlo o a intimidirlo).

173. In alcune cause la Corte, nel suo ragionamento, ha basato la constatazione di «tortura» non tanto sul carattere intenzionale dei maltrattamenti, quanto piuttosto sul fatto che essi avevano «provocato dolori e sofferenze acuti» e che rivestivano «un carattere particolarmente grave e crudele» (si vedano, ad esempio, Selmouni, sopra citata, §§ 101-105, e Erdal Aslan c. Turchia, nn. 25060/02 e 1705/03, § 73, 2 dicembre 2008).

174. In altre sentenze, essa ha attribuito un peso particolare al carattere gratuito delle violenze commesse nei confronti del ricorrente, detenuto, per giungere ad una constatazione di «tortura». Ad esempio, nella causa Vladimir Romanov (sopra citata, §§ 66-70), essa ha sottolineato che il ricorrente era stato preso a manganellate dopo aver obbedito all’ordine di lasciare la sua cella e proprio mentre era caduto a terra: le violenze in questione avevano dunque il valore di «rappresaglie». Parimenti, nella causa Dedovski e altri (sopra citata), la Corte ha tenuto conto del potenziale di violenza esistente in un istituto penitenziario e del fatto che una insubordinazione dei detenuti poteva degenerare rapidamente in un ammutinamento per il quale sarebbe stato necessario l’intervento delle forze dell’ordine (Dedovski e altri, § 81), e non ha ravvisato «alcuna necessità tale da giustificare l’uso di manganelli di gomma contro i ricorrenti. Al contrario, le azioni degli agenti (…) erano manifestamente sproporzionate rispetto alle trasgressioni imputate ai ricorrenti», che nell’ambito di una perquisizione si erano rifiutati di lasciare la cella o di divaricare le braccia e le gambe e la Corte, per di più, le ha giudicate «inutili alla realizzazione degli obiettivi degli agenti», in quanto «non è colpendo un detenuto con un manganello che gli agenti [avrebbero ottenuto] il risultato voluto, ossia agevolare la perquisizione» (idem, § 83). La Corte ha considerato che i maltrattamenti avevano pertanto chiaramente il carattere di «rappresaglie» o di «punizione corporale» (idem, §§ 83 e 85) e che, nel contesto, l’uso della forza era privo di base legale (idem, § 82).

175. In alcune cause relative a violenze commesse da agenti di polizia in occasione di arresti, la Corte ha esaminato anche la questione di stabilire se i maltrattamenti controversi fossero costitutivi di «tortura» nel senso dell’articolo 3 della Convenzione. Tuttavia, essa non ha concluso in tal senso, alla luce del fatto che lo scopo degli agenti di polizia non era stato quello di estorcere delle confessioni al ricorrente, e in considerazione della breve durata delle violenze commesse in un contesto di particolarmente tensione (Krastanov c. Bulgaria, n. 50222/99, § 53, 30 settembre 2004: percosse al ricorrente a causa di un errore di persona commesso durante un’operazione di polizia volta all’arresto di un pericoloso delinquente), e tenuto conto dei dubbi sulla gravità delle sofferenze causate dai maltrattamenti in questione e dell’assenza di conseguenze di lunga durata (Egmez c. Cipro, n. 30873/96, §§ 76 e 78-79, CEDU 2000 XII).

176. Infine, nella causa Gäfgen (sopra citata), la Corte ha tenuto conto: a) della durata del maltrattamento inflitto al ricorrente, ossia circa dieci minuti (Gäfgen, sopra citata, § 102); b) degli effetti fisici o psichici che questo trattamento aveva avuto sul ricorrente; la Corte ha ritenuto che le minacce di maltrattamenti avessero suscitato in quest’ultimo una paura, un’angoscia e delle sofferenze psichiche considerevoli, ma non conseguenze a lungo termine (idem, § 103); c) della questione di stabilire se il maltrattamento fosse intenzionale o meno; la Corte ha ritenuto che le minacce non fossero un atto spontaneo ma fossero state premeditate e concepite in maniera deliberata e intenzionale (idem, § 104); d) dello scopo perseguito dal maltrattamento e del contesto in cui era stato inflitto; la Corte ha sottolineato che gli agenti di polizia avevano minacciato il ricorrente di maltrattamenti allo scopo di estorcergli informazioni sul luogo in cui si trovava un bambino rapito e che essi credevano ancora vivo, ma in grave pericolo (idem, §§ 105-106). Perciò la Corte, pur tenendo conto della «motivazione che ispirava il comportamento degli agenti di polizia e l’idea che essi [avevano] nell’intento di salvare la vita di un minore» (idem, § 107), ha giudicato che il metodo di interrogatorio al quale il ricorrente era stato sottoposto nelle circostanze della presente causa era stato sufficientemente grave per essere qualificato come un trattamento inumano vietato dall’articolo 3, ma non aveva avuto il livello di crudeltà richiesto per raggiungere la soglia della tortura (idem, § 108).

ß) Applicazione nel caso di specie

177. Nella presente causa, la Corte non può ignorare che, secondo la Corte di cassazione, le violenze nella scuola Diaz-Pertini, di cui è stato vittima il ricorrente, erano state esercitate con finalità «punitiva, vendicativa e diretta all’umiliazione ed alla sofferenza fisica e mentale delle vittime» e che le stesse potevano definirsi «tortura» ai sensi dell’articolo 1 della Convenzione contro la tortura e le altre pene e trattamenti crudeli, inumani o degradanti (paragrafo 77 supra).

178. Inoltre, dal fascicolo risulta che il ricorrente è stato aggredito da agenti che lo hanno preso a calci e colpi di manganello tipo tonfa, considerato potenzialmente letale dalla sentenza di appello (paragrafo 68 supra), e che è stato colpito molte volte in varie parti del corpo.
I colpi inferti al ricorrente gli hanno causato fratture multiple (dell’ulna destra, dello stiloide destro, del perone destro e di varie costole) che hanno causato un ricovero di quattro giorni, una incapacità temporanea superiore a quaranta giorni, un intervento chirurgico durante il ricovero suddetto nonché un intervento alcuni anni dopo; il ricorrente ne ha mantenuto una debolezza permanente del braccio destro e della gamba destra (paragrafi 34-35 e 155 supra). Le conseguenze fisiche dei maltrattamenti subiti dal ricorrente sono dunque importanti.
Non possono essere sottovalutati nemmeno i sentimenti di paura e di angoscia suscitati nel ricorrente. Essendosi rifugiato in un riparo notturno, il ricorrente è stato svegliato dal rumore causato dall’irruzione della polizia. Oltre ai colpi subiti, ha visto gli agenti della polizia colpire altri occupanti senza alcun motivo apparente.
In questo contesto, conviene anche ricordare le conclusioni alle quali sono giunti i giudici nazionali nell’ambito del procedimento penale e che il Governo ha dichiarato di condividere in generale: secondo la sentenza di primo grado, la condotta della polizia all’interno della scuola Diaz-Pertini ha costituito una violazione evidente della legge, «di ogni principio di umanità e di rispetto della persona» (paragrafo 51 supra); secondo la sentenza di appello, gli agenti hanno colpito sistematicamente gli occupanti in un modo crudele e sadico, agendo come dei «picchiatori violenti» (paragrafi 67 e 73 supra); la Corte di cassazione parla di violenze «di una gravità inusitata» e «assoluta» (paragrafo 77 supra).
Nelle sue osservazioni dinanzi alla Corte, il Governo stesso ha definito le condotte della polizia nella scuola Diaz-Pertini come atti «molto gravi e deplorevoli».

179. Insomma, non si può negare che i maltrattamenti commessi nei confronti del ricorrente abbiano «provocato dolori e sofferenze acuti» e siano stati «di natura particolarmente grave e crudele» (Selmouni, sopra citata, § 105, e Erdal Aslan, sopra citata, § 73).

180. La Corte rileva anche l’assenza di un qualsiasi nesso di causalità tra la condotta del ricorrente e l’uso della forza da parte degli agenti di polizia.
In effetti, la sentenza di primo grado, pur ammettendo che alcuni atti di resistenza isolati erano stati verosimilmente commessi da occupanti della scuola Diaz-Pertini, cita il caso del ricorrente – che aveva già una certa età nel luglio 2001 – per sottolineare il carattere assolutamente sproporzionato della violenza della polizia rispetto agli atti di resistenza degli occupanti (paragrafo 51 supra). Del resto, come risulta da detta sentenza, la postura del ricorrente, che all’arrivo della polizia era seduto con le spalle al muro e le braccia in alto (paragrafo 34 supra), esclude qualsiasi resistenza da parte sua nei confronti della polizia.
In maniera ancora più netta, la sentenza di appello espone che non è stata fornita alcuna prova circa i presunti atti di resistenza da parte di alcuni degli occupanti, prima o dopo l’irruzione della polizia (paragrafo 71 supra). Inoltre, secondo tale sentenza, gli agenti di polizia erano rimasti indifferenti verso qualsiasi condizione di vulnerabilità fisica legata all’età e al sesso, e verso qualsiasi segno di capitolazione, anche da parte di persone che si erano appena svegliate per il rumore dell’irruzione (paragrafi 67 e 73 supra).
La sentenza della Corte di cassazione conferma l’assenza di resistenza da parte degli occupanti (paragrafo 80 supra).

181. Pertanto, la presente causa si distingue dalle cause nelle quali l’uso (sproporzionato) della forza da parte degli agenti di polizia era da mettere in relazione con atti di resistenza fisica o tentativi di fuga (tra i casi di arresto di una persona sospetta si vedano, ad esempio, Egmez, sopra citata, §§ 13, 76 e 78, e Rehbock c. Slovenia, n. 29462/95, §§ 71-78, CEDU 2000 XII; tra i casi di controlli di identità si vedano, per esempio, Sarigiannis c. Italia, n. 14569/05, §§ 59-62, 5 aprile 2011, e Dembele, sopra citata, §§ 43-47; per casi di violenze perpetrate durante il fermo, si vedano Rivas c. Francia, n. 59584/00, §§ 40-41, 1o aprile 2004, e Darraj, sopra citata, §§ 38-44).

182. I maltrattamenti in contestazione nella presente causa sono dunque stati inflitti al ricorrente in maniera totalmente gratuita e, sull’esempio di quelli riportati nelle cause Vladimir Romanov (sopra citata, § 68) e Dedovski e altri (sopra citata, §§ 83-85), non possono essere considerati un mezzo utilizzato in maniera proporzionata da parte delle autorità per raggiungere lo scopo perseguito.
A questo proposito, si deve ricordare che l’irruzione nella scuola Diaz-Pertini doveva essere una perquisizione: la polizia sarebbe dovuta entrare nella scuola, dove il ricorrente e gli altri occupanti si erano rifugiati legittimamente, per cercare elementi di prova che potessero portare all’identificazione dei membri dei black bloc, autori dei saccheggi nella città e, se del caso, al loro arresto (paragrafo 29 supra).
Ora, andando oltre qualsiasi considerazione sugli indizi riguardanti la presenza di black bloc nella scuola Diaz-Pertini la sera del 21 luglio (paragrafi 51 e 63 supra), le modalità operative seguite in concreto non sono coerenti con lo scopo dichiarato dalle autorità: la polizia ha fatto irruzione forzando la griglia e le porte di ingresso della scuola, ha picchiato quasi tutti gli occupanti e ha rastrellato i loro effetti personali, senza nemmeno cercare di identificarne i rispettivi proprietari. Queste circostanze, del resto, sono comprese tra i motivi per i quali, nella sua decisione, confermata dalla Corte di cassazione, la corte d’appello ha ritenuto illegale, e dunque costitutivo del reato di abuso di ufficio, l’arresto degli occupanti della scuola Diaz-Pertini (paragrafi 33-34, 38-39, 72 supra).

183. L’operazione controversa doveva essere condotta da una formazione costituita per la maggior parte da agenti appartenenti a un reparto specializzato nelle operazioni «antisommossa» (paragrafo 29 supra). Questa formazione, secondo le spiegazioni fornite dalle autorità, doveva «mettere in sicurezza» l’edificio, ossia svolgere un compito che, secondo la corte d’appello di Genova, è più affine a una obbligazione di risultato che a una obbligazione di mezzi (paragrafi 29, 65 e 79 supra). Dalle decisioni nazionali non risulta che agli agenti fossero state impartite direttive riguardanti l’uso della forza (paragrafi 65, 68 e 79 supra). La polizia ha attaccato immediatamente delle persone chiaramente inoffensive all’esterno della scuola (paragrafi 31 e 66 supra). Gli agenti non hanno cercato in nessun momento di discutere con le persone che avevano trovato legittimamente rifugio nell’edificio in questione né di farsi aprire le porte che queste persone avevano legittimamente chiuso, preferendo subito sfondarle (paragrafi 32 e 67 supra). Infine, essa ha sistematicamente picchiato tutti gli occupanti in tutti i locali dell’edificio (paragrafi 33 e 67 supra).
Pertanto, non si può ignorare il carattere intenzionale e premeditato dei maltrattamenti di cui il ricorrente, in particolare, è stato vittima.

184. Per valutare il contesto nel quale è avvenuta l’aggressione del ricorrente e, in particolare, l’elemento intenzionale, la Corte non può nemmeno ignorare i tentativi della polizia di nascondere i fatti in questione o di giustificarli sulla base di circostanze fittizie.
Da una parte, come hanno sottolineato la corte d’appello e la Corte di cassazione, facendo irruzione nella scuola Pascoli la polizia voleva nascondere qualsiasi prova filmata dell’irruzione che aveva luogo nella scuola Diaz-Pertini (paragrafo 83-84 supra). Inoltre, si devono richiamare le dichiarazioni del capo dell’ufficio stampa della polizia nella notte tra il 21 e il 22 luglio, secondo le quali le numerose macchie di sangue, nel pavimento, sui muri e sui radiatori dell’edificio, si giustificavano con le ferite che la maggior parte degli occupanti si sarebbero procurati durante gli scontri della giornata (paragrafo 41 supra, e paragrafo 67 supra per la valutazione della corte d’appello a questo proposito).
Dall’altra parte, la sentenza di appello indica che la resistenza degli occupanti, l’aggressione con coltello subita da un agente e la scoperta nella scuola Diaz-Pertini di due bottiglie Molotov erano altrettante menzogne, costitutive dei reati di calunnia e di falso, volti a giustificare, a posteriori, l’irruzione e le violenze commesse (paragrafi 70-73 supra). Si trattava, secondo la Corte di cassazione, di una «scellerata operazione mistificatoria» (paragrafo 80 supra).

185. In queste condizioni, la Corte non può condividere la tesi implicitamente avanzata dal Governo, ossia che la gravità dei maltrattamenti perpetrati durante l’irruzione della polizia nella scuola Diaz-Pertini dovrebbe essere relativizzata avuto riguardo al contesto di estrema tensione derivante dai numerosi scontri che si erano prodotti durante le manifestazioni e alle esigenze assolutamente particolari di tutela dell’ordine pubblico.

186. Certamente, quando si pronuncia sui maltrattamenti commessi da agenti di polizia che svolgono compiti oggettivamente difficili e che presentano rischi per la sicurezza degli agenti stessi o per quella altrui, la Corte tiene conto del contesto teso e della forte tensione emotiva (si vedano, per esempio, rispettivamente, Egmez, sopra citata, §§ 11-13 e 78: arresto in flagranza di reato di un trafficante di droga, che aveva opposto resistenza e cercato di darsi alla fuga, nella zona tampone che separa la parte del territorio sotto il controllo della Repubblica turca di Cipro del Nord dalla parte del territorio posto sotto l’autorità del governo di Cipro; e Gäfgen, sopra citata, §§ 107-108: minacce di tortura allo scopo di estorcere al ricorrente informazioni sul luogo in cui si trovava un bambino rapito e che gli inquirenti credevano essere ancora in vita, ma in grave pericolo).

187. Nel caso di specie, se il giudice di primo grado ha riconosciuto che gli imputati avevano agito «in condizione di stress e fatica» in occasione dell’irruzione nella scuola Diaz-Pertini (paragrafo 50 supra), né la corte d’appello, né la Corte di cassazione hanno accordato questa circostanza attenuante (paragrafo 73 supra).

188. Ora, la Corte ha il compito di deliberare non sulla colpevolezza in virtù del diritto penale o sulla responsabilità civile, ma sulla responsabilità degli Stati contraenti rispetto alla Convenzione (El-Masri, sopra citata, § 151). Per quanto riguarda, in particolare, l’articolo 3 della Convenzione, la Corte ha affermato molte volte che tale disposizione sancisce uno dei valori fondamentali delle società democratiche. L’articolo 3 non prevede eccezioni, e in ciò contrasta con la maggior parte delle clausole normative della Convenzione, e secondo l’articolo 15 § 2 non sono previste deroghe a tale disposizione, nemmeno in caso di pericolo pubblico che minacci la vita della nazione (Selmouni, sopra citata, § 95, Labita, sopra citata, § 119, Gäfgen, sopra citata, § 87, e El-Masri, sopra citata, § 195). La Corte ha confermato che anche nelle circostanze più difficili, come la lotta contro il terrorismo e la criminalità organizzata, la Convenzione vieta in termini assoluti la tortura e le pene o i trattamenti inumani o degradanti, quali che siano le condotte della vittima (Labita, Gäfgen e El-Masri, sopra citate, idem).

189. Pertanto, e senza volere in tal modo sottovalutare la difficoltà della missione della polizia nelle società contemporanee e l’imprevedibilità del comportamento umano (si veda, mutatis mutandis, Tzekov c. Bulgaria, n. 45500/99, § 61, 23 febbraio 2006), essa sottolinea, nel caso di specie, i seguenti elementi:

Tenuto conto di quanto precede, le tensioni che, come afferma il Governo, avrebbero caratterizzato l’irruzione della polizia nella scuola Diaz-Pertini si possono spiegare non tanto con ragioni obiettive, quanto piuttosto con la decisione di procedere ad arresti mediatizzati e con l’adozione di modalità operative non conformi alle esigenze della tutela dei valori derivanti dall’articolo 3 della Convenzione e dal diritto internazionale pertinente (paragrafi 107-111 supra).

190. In conclusione, considerate nel complesso le circostanze sopra esposte, la Corte ritiene che i maltrattamenti subiti dal ricorrente durante l’irruzione della polizia nella scuola Diaz-Pertini debbano essere qualificati come «tortura» nel senso dell’articolo 3 della Convenzione.

2. Sulla parte procedurale dell’articolo 3 della Convenzione

a) Tesi delle parti

i. Il ricorrente

191. Il ricorrente afferma che, al termine di un lungo procedimento penale, i giudici italiani hanno riconosciuto la gravità dei maltrattamenti di cui è stato vittima durante l’irruzione della polizia nella scuola Diaz-Pertini, ma non hanno inflitto pene adeguate ai responsabili di tali trattamenti. Dopo avere rammentato i capi d’imputazione formulati per quanto riguarda i fatti della scuola Diaz-Pertini, ossia, in particolare, i reati di falso ideologico, calunnia, abuso di potere e lesioni personali (semplici e aggravate), il ricorrente indica che la maggior parte di tali reati sono caduti in prescrizione durante il procedimento penale.

192. Egli aggiunge che le pene inflitte per i reati non prescritti, che considera irrisorie rispetto alla gravità dei fatti, sono state oggetto di un indulto in applicazione della legge n. 241 del 29 luglio 2006.

193. Il ricorrente afferma inoltre che i responsabili dei fatti della scuola Diaz-Pertini non sono stati oggetto di misure disciplinari e hanno persino ottenuto delle promozioni.

194. Pertanto, basandosi in particolare sulle sentenze Tzekov (sopra citata, §§ 52-66, 69-73), Samoylov (sopra citata, §§ 31-33) e Polonskiy (sopra citata, §§ 106-117), il ricorrente contesta allo Stato di non avere adempiuto ai propri obblighi derivanti dall’articolo 3 della Convenzione, ossia, a suo parere, quello di condurre un’inchiesta effettiva sugli atti di tortura di cui è stato vittima, di identificare gli autori di tali atti e di sanzionarli in maniera adeguata.

195. Egli precisa che le Alte Parti contraenti devono predisporre un quadro giuridico conforme alla tutela dei diritti dell’uomo riconosciuti dalla Convenzione e dai suoi Protocolli, e contesta a questo riguardo allo Stato italiano di non avere previsto come reato qualsiasi atto di tortura o qualsiasi trattamento inumano e degradante, il che secondo lui è contrario, del resto, agli impegni assunti dall’Italia nel 1989 durante la ratifica della Convenzione contro la tortura e le altre pene o i trattamenti crudeli, inumani o degradanti (paragrafo 109 supra).
Perciò egli afferma che lo Stato non ha adottato le misure necessarie per prevenire gli atti di tortura di cui sarebbe stato vittima e per sanzionarli in maniera adeguata.
Infine, secondo il ricorrente, questa lacuna è stata evidenziata in ultima istanza dal CPT nel suo rapporto al Governo italiano sulla visita dallo stesso effettuata in Italia dal 13 al 25 maggio 2012 (paragrafo 120 supra).

ii. Il Governo

196. Il Governo ritiene che lo Stato abbia pienamente adempiuto all’obbligo positivo – che deriverebbe dall’articolo 3 della Convenzione – di condurre un’inchiesta indipendente, imparziale e approfondita. Egli afferma che le autorità hanno adottato tutte le misure che, come imporrebbe la giurisprudenza della Corte (Gäfgen, sopra citata, §§ 115-116, con i riferimenti ivi contenuti), avrebbero permesso di identificare e condannare i responsabili dei maltrattamenti in questione a una pena proporzionata ai reati commessi, nonché di risarcire la vittima.
Il Governo rammenta in proposito che la sentenza di primo grado ha pronunciato la condanna penale di vari imputati e ha inoltre riconosciuto il diritto delle parti civili a un risarcimento e disposto il versamento di una provvisionale a questo titolo. Il Governo indica anche che la sentenza di appello, che ha concluso per la prescrizione di alcuni reati, ha comunque aggravato le sanzioni a carico degli imputati, condannando una buona parte di coloro che erano stati assolti in primo grado e infliggendo in particolare pene fino a cinque anni di reclusione per lesioni personali aggravate. Esso indica infine che la Corte di cassazione ha confermato la sentenza di appello, in particolare l’obbligo di risarcire le parti civili e di rimborsare loro le spese che queste avevano sostenuto.
Il Governo ritiene pertanto che la prescrizione di alcuni reati di cui hanno beneficiato i responsabili dei fatti avvenuti nella scuola Diaz-Pertini non abbia compromesso l’effettività dell’inchiesta e non abbia pregiudicato in alcun modo il diritto del ricorrente di ottenere la liquidazione definitiva del risarcimento danni nell’ambito di un procedimento civile successivo.

197. Peraltro, il Governo osserva che la doglianza del ricorrente riguarda, sostanzialmente, l’assenza del reato di «tortura» nell’ordinamento giuridico italiano.
A tale proposito, il Governo afferma che l’articolo 3 della Convenzione non obbliga le Alte Parti contraenti a prevedere, nel loro ordinamento giuridico, un reato ad hoc e che, pertanto, esse sono libere di perseguire i maltrattamenti vietati dall’articolo 3 per mezzo della loro legislazione, in quanto nemmeno la natura e il quantum delle pene sono, secondo il Governo, fissate da norme di diritto internazionale, ma sono lasciate alla valutazione sovrana delle autorità nazionali.

198. Nel caso di specie, il Governo è del parere che i responsabili dei maltrattamenti lamentati dal ricorrente siano stati pienamente perseguiti facendo riferimento ai vari reati previsti dalla legislazione penale italiana (in particolare il reato di lesioni personali aggravate) (paragrafi 48 e 91 supra), il che, secondo esso, non ha impedito ai giudici nazionali di valutare i maltrattamenti in questione nell’ambito dei gravi fatti avvenuti alla scuola Diaz-Pertini.
Per di più, i giudici nazionali si sarebbero basati anche sulla definizione di «tortura» data dalla Convenzione contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti del 10 dicembre 1984 (paragrafi 77 e 109 supra).

199. In ogni caso, il Governo informa la Corte che varie proposte di legge, volte all’introduzione del reato di tortura nell’ordinamento giuridico italiano, sono al vaglio del Parlamento e che la procedura di approvazione di tali proposte si trova già a uno stadio avanzato (paragrafo 106 supra).
Il Governo precisa che sono previste pene fino a dodici anni di reclusione in caso di maltrattamenti commessi da funzionari o pubblici ufficiali e che può essere inflitta la pena dell’ergastolo quando i maltrattamenti in questione hanno causato il decesso della vittima.

iii. I terzi intervenienti

200. I terzi intervenienti affermano anzitutto che, da quasi venti anni, il Comitato dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, il CAT e il CPT continuano a stigmatizzare, nei loro rispettivi ambiti di competenza, l’assenza del reato di tortura nell’ordinamento giuridico italiano, e a raccomandare alle autorità l’introduzione di una disposizione penale ad hoc, che preveda pene che siano non solo proporzionate alla gravità di tale crimine, ma anche effettivamente eseguite (paragrafi 112-116, 118, 120).

201. Essi indicano che la «reazione tipo» del Governo a queste ripetute raccomandazioni, che esso avrebbe manifestato anche nella presente causa, si può riassumere come segue: anzitutto, il Governo metterebbe avanti i vari disegni di legge volti all’introduzione del reato di tortura che si sono susseguiti nel corso degli anni senza mai essere portati a compimento; il Governo argomenterebbe poi che gli atti di tortura, così come i trattamenti inumani e degradanti, rientrano nelle previsioni di altre disposizioni del codice penale (CP) e che, pertanto, sono già perseguiti e sanzionati in maniera adeguata nell’ordinamento giuridico italiano (paragrafi 115, 117, 119 e 121 supra); infine, il Governo affermerebbe che, in realtà, il reato di tortura esiste già nell’ordinamento giuridico italiano in virtù dell’effetto diretto della Convenzione contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani e degradanti.

202. Al di là delle contraddizioni logiche che si sono manifestate secondo loro tra le tre categorie di argomenti normalmente esposti dal Governo e dei dubbi sull’applicabilità delle disposizioni penali invocate agli atti di tortura morale, i terzi intervenienti contestano, in particolare, la tesi secondo la quale i vari reati già presenti nel CP permetterebbero di sanzionare adeguatamente ed effettivamente gli atti di tortura, di qualsiasi natura essi siano. Essi obiettano a tale proposito che le pene massime previste dal CP per i reati in questione sono generalmente di lieve entità e che, per di più, i giudici penali tendono a infliggere il minimo della sanzione prevista dalla legge.
Per i terzi intervenienti, ciò che essi considerano come una frammentazione della qualificazione degli atti di tortura per uno o più reati di «diritto comune» e la lieve entità, a loro parere, delle pene previste per ciascuno di tali reati, comporterebbero inoltre l’applicazione di termini di prescrizione troppo brevi rispetto al tempo necessario per condurre delle indagini approfondite e giungere a una condanna definitiva all’esito del procedimento penale. Per di più, essi ritengono che i responsabili di atti che rispetto al diritto internazionale sarebbero definiti «tortura» possono beneficiare, in assenza di un reato corrispondente nel diritto interno, e dunque di condanna a questo titolo, di un’amnistia, un indulto, una sospensione condizionale e varie altre misure che, secondo loro, riducono l’effettività della sanzione penale.
Insomma, i carnefici potrebbero sentirsi liberi di agire con la convinzione di godere di una impunità quasi assoluta.

203. I terzi intervenienti concludono che, in queste condizioni, l’Italia viola gli obblighi che deriverebbero non solo dalla Convenzione contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti, ma anche dall’articolo 3 della Convenzione.
A questo proposito essi richiamano l’attenzione della Corte sui principi che essa avrebbe enunciato nella sentenza Gäfgen (sopra citata), al paragrafo 121 della stessa, con riguardo alla valutazione del carattere «effettivo» dell’inchiesta che le autorità devono condurre in caso di dedotti maltrattamenti: essi sottolineano, in particolare, che l’esito dell’inchiesta e del procedimento penale con essa avviato, ivi compresa la sanzione pronunciata, è determinante. Facendo riferimento poi alla sentenza Siliadin c. Francia (n. 73316/01, §§ 89 e 112, CEDU 2005 VII), essi considerano, in maniera più generale, che la tutela dei diritti dell’uomo riconosciuti dalla Convenzione possa comportare l’obbligo di qualificare come reato, a livello nazionale, le pratiche indicate nell’articolo 3 della Convenzione e quello di sanzionare adeguatamente le violazioni di questi stessi diritti.

b) Valutazione della Corte

i. Principi generali

204. La Corte rammenta che, quando un individuo sostiene in maniera difendibile di avere subito, da parte della polizia o di altri servizi analoghi dello Stato, un trattamento contrario all’articolo 3, tale disposizione, combinata con il dovere generale imposto allo Stato dall’articolo 1 della Convenzione di «riconoscere a ogni persona sottoposta alla [sua] giurisdizione i diritti e le libertà definiti (…) [nella] Convenzione», richiede, per implicazione, che vi sia un’inchiesta ufficiale effettiva. Tale inchiesta deve poter portare all’identificazione e alla punizione dei responsabili. Se così non fosse, nonostante la sua importanza fondamentale, il divieto legale generale della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti sarebbe inefficace nella pratica, e sarebbe possibile in alcuni casi per gli agenti dello Stato calpestare, godendo di una quasi impunità, i diritti di coloro che sono sottoposti al loro controllo (si vedano, tra molte altre sentenze, Assenov e altri c. Bulgaria, 28 ottobre 1998, § 102, Recueil 1998 VIII, Labita, sopra citata, § 131, Krastanov, sopra citata, § 57, Vladimir Romanov, sopra citata, § 81, Ali e Ayşe Duran c. Turchia, n. 42942/02, § 60, 8 aprile 2008, Georgiy Bykov, sopra citata, § 60, El-Masri, sopra citata, §§ 182 e 185 e gli altri riferimenti ivi contenuti, Dembele, sopra citata, § 62, Alberti, sopra citata, § 62, Saba, sopra citata, § 76, e Dimitrov e altri c. Bulgaria, n. 77938/11, § 135, 1o luglio 2014).

205. Anzitutto, perché un’inchiesta sia effettiva e permetta di identificare e di perseguire i responsabili, deve essere avviata e condotta con celerità (Gäfgen, sopra citata, § 121, e gli altri riferimenti ivi contenuti).
Inoltre, l’esito dell’inchiesta e del procedimento penale cui essa dà avvio, così come la sanzione pronunciata e le misure disciplinari adottate, risultano determinanti. Essi sono fondamentali se si vuole preservare l’effetto dissuasivo del sistema giudiziario vigente e il ruolo che esso è tenuto ad esercitare nella prevenzione delle violazioni del divieto di maltrattamenti (Çamdereli c. Turchia, n. 28433/02, § 38, 17 luglio 2008, Gäfgen, § 121, Saba, sopra citata, § 76; dal punto di vista dell’articolo 2, si veda anche Nikolova e Velitchkova c. Bulgaria, n. 7888/03, §§ 60 e seguenti, 20 dicembre 2007).

206. Quando le indagini preliminari hanno comportato l’avvio di un’inchiesta dinanzi ai giudici nazionali, è tutto il procedimento, ivi compresa la fase di giudizio, che deve soddisfare agli imperativi del divieto posto da tale disposizione. Così, le autorità giudiziarie nazionali non devono in alcun caso mostrarsi disposte a lasciare impunite delle aggressioni contro l’integrità fisica e morale delle persone. Ciò è indispensabile per mantenere la fiducia del pubblico e garantire la sua adesione allo Stato di diritto, nonché per prevenire ogni accenno di tolleranza di atti illegali o di possibile collusione nella loro perpetrazione (si veda, dal punto di vista dell’articolo 2, Öneryıldız c. Turchia [GC], n. 48939/99, § 96, CEDU 2004 XII).
Il compito della Corte consiste dunque nel verificare se e in quale misura si può considerare che i giudici, prima di giungere a una qualsiasi decisione, hanno sottoposto il caso di cui sono stati investiti all’esame scrupoloso richiesto dall’articolo 3, in modo da preservare la forza di dissuasione del sistema giudiziario esistente e l’importanza del ruolo di quest’ultimo nel rispetto del divieto di tortura (Okkali c. Turchia, n. 52067/99, §§ 65-66, 17 ottobre 2006, Ali e Ayşe Duran, sopra citata, §§ 61-62, Zeynep Özcan c. Turchia, n. 45906/99, § 42, 20 febbraio 2007, e Dimitrov e altri, sopra citata, §§ 142-143).

207. Quanto alla sanzione penale per i responsabili di maltrattamenti, la Corte rammenta che non ha il compito di pronunciarsi sul grado di colpevolezza della persona in causa (si vedano, sotto il profilo dell’articolo 2, Öneryıldız, sopra citata, § 116, e Natchova e altri c. Bulgaria [GC], nn. 43577/98 e 43579/98, § 147, CEDU 2005 VII) o di determinare la pena da infliggere, in quanto queste materie rientrano nella competenza esclusiva dei tribunali penali interni. Tuttavia, in virtù dell’articolo 19 della Convenzione, e conformemente al principio che vuole che la Convenzione garantisca dei diritti non teorici o illusori ma concreti ed effettivi, la Corte deve assicurarsi che lo Stato adempia come si deve all’obbligo di tutelare i diritti delle persone che rientrano nella sua giurisdizione. Di conseguenza, la Corte «deve mantenere la sua funzione di controllo e intervenire nel caso esista una evidente sproporzione tra la gravità dell’atto e la sanzione inflitta. Altrimenti, il dovere che hanno gli Stati di condurre un’inchiesta effettiva perderebbe molto del suo senso» (si veda, in questi termini precisi, Gäfgen, sopra citata, § 123; si vedano anche Ali e Ayşe Duran, sopra citata, § 66, e Saba, sopra citata, § 77; si veda infine, dal punto di vista dell’articolo 2, Nikolova e Velitchkova, sopra citata, § 62).

208. La valutazione dell’adeguatezza della sanzione dipende pertanto dalle circostanze particolari della causa determinata (İlhan, sopra citata, § 92).
La Corte ha anche dichiarato che, in materia di tortura o di maltrattamenti inflitti da parte di agenti dello Stato, l’azione penale non dovrebbe estinguersi per effetto della prescrizione, così come l’amnistia e la grazia non dovrebbero essere tollerate in questo ambito. Del resto, l’applicazione della prescrizione dovrebbe essere compatibile con le esigenze della Convenzione. Pertanto, è difficile accettare dei tempi di prescrizione non flessibili che non sono soggetti ad alcuna eccezione (Mocanu e altri c. Romania [GC] nn. 10865/0945886/07 e 32431/08, § 326 CEDU 2014 (estratti) e le cause ivi citate).
Lo stesso vale per la sospensione condizionale dell’esecuzione della pena (Okkali, sopra citata, §§ 74-78, Gäfgen, sopra citata, § 124, Zeynep Özcan, sopra citata, § 43; si veda anche, mutatis mutandis, Nikolova e Velitchkova, sopra citata, § 62) e per la liberazione anticipata (Abdülsamet Yaman, sopra citata, § 55, e Müdet Kömürcü, §§ 29-30).

209. Affinché un’inchiesta sia effettiva nella pratica, la condizione preliminare è che lo Stato abbia promulgato delle disposizioni di diritto penale che puniscono le pratiche contrarie all’articolo (Gäfgen, sopra citata, § 117). In effetti, l’assenza di una legislazione penale sufficiente per prevenire e punire effettivamente gli autori di atti contrari all’articolo 3 può impedire alle autorità di perseguire le offese a questo valore fondamentale delle società democratiche, di valutarne la gravità, di pronunciare pene adeguate e di escludere l’applicazione di qualsiasi misura che possa alleggerire eccessivamente la sanzione, a scapito del suo effetto preventivo e dissuasivo (M.C. c. Bulgaria, n. 39272/98, §§ 149, 153 e 166, CEDU 2003 XII, Tzekov, sopra citata, § 71, Çamdereli, sopra citata, § 38; dal punto di vista dell’articolo 4, si veda, mutatis mutandis, Siliadin c. Francia, n. 73316/01, §§ 89, 112 e 148, CEDU 2005 VII).

210. Per quanto riguarda le misure disciplinari, la Corte ha dichiarato più volte che, quando degli agenti dello Stato sono imputati per reati che implicano dei maltrattamenti, è importante che siano sospesi dalle loro funzioni durante l’istruzione o il processo e che, in caso di condanna, ne siano rimossi (si vedano, tra molte altre, le sentenze sopra citate Abdülsamet Yaman, § 55, Nikolova e Velitchkova, § 63, Ali e Ayşe Duran, § 64, Erdal Aslan, §§ 74 e 76, Çamdereli, § 38, Gäfgen, § 125, e Saba, § 78).

211. Inoltre, la vittima deve essere in grado di partecipare effettivamente, in un modo o nell’altro, all’inchiesta (Dedovski e altri, sopra citata, § 92, e El-Masri, sopra citata, § 185, con i riferimenti ivi contenuti).

212. Infine, oltre a condurre un’inchiesta approfondita ed effettiva, lo Stato, se del caso, deve accordare al ricorrente una indennità, o almeno la possibilità di chiedere e ottenere riparazione del danno che i maltrattamenti in questione gli hanno cagionato (Gäfgen, sopra citata, § 118, con gli altri riferimenti ivi contenuti).

ii. Applicazione al caso di specie

213. Tenuto conto dei principi sopra riepilogati e, in particolare, l’obbligo imposto allo Stato di identificare e, eventualmente, sanzionare in maniera adeguata agli autori di atti contrari all’articolo 3 della Convenzione, la Corte ritiene che la presente causa sollevi tre tipi di problema.

α) Assenza di identificazione degli autori materiali dei maltrattamenti in causa

214. I poliziotti che hanno aggredito il ricorrente nella scuola Diaz-Pertini e lo hanno materialmente sottoposto ad atti di tortura non sono mai stati identificati (paragrafo 52 supra). Essi non sono stati neanche oggetto di indagine e sono rimasti, semplicemente, impuniti.

215. Certamente, l’obbligo di inchiesta che deriva dall’articolo 3 è piuttosto un obbligazione di mezzo che di risultato (Kopylov, sopra citata, § 132, Samoylov, sopra citata, § 31, e Batı e altri, sopra citata, § 134), dal momento che l’indagine può chiudersi in un nulla di fatto nonostante tutti i mezzi e gli sforzi debitamente dispiegati dalle autorità

216. Resta comunque il fatto che, nel caso di specie, secondo la sentenza di primo grado, l’assenza di identificazione degli autori materiali dei maltrattamenti in causa deriva dalla difficoltà oggettiva della procura di procedere ad identificazioni certe e dalla mancata collaborazione della polizia nel corso delle indagini preliminari (paragrafo 52 supra).
La Corte si rammarica che la polizia italiana si sia potuta rifiutare impunemente di fornire alle autorità competenti la collaborazione necessaria all’identificazione degli agenti che potevano essere coinvolti negli atti di tortura.

217. Inoltre, dalle decisioni interne risulta che il numero esatto degli agenti che avevano partecipato all’operazione è rimasto sconosciuto (paragrafo 30 supra) e che i poliziotti, almeno quelli che erano in testa al gruppo che portava i caschi di protezione, hanno fatto irruzione nella scuola avendo, la maggior parte di loro, il viso coperto da un foulard (paragrafi 29 e 33 supra).
Secondo la Corte, queste due circostanze, che derivano dalle fasi di pianificazione e realizzazione dell’irruzione della polizia nella scuola Diaz-Pertini, costituiscono già degli ostacoli non trascurabili ad ogni tentativo di inchiesta efficace sugli eventi in questione.
La Corte rammenta, in particolare, di aver già dichiarato, sulla base dell’articolo 3 della Convenzione, che l’impossibilità di identificare i membri delle forze dell’ordine, presunti autori di atti contrari alla Convenzione, era contraria a quest’ultima. Parimenti, ha già sottolineato che, quando le autorità nazionali competenti schierano i poliziotti con il viso coperto per mantenere l’ordine pubblico o effettuare un arresto, questi agenti sono tenuti a portare un segno distintivo – ad esempio un numero di matricola – che, pur preservando il loro anonimato, permetta di identificarli in vista della loro audizione qualora il compimento dell’operazione venga successivamente contestato (Ataykaya, sopra citata, § 53, nonché i riferimenti ivi contenuti).

ß) prescrizione dei delitti e indulto parziale delle pene

218. Per l’irruzione nella scuola Diaz-Pertini, per le violenze che vi sono state commesse e per i tentativi di nascondere o giustificare queste ultime, alcuni alti dirigenti, alcuni funzionari e un certo numero di agenti della polizia sono stati perseguiti e rinviati a giudizio per vari delitti. É accaduto lo stesso per i fatti che si sono verificati nella scuola Pascoli (paragrafi 45 e 47 supra).

219. Tuttavia, per quanto riguarda gli eventi che si sono verificati nella scuola Diaz-Pertini, i delitti di calunnia, di abuso di ufficio (soprattutto in ragione dell’arresto illegale degli occupanti), di lesioni semplici nonché, nei confronti di un imputato, di lesioni gravi, si sono prescritti prima della decisione d’appello (paragrafo 61 supra). Il delitto di lesioni gravi, per il quale dieci e nove imputati erano stati condannati rispettivamente in primo e secondo grado (paragrafi 49 e 60 supra), è stato dichiarato prescritto dalla Corte di cassazione (paragrafi 76 e 79 supra)
Per quanto riguarda gli eventi che si sono verificati nella scuola Pascoli, i delitti che sono stati ivi commessi allo scopo di cancellare le prove dell’irruzione e delle violenze perpetrate nella scuola Diaz-Pertini si sono ugualmente prescritti prima della decisione d’appello (paragrafo 83 supra).

220. Sono state dunque pronunciate soltanto delle condanne per falso ideologico (diciassette imputati) e per porto abusivo di armi da guerra (un imputato) a pene che vanno da tre anni e tre mesi a quattro anni di reclusione, oltre all’interdizione dai pubblici uffici per una durata di cinque anni (paragrafo 60 supra).

221. In definitiva, al termine del procedimento penale nessuno è stato condannato per i maltrattamenti perpetrati nella scuola Diaz-Pertini nei confronti, in particolare, del ricorrente, in quanto i delitti di lesioni semplici e aggravate si sono estinti per prescrizione. In effetti, le condanne confermate dalla Corte di cassazione riguardano piuttosto i tentativi di giustificazione di questi maltrattamenti e l’assenza di base fattuale e giuridica per l’arresto degli occupanti della scuola Diaz-Pertini (paragrafi 76, 79 e 80 supra).
Per di più, in applicazione della legge n. 241 del 29 luglio 2006, che stabiliva le condizioni da soddisfare per ottenere l’indulto, le pene sono state ridotte di tre anni (paragrafi 50 e 60 supra). Ne consegue che i condannati dovranno scontare, nella peggiore delle ipotesi, pene comprese tra tre mesi e un anno di reclusione.

222. Per quanto sopra esposto, la Corte ritiene che la reazione delle autorità non sia stata adeguata tenuto conto della gravità dei fatti. Di conseguenza ciò la rende incompatibile con gli obblighi procedurali che derivano dall’articolo 3 della Convenzione.

223. Al contrario di quanto ha giudicato in altre cause (si vedano, ad esempio, Batı e altri, sopra citata, §§ 142-147, Erdal Aslan, sopra citata, §§ 76-77, Abdülsamet Yaman, sopra citata, §§ 57-59, e Hüseyin Şimşek, sopra citata, §§ 68-70), la Corte ritiene che questo risultato non sia imputabile alle tergiversazioni o alla negligenza della procura o dei giudici nazionali.
In effetti, se a prima vista il ricorrente sembra attribuire la prescrizione dei delitti alla eccessiva durata del procedimento, egli non ha affatto suffragato questa affermazione con una descrizione, sia pure sommaria, dello svolgimento del procedimento e dei ritardi che sarebbero stati ingiustificati nel corso delle indagini o del dibattimento. Nemmeno dal fascicolo risulta che vi siano stati ritardi. 
Benché ci siano voluti più di dieci anni dagli eventi della scuola Diaz-Pertini per ottenere una decisione definitiva, la Corte non può ignorare che la procura ha dovuto far fronte a ostacoli non trascurabili nel corso delle indagini (paragrafi 44, 45 e 52 supra) e che gli organi giudicanti hanno dovuto esaminare un procedimento penale molto complesso, nei confronti di decine di imputati e di un centinaio di parti civili italiane e straniere (paragrafi 46-47 supra) per stabilire, nel rispetto delle garanzie del processo equo, le responsabilità individuali di un episodio di violenza da parte della polizia che lo stesso Governo convenuto ha definito eccezionale.

224. La Corte non può neanche contestare ai giudici interni di non aver valutato la gravità dei fatti attribuiti agli imputati (Saba sopra citata, §§ 79-80; si veda anche, mutatis mutandis, Gäfgen, sopra citata, § 124) o, ancor peggio, di aver utilizzato de facto le disposizioni legislative e repressive del diritto nazionale per evitare qualsiasi condanna effettiva dei poliziotti perseguiti (Zeynep Özcan, sopra citata, § 43).
Le sentenze di appello e di cassazione, in particolare, dimostrano una fermezza esemplare e non trovano alcuna giustificazione ai gravi eventi della scuola Diaz-Pertini.
In tale contesto, le ragioni che hanno indotto la corte d’appello a determinare le pene sulla base del minimo edittale per ciascuno dei delitti in questione (ossia il fatto che tutta l’operazione aveva ad origine l’ordine del capo della polizia di eseguire degli arresti e che gli imputati avevano quindi agito sotto questa pressione psicologica – paragrafo 74 supra) non sembrano paragonabili a quelle che la Corte ha denunciato in altre cause (si veda, ad esempio, Ali e Ayşe Duran, sopra citata, § 68, dove gli autori degli atti contrari all’articolo 3 della Convenzione avevano beneficiato di una riduzione della pena in ragione della loro asserita collaborazione nel corso dell’indagine e del dibattimento, mentre in realtà si erano sempre limitati a respingere ogni accusa; si veda anche Zeynep Özcan, sopra citata, § 43, dove le autorità giudicanti avevano riconosciuto agli imputati delle circostanze attenuanti tenuto conto del loro comportamento nel corso del processo mentre in realtà gli interessati non avevano mai assistito alle udienze).

225. La Corte considera pertanto che è la legislazione penale italiana applicata al caso di specie (paragrafi 88-102 supra) a rivelarsi inadeguata rispetto all’esigenza di sanzionare gli atti di tortura in questione e al tempo stesso privata dell’effetto dissuasivo necessario per prevenire altre violazioni simili dell’articolo 3 in futuro (Çamdereli, sopra citata, § 38).
Del resto, nella sentenza Alikaj e altri c. Italia (n. 47357/08, § 108, 29 marzo 2011), la Corte, dopo aver affermato che «le azioni intraprese dalle autorità incaricate dell’indagine preliminare (…) poi dai giudici di merito durante il processo non [davano adito] a contestazione», ha anche ritenuto che «l’applicazione della prescrizione rientra senza dubbio nella categoria di «misure» inammissibili secondo la giurisprudenza della Corte riguardo al profilo procedurale dell’articolo 2 della Convenzione, in quanto ha avuto come effetto quello di impedire una condanna».

226. La Corte dovrà ritornare successivamente (paragrafo 244 e seguenti infra) su queste conclusioni, che sono suffragate soprattutto dalle osservazioni del primo presidente della Corte di cassazione italiana (paragrafo 105 supra) e da quelle dei terzi intervenienti (paragrafi 200-203 supra).

γ) Dubbi sulle misure disciplinari adottate nei confronti dei responsabili dei maltrattamenti in causa.

227. Non risulta dalla documentazione che i responsabili degli atti di tortura subiti dal ricorrente e degli altri delitti connessi a quest’ultimo siano stati sospesi dalle loro funzioni nel corso del procedimento penale. La Corte non dispone neanche di informazioni sull’evoluzione della loro carriera nel corso del procedimento penale e sulle azioni intraprese sul piano disciplinare dopo la loro condanna definitiva, informazioni che sono ugualmente necessarie ai fini dell’esame del rispetto dell’articolo 3 della Convenzione (paragrafo 210 supra).

228. Peraltro essa prende atto del silenzio del Governo al riguardo nonostante la domanda di informazioni espressamente formulata al momento della comunicazione della causa.

iii. Qualità di vittima ed esaurimento delle vie di ricorso interne (in particolare: azione di risarcimento danni)

229. Tenuto conto delle constatazioni che precedono, la Corte ritiene che le varie misure adottate delle autorità interne non abbiano pienamente soddisfatto alla condizione di una inchiesta approfondita ed effettiva, come esige la sua giurisprudenza. Questa circostanza è determinante ai fini dell’eccezione che il Governo solleva relativamente alla perdita della qualità di vittima del ricorrente perché, in particolare, i giudici hanno già riconosciuto la violazione in causa nell’ambito del procedimento penale e hanno accordato una riparazione all’interessato (paragrafo 131 supra).

230. In effetti, come rammentato dalla Grande Camera nella sentenza Gäfgen (sopra citata, § 116), «in caso di maltrattamenti deliberati inflitti da agenti dello Stato ai danni dell’articolo 3, la Corte ritiene in maniera costante che», oltre al riconoscimento della violazione, «sono necessarie due misure affinché la riparazione sia sufficiente» per privare il ricorrente della sua qualità di vittima. «In primo luogo, le autorità dello Stato devono condurre una indagine approfondita ed effettiva che possa portare all’identificazione e alla punizione dei responsabili (si vedano, tra altre, Krastanov, sopra citata, § 48, Çamdereli, [sopra citata] §§ 28-29 (…), e Vladimir Romanov, sopra citata, §§ 79 e 81). In secondo luogo, il ricorrente deve, eventualmente, ottenere un risarcimento (Vladimir Romanov, sopra citata, § 79, e, mutatis mutandis, Aksoy, sopra citata, § 98, e Abdülsamet Yaman, [sopra citata], § 53 (…) (queste due sentenze nel contesto dell’articolo 13)) o, almeno, avere la possibilità di chiedere e di ottenere un indennizzo per il danno che gli è stato causato dal maltrattamento».

231. La Corte in più occasioni ha dichiarato che il riconoscimento di un indennizzo alla vittima non è sufficiente a porre rimedio alla violazione dell’articolo 3. In effetti, se le autorità potevano limitarsi a reagire in caso di maltrattamento deliberato inflitto da agenti dello Stato accordando un semplice indennizzo, senza adoperarsi nel perseguire e punire i responsabili, gli agenti dello Stato potrebbero in alcuni casi violare i diritti delle persone sottoposte al loro controllo praticamente in totale impunità, e il divieto della tortura e dei trattamenti inumani o degradanti sarebbe privo di effetto utile a scapito della sua fondamentale importanza (si veda, fra molte altre, Camdereli, sopra citata, § 29, Vladimir Romanov, sopra citata, § 78, Gäfgen, sopra citata, § 119; si veda anche, mutatis mutandis, Krastanov, sopra citata, § 60; sul terreno dell’articolo 2, si veda Nikolova e Velichkova, sopra citata, § 55, e i riferimenti ivi contenuti; si veda, da ultimo, Petrović c. Serbia, n. 40485/08, § 80, 15 luglio 2014).
È per questo che la possibilità per il ricorrente di chiedere e di ottenere un indennizzo per il danno che il maltrattamento gli ha causato oppure il versamento, come nel presente caso, da parte delle autorità di una certa somma a titolo di provvisionale costituiscono soltanto una parte delle misure necessarie (Camdereli, sopra citata, § 30, Vladimir Romanov, sopra citata, § 79, e Nikolova e Velichkova, sopra citata, § 56).

232. Per quanto riguarda il secondo elemento dell’eccezione di mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, relativo al fatto che il ricorrente non ha avviato una ulteriore azione civile per risarcimento danni (paragrafo 139 supra), la Corte rammenta di aver in più occasioni rigettato eccezioni simili, dopo aver osservato che l’azione di risarcimento danni non aveva lo scopo di punire i responsabili degli atti contrari agli articoli 2 o 3 della Convenzione e ribadendo che, per delle violazioni di questo tipo, la reazione delle autorità non può limitarsi al risarcimento della vittima (si vedano, fra molte altre, Yaşa c. Turchia, 2 settembre 1998, §§ 70-74, Recueil 1998 VI, Oğur c. Turchia [GC], n. 21594/93, §§ 66-67, CEDU 1999 III, Issaïeva e altri c. Russia, nn. 57947/0057948/00 e 57949/00, §§ 146-149, 24 febbraio 2005, Estamirov e altri c. Russia, n. 60272/00, §§ 76-77, 12 ottobre 2006, Beganović c. Croazia, n. 46423/06, §§ 54-57, 25 giugno 2009, e Fadime e Turan Karabulut c. Turchia, n. 23872/04, §§ 13-15, 27 maggio 2010).
In altre parole, dal momento che, in caso di trattamenti contrari all’articolo 3 della Convenzione, l’obbligo di riconoscere una riparazione a livello interno si aggiunge all’obbligo di condurre una inchiesta approfondita ed effettiva volta ad identificare e a sanzionare i responsabili e non si sostituisce ad essa, le vie di ricorso esclusivamente risarcitorie non possono essere considerate effettive in base a tale disposizione (Sapožkovs c. Lettonia, n. 8550/03, §§ 54-55, 11 febbraio 2014).

233. La Corte rammenta che, quando è stata utilizzata una via ricorso, non viene imposto l’utilizzo di un altro rimedio il cui scopo è praticamente lo stesso (Kozacıoğlu, sopra citata, §§ 40-43, Karakó c. Ungheria, n. 39311/05, § 14, 28 aprile 2009, e Jasinskis c. Lettonia, n. 45744/08, §§ 50-55, 21 dicembre 2010).

234. La Corte osserva che, nel caso di specie, il ricorrente si è avvalso della via di ricorso civile costituendosi parte civile nel procedimento penale nel luglio 2004 allo scopo di ottenere la riparazione del danno sofferto (paragrafi 46 supra; si veda anche Calvelli e Ciglio, n. 32967/96, § 62, CEDU 2002-I). Egli ha dunque preso parte al procedimento penale in tutti i gradi di giudizio (paragrafi 59 e 75 supra) e fino alla sentenza della Corte di cassazione depositata il 2 ottobre 2012.
In tali circostanze, pretendere che, ai fini del rispetto della regola dell’esaurimento delle vie di ricorso interne, il ricorrente avviasse una ulteriore azione civile, costituirebbe un onere eccessivo per la vittima di una violazione dell’articolo 3 (si veda, mutatis mutandis, Saba, sopra citata, § 47).

235. Basandosi sulla sua giurisprudenza e sulle constatazioni formulate nel caso di specie relativamente alle lacune dell’inchiesta riguardante i maltrattamenti di cui il ricorrente è stato vittima, la Corte non può che rigettare le due eccezioni preliminari del Governo convenuto che ha unito al merito.

iv. Conclusione

236. La Corte conclude per la violazione dell’articolo 3 della Convenzione – a causa dei maltrattamenti subiti dal ricorrente che devono essere qualificati «tortura» ai sensi di questa disposizione – sia sotto il profilo sostanziale che procedurale. In queste circostanze, essa ritiene di dover rigettare tanto l’eccezione preliminare del Governo relativa alla perdita della qualità di vittima (paragrafi 131 e seguenti supra) quanto l’eccezione preliminare relativa al mancato esaurimento delle vie di ricorso interne (paragrafi 139-140 supra).

III. SULL’APPLICAZIONE DELL’ARTICOLO 41 DELLA CONVENZIONE

237. Ai sensi dell’articolo 41 della Convenzione,

«Se la Corte dichiara che vi è stata violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli e se il diritto interno dell’Alta Parte contraente non permette se non in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze di tale violazione, la Corte accorda, se del caso, un’equa soddisfazione alla parte lesa.»

238. Nelle sue parti pertinenti al caso di specie, l’articolo 46 della Convenzione è così formulato:

«1. Le Alte Parti contraenti si impegnano a conformarsi alle sentenze definitive della Corte sulle controversie nelle quali sono parti.

2. La sentenza definitiva della Corte è trasmessa al Comitato dei Ministri che ne sorveglia l’esecuzione.»

A. Indicazione di misure generali

1. Principi generali

239. La Corte rammenta che tutte le sentenze che constatino una violazione comportano per lo Stato convenuto l’obbligo giuridico rispetto all’articolo 46 della Convenzione di porre fine alla violazione e di eliminarne le conseguenze, in modo tale da rispristinare per quanto possibile la situazione precedente a quest’ultima. Se il diritto nazionale non permette o permette solo in modo imperfetto di rimuovere le conseguenze della violazione, l’articolo 41 autorizza la Corte ad accordare alla parte lesa, se del caso, la soddisfazione che ritiene appropriata. Ne consegue in particolare che lo Stato convenuto riconosciuto responsabile di una violazione della Convenzione o dei suoi Protocolli è chiamato non solo a versare agli interessati le somme assegnate a titolo di equa soddisfazione, ma anche a scegliere, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, le misure generali e/o, se del caso, individuali da adottare nel suo ordinamento giuridico interno (Del Rio Prada c. Spagna [GC], n. 42750/09, § 137, CEDU 2013, Maestri c. Italia [GC], n. 39748/98, § 47, CEDU 2004 I, Assanidzé c. Georgia [GC], n. 71503/01, § 198, CEDU 2004 II, e Ilaşcu e altri c. Moldavia e Russia [GC], n. 48787/99, § 487, CEDU 2004-VII).

240. La Corte rammenta inoltre che le sue sentenze sono essenzialmente di natura dichiaratoria e che, in generale, è in primo luogo lo Stato in causa a dover scegliere, sotto il controllo del Comitato dei Ministri, i mezzi da utilizzare nel proprio ordinamento giuridico interno per adempiere all’obbligo per esso derivante dall’articolo 46 della Convenzione, purché tali mezzi siano compatibili con le conclusioni contenute nella sentenza della Corte (si vedano, tra le altre, Scozzari e Giunta c. Italia [GC], nn. 39221/98 e 41963/98, § 249, CEDU 2000-VIII, Brumărescu c. Romania (equa soddisfazione) [GC], n. 28342/95, § 20, CEDU 2001-I, e Öcalan c. Turchia [GC], n. 46221/99, § 210, CEDU 2005-IV). Tale potere di apprezzamento per quanto riguarda le modalità di esecuzione di una sentenza esprime la libertà di scelta che accompagna l’obbligo fondamentale imposto dalla Convenzione agli Stati contraenti: assicurare il rispetto dei diritti e delle libertà sanciti (Papamichalopoulos e altri c. Grecia (articolo 50), 31 ottobre 1995, § 34, serie A n. 330 B).

241. Tuttavia, a titolo eccezionale, per aiutare lo Stato convenuto ad adempiere ai propri obblighi ai sensi dell’articolo 46 della Convenzione, la Corte può cercare di indicare il tipo di misure da adottare per porre fine alla situazione strutturale da essa constatata. In questo contesto, essa può formulare varie opzioni la cui scelta e realizzazione vengono lasciate alla discrezione dello Stato interessato (si veda, ad esempio, Broniowski c. Polonia [GC], n. 31443/96, § 194, CEDU 2004-V). In alcuni casi, accade che la natura stessa della violazione constatata non offra realmente una scelta tra vari tipi di misure idonee a porvi rimedio, nel qual caso la Corte può decidere di indicare una sola misura (si vedano, ad esempio, Del Rio Prada, sopra citata, § 138, Assanidzé, sopra citata, §§ 202 e 203, Alexanian c. Russia, n. 46468/06, § 240, 22 dicembre 2008, Fatullayev c. Azerbaijan, n. 40984/07, §§ 176 e 177, 22 aprile 2010, e Oleksandr Volkov c. Ucraina, n. 21722/11, § 208, 9 gennaio 2013).

2. Applicazione di questi principi al caso di specie

242. Nella fattispecie, la Corte osserva che le autorità italiane hanno perseguito i responsabili dei maltrattamenti in causa con capi di imputazione riferibili a vari delitti già previsti dalla legislazione penale italiana.
Tuttavia, nell’ambito dell’analisi che riguarda il rispetto degli obblighi procedurali che derivano dall’articolo 3 della Convenzione, la Corte ha dichiarato che la reazione delle autorità non è stata adeguata (paragrafi 219-222 supra). Dopo aver escluso negligenze o compiacenze da parte della procura o degli organi giudicanti, la Corte ha concluso che è la legislazione penale italiana applicata al presente caso ad essersi rivelata «inadeguata rispetto all’esigenza di sanzionare gli atti di tortura in questione e al tempo stesso priva dell’effetto dissuasivo necessario per prevenire altre violazioni simili dell’articolo 3 in futuro» (paragrafi 223-225 supra).
Il carattere strutturale del problema sembra quindi innegabile. Peraltro, tenuto conto dei principi posti dalla sua giurisprudenza relativa al profilo procedurale dell’articolo 3 (paragrafi 204-211 supra) e ai motivi che l’hanno indotta nel caso di specie a giudicare sproporzionata la sanzione inflitta, la Corte ritiene che questo problema si ponga non soltanto per la repressione degli atti di tortura, ma anche per gli altri maltrattamenti vietati dall’articolo 3: mancando un trattamento appropriato per tutti i maltrattamenti vietati dall’articolo 3 nell’ambito della legislazione penale italiana, la prescrizione (come regolata dal CP, paragrafi 96-101 supra) come pure l’indulto (in caso di promulgazione di altre leggi simili alla legge n. 241 del 2006, paragrafo 102 supra) possono in pratica impedire non soltanto la punizione dei responsabili degli atti di «tortura», ma anche degli autori dei «trattamenti inumani» e «degradanti» in virtù di questa stessa disposizione, nonostante tutti gli sforzi dispiegati dalle autorità procedenti e giudicanti.

243. Per quanto riguarda le misure da adottare per rimediare a questo problema, la Corte rammenta innanzitutto che gli obblighi positivi imposti allo Stato in base all’articolo 3 possono comportare il dovere di istituire un quadro giuridico adatto, soprattutto per mezzo di disposizioni penali efficaci (paragrafo 209 supra).

244. Come nella sentenza Söderman c. Svezia [GC], n. 5786/08, § 82, CEDU 2013, la Corte osserva, inoltre, che tale obbligo deriva, almeno in parte, anche da altre disposizioni internazionali quali, in particolare, l’articolo 4 della Convenzione contro la tortura e le altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti (paragrafo 109 supra). Come sottolineano il ricorrente (paragrafo 195 supra) e i terzi intervenienti (paragrafi 200 e seguenti supra), le osservazioni e le raccomandazioni del Comitato dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, del CAT e del CPT vanno nella stessa direzione (paragrafi 112-116, 118 e 120 supra).

245. La competenza della Corte si limita, comunque, ad assicurare il rispetto degli obblighi che derivano dall’articolo 3 della Convenzione e, in particolare, ad aiutare lo Stato convenuto a trovare le soluzioni appropriate al problema strutturale individuato, ossia all’inadeguatezza della legislazione italiana. In effetti spetta in primo luogo allo Stato convenuto la scelta dei mezzi da utilizzare per adempiere al suo obbligo in base all’articolo 46 della Convenzione (paragrafo 240 supra).

246. In questo quadro, la Corte ritiene necessario che l’ordinamento giuridico italiano si doti degli strumenti giuridici atti a sanzionare in maniera adeguata i responsabili degli atti di tortura o di altri maltrattamenti rispetto all’articolo 3 e ad impedire che questi ultimi possano beneficiare di misure che contrastano con la giurisprudenza della Corte.

B. Danno

247. Il ricorrente chiede la somma di 180.000 euro (EUR) per il danno fisico provocato dall’aggressione di cui è rimasto vittima (fratture dell’ulna destra, dello stiloide destro, del perone destro e di varie costole; con conseguenze successive; debolezza permanente del braccio destro e della gamaba destra) che egli definisce danno materiale.
Chiede anche la somma di 120.000 EUR per la sofferenza e la paura provate al momento dell’aggressione e per le ulteriori conseguenze psicologiche che egli definisce danno morale.

248. Il Governo contesta tali richieste e ritiene che esse siano contrarie allo scopo del ricorso, che a suo parere è la denuncia delle carenze della legislazione penale italiana in caso di violazione dell’articolo 3 della Convenzione.
Il Governo aggiunge che il ricorrente ha già ottenuto un indennizzo a livello nazionale, che ammonterebbe a 35.000 EUR, e che avrebbe dovuto avvalersi in seguito delle vie di ricorso interne per ottenere la liquidazione complessiva e definitiva del risarcimento.

249. In subordine, il Governo ritiene che le richieste del ricorrente siano sproporzionate tenuto conto dei criteri applicati a livello nazionale per la determinazione globale del danno personale e morale.

250. La Corte ritiene che il danno fisico non possa essere considerato danno materiale.

251. Essa ritiene che il ricorrente abbia subito un danno morale certo in conseguenza delle violazione contestate. Tenuto conto delle circostanze della causa e, soprattutto, del risarcimento del danno che il ricorrente ha già ottenuto a livello nazionale, la Corte, deliberando in via equitativa, ritiene di dover accordare a questo titolo all’interessato la somma di 45.000 EUR.

C. Spese

252. Il ricorrente non ha formulato alcuna richiesta per le spese; pertanto la Corte ritiene di non dovergli accordare alcuna somma a questo titolo.

D. Interessi moratori

253 La Corte ritiene appropriato basare il tasso degli interessi moratori sul tasso d’interesse delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea maggiorato di tre punti percentuali.

PER QUESTI MOTIVI, LA CORTE, ALL’UNANIMITÀ,

  1. Unisce al merito l’eccezione preliminare del Governo relativa alla perdita della qualità di vittima, e la rigetta;
  2. Unisce al merito l’eccezione preliminare del Governo relativa al mancato esaurimento delle vie di ricorso interne, nella misura in cui essa riguarda la mancata introduzione di un’azione civile in aggiunta alla costituzione di parte civile, e la rigetta;
  3. Dichiara, il ricorso ricevibile per quanto riguarda i motivi relativi all’articolo 3 della Convenzione;
  4. Dichiara che vi è stata violazione dell’articolo 3 della Convenzione sotto il profilo sostanziale;
  5. Dichiara che vi è stata violazione dell’articolo 3 della Convenzione sotto il profilo procedurale;
  6. Dichiara
    1. che lo Stato convenuto deve versare al ricorrente, entro tre mesi dal giorno in cui la sentenza sarà divenuta definitiva conformemente all’articolo 44 § 2 della Convenzione, 45.000 EUR (quarantacinquemila euro) più l’importo eventualmente dovuto a titolo di imposta, per il danno morale;
    2. che, a decorrere dalla scadenza di detto termine e fino al versamento, tale importo dovrà essere maggiorato di un interesse semplice ad un tasso equivalente a quello delle operazioni di rifinanziamento marginale della Banca centrale europea applicabile durante quel periodo, aumentato di tre punti percentuali;
  7. Rigetta la domanda di equa soddisfazione per il resto.

Fatta in francese, poi comunicata per iscritto il 7 aprile 2015, in applicazione dell’articolo 77 §§ 2 e 3 del regolamento.

Françoise Elens-Passos 
Cancelliere

Päivi Hirvelä
Presidente

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