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REATO DI ABUSO D’UFFICIO: modifiche della disciplina mediante decretazione d’urgenza.

 

CORTE COSTITUZIONALE  25 novembre 2021 – 18 gennaio 2022 N. 8 SENTENZA

 

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Reati e pene - Modifiche, mediante decreto-legge, alla disciplina del
  reato di abuso d'ufficio - Sostituzione delle parole "di  norme  di
  legge o di  regolamento,"  con  quelle  "di  specifiche  regole  di
  condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi  forza
  di legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalita'" -
  Denunciata  violazione  dei  principi  in  tema   di   decretazione
  d'urgenza - Non fondatezza della questione. 
- Decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76, convertito, con modificazioni,
  nella  legge  11  settembre  2020,  n.  120,  art.  23,  comma   1,
  modificativo dell'art. 323 del codice penale. 
- Costituzione, artt. 3, 77 e 97. 

(GU n.3 del 19-1-2022 )

  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giancarlo CORAGGIO; 
Giudici :Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria  de  PRETIS,  Nicolo'
  ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
  Giovanni AMOROSO, Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,  Angelo  BUSCEMA,
  Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art.  23,  comma
1, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76  (Misure  urgenti  per  la
semplificazione   e   l'innovazione   digitale),   convertito,    con
modificazioni, nella legge 11 settembre 2020, n.  120,  promosso  dal
Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di Catanzaro
nel procedimento penale a carico di M. V. e altri, con ordinanza  del
6 novembre 2020, iscritta al n. 46  del  registro  ordinanze  2021  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  16,  prima
serie speciale, dell'anno 2021. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 24 novembre 2021  il  Giudice
relatore Franco Modugno; 
    deliberato nella camera di consiglio del 25 novembre 2021. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 6 novembre 2020,  il  Giudice  dell'udienza
preliminare del Tribunale ordinario di  Catanzaro  ha  sollevato,  in
riferimento agli artt. 3, 77 e 97 della  Costituzione,  questioni  di
legittimita' costituzionale dell'art. 23, comma 1, del  decreto-legge
16 luglio 2020, n.  76  (Misure  urgenti  per  la  semplificazione  e
l'innovazione digitale), convertito, con modificazioni,  nella  legge
11 settembre 2020, n. 120, recante modifiche all'art. 323 del  codice
penale, in tema di abuso d'ufficio. 
    1.1.- Il giudice  a  quo  riferisce  di  essere  investito  della
richiesta  di  rinvio  a  giudizio  di   cinque   persone,   ritenute
responsabili di plurime condotte di abuso d'ufficio. 
    Secondo la prospettazione accusatoria, tre degli  imputati  -  in
qualita'  di   membri   della   commissione   esaminatrice   nominata
nell'ambito  della  procedura  concorsuale  indetta   da   un'azienda
ospedaliera, per il conferimento di incarichi di dirigente  medico  -
avrebbero indebitamente favorito gli altri due coimputati, garantendo
loro  dapprima  l'ammissione  alla  procedura,  sebbene   privi   del
richiesto  titolo   di   specializzazione,   e   successivamente   la
collocazione in posizione utile nella graduatoria  finale,  approvata
il 9 gennaio 2017, tramite l'attribuzione di  un  punteggio  maggiore
rispetto a quello riconosciuto ad  altri  candidati  in  possesso  di
titoli equipollenti o addirittura superiori. 
    Dalle  indagini  espletate  sarebbe  emerso   che   le   indicate
irregolarita' erano state poste  in  essere  al  dichiarato  fine  di
assicurare l'assunzione dei due candidati,  perche'  gia'  conosciuti
dalla  dirigenza.  Vario  personale   medico   aveva   riferito,   in
particolare, degli ottimi  rapporti  intercorrenti  tra  i  candidati
favoriti e uno dei membri della commissione esaminatrice,  il  quale,
in  piu'  occasioni,  aveva  manifestato  la   sua   intenzione   «di
stabilizzare ed internalizzare» i  candidati  stessi,  i  quali  gia'
prestavano  servizio  con  la  struttura  ospedaliera  in  regime  di
convenzione. 
    Sulla  base  di  tali  elementi,  il  pubblico  ministero   aveva
contestato  agli  imputati  plurime  condotte  di  abuso   d'ufficio,
addebitando   loro   l'intenzionale   violazione   del   dovere    di
imparzialita' e buon andamento della pubblica  amministrazione  (art.
97 Cost.), anche in tema di procedure ad evidenza pubblica (art.  35,
comma 3, lettera a, del decreto legislativo 30 marzo  2001,  n.  165,
recante «Norme generali sull'ordinamento del lavoro  alle  dipendenze
delle amministrazioni pubbliche»), nonche'  di  specifiche  norme  di
rango regolamentare in materia di  requisiti  per  la  partecipazione
alle pubbliche selezioni e di attribuzione dei punteggi (l'art. 8 del
d.P.R. 9 maggio 1994, n. 487, «Regolamento recante norme sull'accesso
agli impieghi nelle  pubbliche  amministrazioni  e  le  modalita'  di
svolgimento dei concorsi, dei concorsi unici e delle altre  forme  di
assunzione nei pubblici impieghi», e l'art. 11 del d.P.R. 10 dicembre
1997, n. 483, «Regolamento recante la disciplina concorsuale  per  il
personale dirigenziale del Servizio sanitario nazionale»). 
    1.2.- Fissata l'udienza preliminare, era intervenuto, nelle more,
l'art. 23, comma 1, del d.l. n. 76 del 2020, come convertito, che  ha
riscritto in senso limitativo la fattispecie incriminatrice. 
    La citata disposizione  ha,  infatti,  modificato  la  previgente
formulazione dell'art. 323 cod. pen. (a tenore della  quale  «[s]alvo
che il fatto  non  costituisca  un  piu'  grave  reato,  il  pubblico
ufficiale o l'incaricato di pubblico servizio che, nello  svolgimento
delle funzioni o del servizio, in violazione di norme di legge  o  di
regolamento,  ovvero  omettendo  di  astenersi  in  presenza  di   un
interesse proprio o di un  prossimo  congiunto  o  negli  altri  casi
prescritti, intenzionalmente procura a se' o  ad  altri  un  ingiusto
vantaggio patrimoniale ovvero arreca ad altri un  danno  ingiusto  e'
punito con la reclusione da uno  a  quattro  anni»),  sostituendo  la
locuzione «di norme di  legge  o  di  regolamento»  con  l'altra  «di
specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da
atti aventi forza di legge e dalle quali  non  residuino  margini  di
discrezionalita'». 
    In questo modo - osserva il rimettente - la  novella  legislativa
ha ristretto la fattispecie, operando un'abolitio  criminis  parziale
su tre distinti fronti: rispetto all'oggetto, la violazione  commessa
dal soggetto pubblico deve riguardare un regola di condotta  (e  non,
ad esempio, una regola organizzativa); rispetto alla fonte, la regola
violata deve essere specifica ed espressamente prevista da una  legge
o da un atto avente  forza  di  legge,  con  esclusione  delle  norme
regolamentari; rispetto al contenuto,  la  regola  violata  non  deve
lasciare spazi di discrezionalita'. 
    1.3.- Il giudice  a  quo  dubita,  peraltro,  della  legittimita'
costituzionale dell'intervento, sia sotto l'aspetto procedurale,  con
riguardo alla sua attuazione mediante decreto-legge, sia per  il  suo
contenuto sostanziale. 
    Le questioni sarebbero rilevanti nel giudizio principale. 
    Alla luce della previgente formulazione dell'art. 323 cod. pen. e
degli  elementi  raccolti,  gli  imputati  avrebbero  dovuto   essere
rinviati a giudizio, in quanto le violazioni di norme  legislative  e
regolamentari loro ascritte risultavano senz'altro idonee a integrare
il  delitto  di  abuso  d'ufficio:  e  cio'  -  in  base  a  costante
giurisprudenza  -  anche  per  quel  che  attiene   alla   contestata
inosservanza dei principi di imparzialita'  e  buon  andamento  della
pubblica amministrazione, sanciti dall'art. 97 Cost., il quale, nella
sua componente immediatamente  precettiva,  impone  a  ogni  pubblico
ufficiale di non usare il potere che  la  legge  gli  conferisce  per
compiere deliberati favoritismi e procurare ingiusti vantaggi, ovvero
per realizzare intenzionali vessazioni o discriminazioni e  procurare
ingiusti danni. 
    La norma censurata avrebbe, per converso, operato una sostanziale
depenalizzazione delle condotte in esame. Venuta meno la possibilita'
di ritenere integrato l'abuso d'ufficio  dalla  violazione  di  norme
regolamentari, neppure la violazione delle  residue  norme  di  rango
legislativo e costituzionale potrebbe ritenersi idonea  a  realizzare
il delitto, trattandosi di disposizioni  recanti  principi  ai  quali
deve uniformarsi l'azione amministrativa, e non  gia'  di  regole  di
condotta dalle quali non residuino  margini  di  discrezionalita'.  A
seguito della novella, pertanto, il giudizio dovrebbe essere definito
nell'udienza preliminare  con  sentenza  di  non  luogo  a  procedere
perche' il fatto non e' piu' previsto come reato. 
    1.4.- Riguardo alla non manifesta infondatezza  delle  questioni,
la norma denunciata violerebbe anzitutto - secondo  il  rimettente  -
l'art. 77  Cost.,  in  quanto  completamente  estranea  alla  materia
disciplinata dalle altre disposizioni del  d.l.  n.  76  del  2020  e
«assolutamente avulsa dalle ragioni giustificatrici  della  normativa
adottata in via d'urgenza dal Governo». 
    Il  citato  decreto-legge,  adottato  a  seguito   dell'emergenza
epidemiologica da COVID-19 che  ha  coinvolto  il  Paese,  e'  stato,
infatti, motivato - per quanto  si  legge  nel  preambolo  -  con  la
ritenuta  «straordinaria   necessita'   e   urgenza   di   realizzare
un'accelerazione degli investimenti e delle infrastrutture attraverso
la semplificazione delle procedure in materia di contratti pubblici e
di edilizia, operando senza pregiudizio per i presidi di  legalita'»,
nonche'  con  l'esigenza,  ritenuta  anch'essa   indifferibile,   «di
introdurre misure di semplificazione procedimentale e di  sostegno  e
diffusione  dell'amministrazione  digitale,  nonche'  interventi   di
semplificazione in materia di  responsabilita'  del  personale  delle
amministrazioni, nonche' di adottare  misure  di  semplificazione  in
materia di attivita' imprenditoriale, di ambiente e di green economy,
al  fine  di  fronteggiare   le   ricadute   economiche   conseguenti
all'emergenza epidemiologica da Covid-19». 
    In  questa  prospettiva,  il  decreto  contiene,  da   un   lato,
molteplici   disposizioni   volte   a   semplificare   le   procedure
amministrative  in   materia   di   contratti   pubblici,   edilizia,
organizzazione del sistema universitario e del  Corpo  nazionale  dei
Vigili del fuoco, nonche' le procedure in  materia  di  attivita'  di
impresa, ambiente  e  green  economy;  dall'altro,  misure  volte  al
sostegno e alla diffusione dell'amministrazione digitale. 
    Sarebbe quindi evidente la completa  disomogeneita'  della  norma
denunciata, per contenuto e finalita', rispetto al  resto  del  corpo
normativo in cui e' inserita, non potendo ravvisarsi alcun  nesso  di
strumentalita' tra la modifica, in senso fortemente restrittivo,  del
delitto di abuso d'ufficio e l'esigenza di semplificare le  procedure
amministrative in vista del rilancio economico del Paese. 
    Una tale incisiva  riforma  della  figura  criminosa,  implicante
delicate scelte di natura politico-criminale,  avrebbe  richiesto  un
adeguato dibattito parlamentare, possibile ove si fossero seguite  le
ordinarie  procedure  di  formazione  della  legge.  La  riforma  non
apparirebbe diretta a fronteggiare specifici eventi eccezionali, ma a
delimitare  "a  regime"  la  responsabilita'  penale  dei  funzionari
pubblici in relazione all'attivita' svolta,  sicche'  avrebbe  potuto
formare oggetto  del  normale  esercizio  del  potere  di  iniziativa
legislativa. 
    Al riguardo, il rimettente  ricorda  come  la  giurisprudenza  di
questa Corte abbia individuato, tra gli indici alla stregua dei quali
verificare la carenza del requisito della straordinarieta'  del  caso
di necessita' e urgenza,  proprio  la  «evidente  estraneita'»  della
norma  censurata  rispetto  alla  materia   disciplinata   da   altre
disposizioni del  decreto-legge  che  la  contiene  (sono  citate  le
sentenze n. 128 del 2008 e n. 171 del 2007). L'inserimento  di  norme
eterogenee rispetto all'oggetto e alla finalita' del decreto  spezza,
infatti, il legame logico-giuridico  tra  la  valutazione  fatta  dal
Governo dell'urgenza di provvedere e i provvedimenti  provvisori  con
forza di legge adottati. 
    1.5.- Ove pure, peraltro, si ritenesse la disposizione  censurata
omogenea rispetto al contenuto e alla ratio del  decreto-legge,  essa
si porrebbe egualmente in contrasto con l'art. 77 Cost.  per  difetto
del presupposto della straordinaria necessita' ed urgenza. 
    Rispetto a una depenalizzazione, infatti,  l'eccezionale  urgenza
di provvedere, atta a legittimare  la  procedura  per  decreto,  «non
[potrebbe]  essere  realisticamente  postulata  se  non  in   ipotesi
residuali», nella specie palesemente insussistenti, «tenuto conto dei
fisiologici tempi di svolgimento di qualsivoglia procedimento  penale
e della totale assenza di incidenza di  singole  vicende  penali  sul
piano della semplificazione amministrativa». 
    Risulterebbe emblematica, in tal senso, l'assoluta  assenza,  nel
preambolo  del  decreto-legge,  di  una  motivazione  riguardo   alla
straordinaria necessita' che rendeva urgente,  in  quel  momento,  la
riscrittura del delitto di abuso d'ufficio. 
    1.6.- Sul piano dei contenuti, poi, la disposizione censurata  si
porrebbe in contrasto con gli artt. 3 e 97 Cost. 
    Il  reato  di  abuso  d'ufficio  e'  volto,  infatti,  a   tutela
dell'interesse,  costituzionalmente  garantito,  al  buon  andamento,
all'imparzialita' e alla trasparenza della pubblica  amministrazione:
il che renderebbe palese la contraddizione tra la  finalita'  che  ha
ispirato il  decreto-legge  -  semplificare  l'azione  amministrativa
«operando  senza  pregiudizio  per  i  presidi  di  legalita'»,  come
indicato nel preambolo - e la norma denunciata. 
    L'aver ancorato il fatto tipico alla  violazione  «di  specifiche
regole di condotta espressamente  previste  dalla  legge  o  da  atti
aventi forza  di  legge  e  dalle  quali  non  residuino  margini  di
discrezionalita'» farebbe  si'  che  l'abuso,  per  assumere  rilievo
penale, debba risolversi nell'inosservanza di una  norma  legislativa
che prefiguri un'attivita'  amministrativa  vincolata  «nell'an,  nel
quid e nel  quomodo».  Una  simile  indicazione,  solo  all'apparenza
diretta a specificare in modo  piu'  tassativo  la  condotta  punita,
snaturerebbe,   in   realta',    la    fattispecie    incriminatrice,
trasformandola «in un reato legislativamente "impossibile"». 
    Per un verso, infatti, l'inosservanza di un vincolo  di  condotta
integrerebbe, gia' di per se', un diverso reato  (omissione  di  atti
d'ufficio  in  caso  di  condotta  omissiva,  falso  conseguente   al
compimento di un atto in difetto dei presupposti, ovvero  un  diverso
abuso  d'autorita'  specificamente  previsto):  il   che   renderebbe
inoperante il delitto in esame, stante la clausola di  sussidiarieta'
con cui l'art. 323 cod. pen.  esordisce  («salvo  che  il  fatto  non
costituisca un piu' grave reato»). 
    Per altro verso, poi, i casi nei quali la legge determina «il se,
il cosa e il come» di una  condotta  imposta  a  un  agente  pubblico
sarebbero non solo estremamente rari, ma atterrebbero, altresi',  «ad
una sfera minuta dell'attivita' amministrativa». In pratica,  dunque,
il legislatore avrebbe riservato la rilevanza penale ad una casistica
«improbabile e del tutto  marginale»,  lasciando  prive  di  risposta
punitiva le condotte, ben piu' gravi, di  coloro  che,  detenendo  il
potere di decidere discrezionalmente, si trovano  in  una  condizione
privilegiata per abusarne. 
    La scelta di privare di rilevanza penale ogni forma di  esercizio
della discrezionalita' amministrativa comporterebbe la violazione del
principio di eguaglianza, risolvendosi  nell'attribuzione  all'agente
pubblico di un potere dispositivo  assoluto  e  sottratto  al  vaglio
giudiziale.  In  questo  modo,  la  disposizione  censurata  avrebbe,
equiparando il pubblico funzionario a un privato, posto sullo  stesso
piano situazioni affatto diverse: il potere discrezionale  attribuito
al primo e  la  facolta'  di  disposizione  riconosciuta  al  secondo
rispetto alla cosa di cui sia proprietario, con ulteriore  vulnus  al
principio di legalita' dell'azione amministrativa. 
    1.7.- Il rimettente rileva, da ultimo, come le questioni  debbano
ritenersi ammissibili, ancorche' il loro  accoglimento  determini  la
caducazione  della  norma   abrogatrice   e,   di   conseguenza,   la
reviviscenza  della  precedente  disciplina,  con  effetti  in  malam
partem. 
    Ad avviso del giudice a quo, la giurisprudenza di  questa  Corte,
sin dalla sentenza n. 148 del 1983, avrebbe chiarito che gli  effetti
in malam partem di una pronuncia di illegittimita' costituzionale non
precludono  l'esame  nel  merito  della  normativa  censurata,  fermo
restando il divieto per la Corte stessa, in virtu' della  riserva  di
legge prevista dall'art. 25, secondo comma,  Cost.,  di  «configurare
nuove norme penali» (e' citata la sentenza n. 394 del 2006):  ipotesi
che non verrebbe in  rilievo  nella  specie,  in  quanto  l'eventuale
decisione di accoglimento si limiterebbe  a  rimuovere  gli  ostacoli
all'applicazione di una  disciplina  stabilita  dal  legislatore.  Il
controllo  di  legittimita'  costituzionale  non  potrebbe,  infatti,
soffrire limitazioni, e gli effetti delle  sentenze  di  accoglimento
nel  processo  principale  dovrebbero  essere  valutati  dal  giudice
secondo i principi generali sulla successione nel tempo  delle  leggi
penali. 
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che le questioni siano  dichiarate  inammissibili  o
non fondate. 
    2.1.- L'Avvocatura dello Stato osserva che la norma censurata  ha
certamente  circoscritto  la  sfera  di  operativita'   della   norma
incriminatrice dell'abuso d'ufficio,  stabilendo  che  l'abuso  possa
essere integrato solo dalla violazione di regole di condotta poste da
fonti primarie in modo specifico ed espresso,  nonche',  soprattutto,
escludendo che possa venire  in  rilievo  l'attivita'  amministrativa
anche  solo  in  minima  parte  discrezionale;  mentre   e'   rimasta
inalterata  la  condotta   alternativa   concernente   l'inosservanza
dell'obbligo di astensione in presenza di un interesse proprio  o  di
un prossimo congiunto, o negli altri casi prescritti. 
    L'obiettivo perseguito e' il medesimo che il legislatore  si  era
proposto  di  raggiungere  in  precedenza  attraverso   la   modifica
dell'art. 323 cod. pen. operata dalla legge 16 luglio  1997,  n.  234
(Modifica dell'art. 323  del  codice  penale,  in  materia  di  abuso
d'ufficio, e degli articoli 289, 416 e 555 del  codice  di  procedura
penale), che aveva introdotto nella formula descrittiva dell'illecito
la locuzione «in violazione di norme di legge o di regolamento»,  con
l'intento di rendere piu' selettiva la fattispecie incriminatrice. 
    Nell'interpretare il novellato art. 323 cod. pen.,  tuttavia,  un
consolidato  orientamento  giurisprudenziale  ha  ritenuto   che   il
requisito della violazione di legge potesse  essere  integrato  anche
dall'inosservanza dei principi costituzionali di imparzialita' e buon
andamento della pubblica amministrazione, di cui all'art.  97  Cost.,
finendo cosi' per dare rilievo  anche  alla  violazione  di  principi
generali, per loro natura  indeterminati,  e  quindi  per  vanificare
l'intento del legislatore dell'epoca. 
    La ratio del d.l. n. 76  del  2020,  nella  parte  relativa  alla
modifica del delitto di abuso d'ufficio,  sarebbe  dunque  quella  di
sottrarre  definitivamente  al  sindacato  penale  le  condotte   dei
soggetti  pubblici  che  non  implichino  la  violazione   di   leggi
specifiche e ben determinate. 
    2.2.- Cio' premesso, l'Avvocatura generale dello Stato  eccepisce
l'inammissibilita'   delle   questioni   per   inadeguatezza    della
motivazione sulla rilevanza. 
    Il giudice a quo si sarebbe limitato  ad  affermare  che,  per  i
fatti oggetto del giudizio principale, rispetto ai  quali  gli  esiti
investigativi avrebbero imposto il rinvio  a  giudizio,  la  modifica
normativa  censurata  imporrebbe  invece  il  proscioglimento   degli
imputati perche' il fatto non costituisce piu' reato,  essendo  stata
contestata la violazione di norme di principio e regolamentari, e non
di regole di condotte poste da fonti primarie da  cui  non  residuino
margini di discrezionalita'. 
    Il rimettente avrebbe  omesso  pero'  di  verificare  l'eventuale
perdurante riconducibilita' dei fatti in contestazione  al  paradigma
punitivo dell'abuso d'ufficio, sotto il profilo dell'inosservanza, da
parte degli imputati, di un obbligo di astensione in presenza  di  un
conflitto di  interessi.  Dall'ordinanza  di  rimessione  traspaiono,
infatti, gli ottimi rapporti intercorrenti tra i due candidati e  uno
dei  membri  della  commissione  esaminatrice,   il   quale   avrebbe
manifestato senza remore e in piu' occasioni il proprio  intento  «di
stabilizzare ed internalizzare» i candidati stessi. 
    Una simile verifica avrebbe consentito, considerata  la  fase  in
cui versa il procedimento -  destinata,  tra  l'altro,  proprio  alla
precisazione e all'integrazione della contestazione -, una  eventuale
modifica dell'imputazione e l'emissione del decreto  che  dispone  il
giudizio, con conseguente irrilevanza delle questioni. 
    2.3.- Anche a ritenere integrato il requisito della rilevanza, le
questioni  risulterebbero,  comunque  sia,  inammissibili,  quanto  a
quelle sollevate in riferimento agli  artt.  3  e  97  Cost.,  e  non
fondata, quanto a quella sollevata in riferimento all'art. 77 Cost. 
    Riguardo ai  primi  due  parametri,  il  giudice  a  quo  invoca,
infatti, una pronuncia ablativa della modifica normativa, che avrebbe
come effetto la reviviscenza della  precedente  norma  incriminatrice
dell'abuso d'ufficio, che  assegna  rilevanza  penale  a  un  maggior
numero di condotte.  Una  simile  pronuncia  risulterebbe,  tuttavia,
preclusa alla luce della costante  giurisprudenza  di  questa  Corte,
secondo cui l'adozione di pronunce con effetti  in  malam  partem  in
materia penale trova ostacolo nel principio della  riserva  di  legge
sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost., il quale,  rimettendo  al
legislatore la scelta dei fatti da sottoporre a pena e delle sanzioni
loro  applicabili,  impedisce  alla  Corte,  sia  di   creare   nuove
fattispecie o di estendere quelle esistenti a casi non previsti,  sia
di incidere in peius sulla risposta punitiva o su  aspetti  inerenti,
comunque sia, alla punibilita'. 
    Ne' varrebbero in senso contrario le sentenze n. 394 del  2006  e
n. 148 del 1983,  citate  dal  rimettente,  trattandosi  di  pronunce
concernenti il distinto tema  dell'ammissibilita'  del  sindacato  di
legittimita' costituzionale sulle cosiddette norme penali di  favore:
qualifica che non spetterebbe alla norma censurata. 
    Rileva, altresi', l'Avvocatura dello Stato che, con  la  sentenza
n. 447 del 1998, questa Corte si e' gia' specificamente espressa  nel
senso dell'inammissibilita' di  analoghe  questioni  di  legittimita'
costituzionale dell'art. 323 cod. pen., come sostituito  dall'art.  1
della legge n. 234 del 1997, sollevate  in  riferimento  ai  medesimi
parametri. 
    2.4.- Non fondata risulterebbe, infine, la questione sollevata in
riferimento all'art. 77 Cost., non potendosi ritenere carenti ne'  il
requisito dell'omogeneita' della norma censurata rispetto alle  altre
disposizioni del d.l. n. 76 del 2020, ne' quello della  straordinaria
necessita' e urgenza di provvedere alla modifica normativa in esame. 
    Il nesso tra la modifica della disciplina dell'abuso d'ufficio  e
l'emergenza epidemiologica da COVID-19 sarebbe  costituito,  infatti,
dall'idea che la ripresa del Paese possa essere agevolata da una piu'
chiara delimitazione delle responsabilita', sia sul fronte contabile,
sia su  quello  penale.  Con  particolare  riguardo  a  quest'ultimo,
l'obiettivo e' stato,  in  specie,  quello  di  circoscrivere  l'area
dell'abuso d'ufficio penalmente rilevante, in modo da rasserenare gli
amministratori  pubblici,  chiamati  a  lavorare  per  facilitare  la
ripresa del Paese. 
    In tale ottica, l'intervento realizzato, diretto  ad  elidere  la
"paura della  firma",  risulterebbe  non  solo  connesso  alle  altre
materie  disciplinate  dall'indicato  decreto-legge  e   volte   piu'
propriamente alla semplificazione delle procedure, ma anche connotato
dalla straordinaria necessita' e urgenza, proprio per consentire agli
amministratori pubblici di agire subito, senza il timore di incorrere
in denunce per abuso d'ufficio, specie in un  periodo  caratterizzato
dal susseguirsi di  normative  non  sempre  di  agevole  e  immediata
comprensione. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Giudice dell'udienza preliminare del  Tribunale  ordinario
di Catanzaro dubita della legittimita' costituzionale  dell'art.  23,
comma 1, del decreto-legge 16 luglio 2020, n. 76 (Misure urgenti  per
la  semplificazione  e  l'innovazione  digitale),   convertito,   con
modificazioni,  nella  legge  11  settembre  2020,  n.  120,  che  ha
modificato la disciplina del reato di abuso  d'ufficio,  sostituendo,
nell'art. 323  del  codice  penale,  la  locuzione  -  riferita  alla
violazione  integrativa  del  reato  -  «di  norme  di  legge  o   di
regolamento» con l'altra, piu' restrittiva, «di specifiche regole  di
condotta espressamente previste dalla legge o da atti aventi forza di
legge e dalle quali non residuino margini di discrezionalita'». 
    I  dubbi  del  rimettente  attengono,  sia  al  procedimento   di
produzione della norma, e  segnatamente  alla  scelta  di  introdurla
mediante decretazione d'urgenza, sia ai suoi contenuti. 
    Sotto il primo profilo, la norma censurata violerebbe  l'art.  77
della Costituzione, perche' del  tutto  estranea,  in  assunto,  alla
materia disciplinata dalle altre disposizioni del d.l. n. 76 del 2020
e avulsa dalle ragioni giustificatrici della  normativa  adottata  in
via  d'urgenza  dal  Governo,  legate  alla  ritenuta  necessita'  di
introdurre misure di semplificazione  amministrativa  e  di  rilancio
economico  del  Paese,  per  far  fronte  alle  ricadute   economiche
conseguenti all'emergenza epidemiologica da COVID-19. 
    Anche  a  voler  diversamente  opinare   sul   punto,   peraltro,
difetterebbe,  comunque  sia,  il  presupposto  della   straordinaria
necessita' ed urgenza: presupposto  che,  rispetto  a  interventi  di
(parziale) depenalizzazione - quale  quello  realizzato  dalla  norma
censurata -, sarebbe ravvisabile solo in casi residuali, nella specie
insussistenti, tenuto conto dei tempi  di  svolgimento  dei  processi
penali e dell'assenza di ricadute delle singole  vicende  penali  sul
piano della semplificazione amministrativa. 
    Quanto, poi, ai contenuti, la norma  denunciata  si  porrebbe  in
contrasto con gli artt. 3 e  97  Cost.,  giacche',  alla  luce  della
modifica da essa  operata,  l'abuso,  per  assumere  rilievo  penale,
dovrebbe risolversi nell'inosservanza di una  norma  legislativa  che
preveda una attivita' amministrativa vincolata «nell'an, nel  quid  e
nel  quomodo»:  il   che   renderebbe   pressoche'   impossibile   la
configurabilita' del reato, posto  a  presidio  del  buon  andamento,
dell'imparzialita'    e    della    trasparenza    della     pubblica
amministrazione. I casi  di  attivita'  amministrativa  integralmente
vincolata  sarebbero,  infatti,  estremamente  rari  e  atterrebbero,
comunque  sia,  a  una  sfera  minuta   dell'agere   della   pubblica
amministrazione. Il  legislatore  avrebbe,  dunque,  circoscritto  la
rilevanza   penale   a   una   casistica   del    tutto    marginale,
quantitativamente e qualitativamente,  lasciando  prive  di  risposta
punitiva le condotte, ben piu' gravi, di  coloro  che,  detenendo  il
potere di decidere discrezionalmente, si trovano  in  una  condizione
privilegiata per abusarne. 
    Ne risulterebbe violato il principio  di  eguaglianza,  giacche',
privando   di   rilievo   penale   ogni   forma   di   esercizio   di
discrezionalita' amministrativa, la  norma  denunciata  attribuirebbe
all'agente pubblico un potere dispositivo  assoluto  e  sottratto  al
vaglio giudiziale, con il risultato di equiparare situazioni  affatto
diverse:   il   potere   discrezionale   attribuito    al    pubblico
amministratore e la  facolta'  di  disposizione  della  propria  cosa
riconosciuta al proprietario privato. 
    2.- Per meglio affrontare le questioni, e' necessario ricostruire
preliminarmente la genesi della disposizione sottoposta a  scrutinio,
ripercorrendo,  in  sintesi,  la  travagliata  vicenda  normativa   e
giurisprudenziale che si colloca alle sue spalle. 
    La figura criminosa dell'abuso d'ufficio, assolvendo una funzione
"di chiusura" del sistema dei delitti dei pubblici  ufficiali  contro
la pubblica amministrazione, rappresenta, infatti, il punto  saliente
di emersione della  spigolosa  tematica  del  sindacato  del  giudice
penale  sull'attivita'  amministrativa:  tematica  percorsa  da   una
perenne tensione tra  istanze  legalitarie,  che  spingono  verso  un
controllo a tutto tondo, atto a fungere da  freno  alla  mala  gestio
della cosa pubblica, e l'esigenza di evitare  un'ingerenza  pervasiva
del giudice penale sull'operato dei pubblici  amministratori,  lesiva
della sfera di autonomia ad essi spettante. 
    Al tempo stesso,  si  tratta  di  fattispecie  caratterizzata  da
congeniti margini di elasticita', generatori di persistenti  problemi
di compatibilita' con il principio di determinatezza. 
    Di tutto cio' e' testimonianza  la  tormentata  parabola  storica
della figura. 
    2.1.- Nel disegno originario del codice penale del 1930,  l'abuso
d'ufficio era descritto all'art. 323 con  formula  semplice,  ma,  in
pari tempo, estremamente  comprensiva:  veniva,  infatti,  punito  il
pubblico ufficiale  che,  «abusando  dei  poteri  inerenti  alle  sue
funzioni,  commette[sse],  per  recare  ad  altri  un  danno  o   per
procurargli un vantaggio, qualsiasi fatto non preveduto come reato da
una particolare disposizione di legge». 
    Le  criticita'  di  una  ipotesi   criminosa   cosi'   congegnata
rimanevano, peraltro, attutite dal fatto  che  essa  era  chiamata  a
recitare un ruolo marginale nel sistema. Si trattava, infatti, di una
figura sussidiaria e blandamente punita, stretta, com'era, tra le due
fattispecie delittuose cui risultava allora precipuamente affidato il
controllo di legalita' sull'attivita' amministrativa: il peculato per
distrazione e l'interesse privato in atti d'ufficio (artt. 314 e  324
cod. pen.). Figure anch'esse, peraltro, dai  contorni  assai  labili,
che permettevano alla magistratura penale penetranti incursioni sulle
scelte della pubblica amministrazione. 
    2.2.- Lo scenario mutava con la riforma operata  dalla  legge  26
aprile 1990, n.  86  (Modifiche  in  tema  di  delitti  dei  pubblici
ufficiali  contro  la  pubblica  amministrazione),  la  quale,   onde
arginare tale temperie, estromise dalla fattispecie del  peculato  la
forma per distrazione e abrogo' il reato di interesse privato in atti
d'ufficio. 
    Di riflesso, pero', la riforma riscrisse l'art.  323  cod.  pen.,
nella prospettiva di far  refluire  nell'abuso  d'ufficio  una  parte
delle condotte gia' colpite dalle fattispecie abrogate, con un filtro
- almeno negli intenti - di maggiore selettivita'. A questo fine,  si
prevedeva che l'abuso d'ufficio - esteso  anche  agli  incaricati  di
pubblico servizio -  dovesse  essere  finalizzato  ad  un  vantaggio,
proprio  od  altrui,  «ingiusto»,  o  a  un  danno  altrui  del  pari
«ingiusto», con la previsione di un  sensibile  aumento  della  pena,
qualora il vantaggio fosse di natura patrimoniale. 
    I  risultati  non  furono,  tuttavia,  quelli  sperati.   L'abuso
d'ufficio  acquistava  di  colpo  una  centralita'   applicativa   in
precedenza ignota, non accompagnata, pero', da un reale incremento di
determinatezza della fattispecie tipica, la quale restava  incentrata
su  una  condotta  in  se'  vaga  -  quale   quella   di   «abusa[re]
del[l]'ufficio»  -  senza  che  il  requisito  dell'ingiustizia   del
vantaggio o del danno,  oggetto  del  dolo  specifico,  si  rivelasse
capace di delimitare adeguatamente i confini del tipo. 
    Il rivisitato  art.  323  cod.  pen.  divenne,  cosi',  il  nuovo
strumento per  un  penetrante  sindacato  della  magistratura  penale
sull'operato dei pubblici funzionari, adombrando il costante  spettro
dell'avvio di indagini in loro danno. 
    2.3.- A distanza di pochi anni, il legislatore  corse  quindi  ai
ripari, riscrivendo una seconda volta  la  norma  incriminatrice  con
l'art. 1 della legge 16 luglio 1997, n. 234 (Modifica  dell'art.  323
del codice penale, in materia di abuso d'ufficio,  e  degli  articoli
289, 416 e 555 del codice di procedura penale). 
    Dismesso il  generico  riferimento  all'abuso  dell'ufficio  (che
resta solo nella rubrica dell'art. 323 cod. pen.), la condotta tipica
viene  individuata  nella  «violazione  di  norme  di  legge   o   di
regolamento», ovvero, in alternativa,  nella  omessa  astensione  «in
presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto  o  negli
altri casi prescritti». La fattispecie  si  trasforma,  altresi',  in
reato di evento, essendo richiesta, ai fini del suo  perfezionamento,
l'effettiva  verificazione  dell'ingiusto   danno   o   dell'ingiusto
vantaggio  patrimoniale  (il   vantaggio   non   patrimoniale   perde
rilevanza); evento che deve essere oggetto di dolo intenzionale. 
    Nel risagomare la figura, il legislatore del 1997 aveva agito con
il trasparente intento di renderne piu' nitidi i confini,  impedendo,
in specie, un  sindacato  del  giudice  penale  sull'esercizio  della
discrezionalita' amministrativa. Il riferimento alla  «violazione  di
norme di legge o  di  regolamento»,  evocando  uno  dei  vizi  tipici
dell'atto amministrativo, doveva servire infatti a  metter  fuori,  a
contrario, l'eccesso di potere, non menzionato. 
    Le intenzioni del legislatore hanno dovuto, pero', fare  i  conti
con le soluzioni  della  giurisprudenza,  la  quale,  dopo  una  fase
iniziale di ossequio allo spirito  della  novella,  e'  virata  verso
interpretazioni estensive  degli  elementi  di  fattispecie,  atte  a
travalicare i rigidi paletti che la novella legislativa aveva  inteso
fissare e a riaprire ampi scenari di  controllo  del  giudice  penale
sull'attivita' amministrativa discrezionale. 
    Per quanto qui piu' interessa, e' venuto infatti a  consolidarsi,
da un lato, nella  giurisprudenza  di  legittimita',  l'indirizzo  in
forza del quale la «violazione di norme  di  legge»,  rilevante  come
abuso d'ufficio, puo' essere integrata  anche  dall'inosservanza  del
generalissimo   principio    di    imparzialita'    della    pubblica
amministrazione,  enunciato  dall'art.  97  Cost.:  principio  che  -
secondo la Corte di cassazione - nella parte in cui vieta al pubblico
funzionario di  operare  ingiustificati  favoritismi  o  intenzionali
vessazioni, esprimerebbe  una  precisa  regola  di  comportamento  di
immediata applicazione (ex plurimis,  Corte  di  cassazione,  sezione
sesta penale, sentenza 21 febbraio 2019-23  maggio  2019,  n.  22871;
Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza 12 giugno 2018-29
ottobre 2018, n. 49549; Corte di cassazione, sezione seconda  penale,
sentenza 27 ottobre 2015-20 novembre 2015, n. 46096). 
    Dall'altro lato, poi, si e' assistito al  recupero  nell'area  di
rilevanza penale degli atti viziati da eccesso di potere, nella forma
dello sviamento. Con soluzione  ermeneutica  avallata  dalle  sezioni
unite, la Corte di cassazione ha ritenuto, infatti, che la violazione
di legge cui fa riferimento l'art. 323 cod.  pen.  ricorra  non  solo
quando la condotta del pubblico funzionario si ponga in contrasto con
le norme che regolano l'esercizio del potere,  ma  anche  quando  sia
volta alla sola realizzazione di un interesse collidente  con  quello
per il quale il potere e' attribuito, dando luogo appunto a un  vizio
di sviamento: vizio che integrerebbe la violazione di legge,  perche'
sta a significare che la potesta' non e' stata esercitata secondo  lo
schema normativo che legittima l'attribuzione (Corte  di  cassazione,
sezioni unite penali, sentenza 29 settembre 2011-10 gennaio 2012,  n.
155). 
    Si e' venuta  a  creare,  in  questo  modo,  una  situazione  che
riecheggia, per molti versi, quella registratasi  all'indomani  della
legge n. 86 del 1990 e alla quale la successiva legge n. 234 del 1997
aveva  inteso  por  rimedio.  Cio',  peraltro,  in  presenza  di   un
inasprimento della pena edittale del reato, che, gia' fissata da tale
ultima legge nella reclusione da  sei  mesi  a  tre  anni,  e'  stata
elevata dall'art. 1, comma 75, lettera p),  della  legge  6  novembre
2012, n. 190 (Disposizioni per la prevenzione e la repressione  della
corruzione e dell'illegalita' nella  pubblica  amministrazione)  alla
reclusione da uno a quattro anni. 
    2.4.- La vicenda ora descritta non e' rimasta, tuttavia, priva di
ricadute. 
    Per opinione  ampiamente  diffusa,  deve  individuarsi,  infatti,
proprio in tale stato di cose una delle principali cause della sempre
maggiore diffusione del fenomeno che  si  e'  soliti  designare  come
"burocrazia difensiva" (o "amministrazione  difensiva").  I  pubblici
funzionari si  astengono,  cioe',  dall'assumere  decisioni  che  pur
riterrebbero utili  per  il  perseguimento  dell'interesse  pubblico,
preferendo assumerne altre meno impegnative (in quanto appiattite  su
prassi consolidate e anelastiche), o piu' spesso restare inerti,  per
il timore di esporsi a possibili addebiti penali  (cosiddetta  "paura
della firma"). 
    A questi fini, poco  conta  l'enorme  divario,  che  pure  si  e'
registrato sul piano statistico, tra la  mole  dei  procedimenti  per
abuso d'ufficio promossi e l'esiguo numero delle condanne  definitive
pronunciate in esito ad essi. Il solo rischio, ubiquo  e  indefinito,
del coinvolgimento in un procedimento penale, con i costi  materiali,
umani e sociali  (per  il  ricorrente  clamore  mediatico)  che  esso
comporta, basta a generare un "effetto di raffreddamento", che induce
il funzionario ad imboccare la via per se' piu' rassicurante. 
    Tutto cio', peraltro,  con  significativi  riflessi  negativi  in
termini di perdita  di  efficienza  e  di  rallentamento  dell'azione
amministrativa, specie nei procedimenti piu' delicati. 
    2.5.- Benche' l'esigenza di contrastare la "burocrazia difensiva"
e suoi guasti, agendo sulle cause del fenomeno, fosse gia'  da  tempo
avvertita, la scelta di porre mano all'intervento e' maturata solo  a
seguito dell'emergenza  pandemica  da  COVID-19,  nell'ambito  di  un
eterogeneo  provvedimento  d'urgenza  volto  a  dare  nuovo   slancio
all'economia nazionale, messa a dura prova dalla prolungata  chiusura
delle  attivita'  produttive  disposta   nella   prima   fase   acuta
dell'emergenza. Si allude al d.l. n. 76 del 2020, correntemente  noto
come "decreto semplificazioni". 
    Il provvedimento si occupa, in un apposito capo (il Capo  IV  del
Titolo II),  intitolato  «[r]esponsabilita'»,  delle  due  principali
fonti di "timore" per il pubblico amministratore (e, dunque, dei suoi
"atteggiamenti difensivistici"): la  responsabilita'  erariale  e  la
responsabilita' penale. Entrambe vengono fatte oggetto  di  modifiche
limitative e all'insegna della maggiore tipizzazione. 
    Quanto alla responsabilita' penale, l'art. 23  del  decreto-legge
in esame - norma oggi censurata, rimasta  invariata  all'esito  della
conversione operata dalla legge n. 120 del 2020 - ridefinisce per  la
terza volta, nel  suo  unico  comma,  il  perimetro  applicativo  del
delitto di abuso d'ufficio: nell'occasione, pero',  senza  riscrivere
per intero la disposizione del codice penale, ma  incidendo  in  modo
"mirato" sulla prima delle due condotte tipiche, rappresentata  dalla
«violazione di norme  di  legge  o  di  regolamento»  (mentre  quella
alternativa dell'inosservanza  di  un  obbligo  di  astensione  resta
invariata). La modifica consiste, in specie, nella sostituzione della
locuzione «di norme di  legge  o  di  regolamento»  con  l'altra  «di
specifiche regole di condotta espressamente previste dalla legge o da
atti aventi forza di legge e dalle quali  non  residuino  margini  di
discrezionalita'». 
    In negativo, dunque, la recente novella estromette il riferimento
ai regolamenti; in positivo, richiede  che  la  violazione  abbia  ad
oggetto regole specifiche previste in modo espresso da fonti primarie
e che non lascino al funzionario pubblico spazi di  discrezionalita'.
Particolarmente  su  questo  secondo  versante,  risulta  trasparente
l'intento   di    sbarrare    la    strada    alle    interpretazioni
giurisprudenziali che avevano dilatato la sfera di operativita' della
norma introdotta dalla legge n. 234 del 1997: la puntualizzazione che
l'abuso deve consistere nella violazione di regole specifiche mira ad
impedire che si  sussuma  nell'ambito  della  condotta  tipica  anche
l'inosservanza  di  norme  di  principio,  quale  l'art.  97   Cost.;
richiedendo che le regole siano espressamente previste dalla legge  e
tali da non lasciare «margini di  discrezionalita'»  si  vuol  negare
rilievo al compimento di atti viziati da eccesso di potere. 
    Si e', dunque, al cospetto di una modifica di  segno  restrittivo
dell'area di rilevanza penale - specie nel raffronto  con  la  "norma
vivente" disegnata dalle ricordate interpretazioni  giurisprudenziali
- con conseguenti effetti di abolitio  criminis  parziale,  operanti,
come tali, ai sensi dell'art. 2, secondo comma, cod. pen.,  anche  in
rapporto ai fatti anteriormente commessi (quali  quelli  oggetto  del
giudizio a quo). 
    Della legittimita' costituzionale di un simile intervento dubita,
tuttavia, l'odierno rimettente, ponendo  in  discussione,  sul  piano
costituzionale, sia  la  scelta  di  attuarlo  tramite  provvedimento
d'urgenza, sia la correttezza, dal punto di vista sostanziale,  delle
soluzioni concretamente adottate. 
    3.- Il Presidente del  Consiglio  dei  ministri,  intervenuto  in
giudizio per mezzo dell'Avvocatura generale dello Stato, ha  eccepito
l'inammissibilita' delle questioni,  innanzitutto  per  inadeguatezza
della motivazione sulla rilevanza. 
    Il giudice a quo ha reputato le questioni rilevanti  sull'assunto
che le modifiche operate dalla norma censurata - sopravvenuta dopo la
fissazione dell'udienza preliminare - imporrebbero il proscioglimento
degli imputati nel giudizio  principale,  i  quali  avrebbero  dovuto
essere invece  rinviati  a  giudizio  in  base  al  precedente  testo
dell'art. 323 cod. pen. Agli imputati e' contestato, infatti, di aver
favorito, quali membri della commissione esaminatrice di un  concorso
pubblico, due candidati (imputati anch'essi, si puo'  supporre  quali
concorrenti extranei), in violazione sia del  generale  principio  di
imparzialita' posto dall'art. 97 Cost., sia di una norma di legge che
ribadisce il principio con riguardo alle  procedure  di  reclutamento
del personale (art. 35, comma 3, lettera a, del  decreto  legislativo
30 marzo 2001, n. 165, recante «Norme generali  sull'ordinamento  del
lavoro  alle  dipendenze  delle  amministrazioni  pubbliche»),   sia,
infine, di talune norme regolamentari in  tema  di  attribuzione  dei
punteggi e di valutazione dei  titoli.  Nessuna  di  tali  violazioni
rileverebbe  piu'  alla  luce  della   nuova   configurazione   delle
fattispecie: non quella delle norme regolamentari,  ormai  estromessa
dal campo applicativo dell'incriminazione; ma  nemmeno  quella  delle
residue norme di rango legislativo e costituzionale,  trattandosi  di
disposizioni recanti principi generali,  e  non  gia'  di  specifiche
regole  di  condotta   dalle   quali   non   residuino   margini   di
discrezionalita'. 
    Tale ragionamento - in se' del tutto  plausibile  -  non  sarebbe
pero', secondo  l'Avvocatura  dello  Stato,  sufficiente,  avendo  il
rimettente  omesso  di  verificare  se  le  condotte  ascritte   agli
imputati, non  piu'  rilevanti  come  violazione  di  legge,  restino
tuttavia inquadrabili nell'altra modalita' di realizzazione del reato
- non incisa dalla novella - costituita dalla mancata astensione  «in
presenza di un interesse proprio o di un prossimo congiunto  o  negli
altri casi prescritti».  Verifica,  questa,  in  assunto  tanto  piu'
necessaria a fronte del fatto che la stessa ordinanza  di  rimessione
ha  posto  in  evidenza  gli  ottimi  rapporti  intercorrenti  tra  i
candidati favoriti e uno  dei  membri  della  commissione,  il  quale
avrebbe manifestato ripetutamente il proprio intento di «stabilizzare
ed internalizzare» i candidati stessi: donde un  possibile  conflitto
d'interessi. 
    L'eccezione non e' fondata. 
    A  prescindere  da  ogni  possibile  dubbio  sul  fatto  che   le
esternazioni cui allude l'Avvocatura dello Stato bastino ad integrare
un «caso prescritto» di astensione, vale osservare che si  tratta  di
esternazioni ascrivibili, secondo l'ordinanza di  rimessione,  a  uno
solo dei membri della commissione esaminatrice, e non agli altri. 
    A tutto pure concedere, peraltro, il passaggio dall'una all'altra
modalita' di realizzazione del reato richiederebbe - come  la  stessa
Avvocatura dello Stato riconosce - una modifica dell'imputazione (per
diversita' del fatto): modifica che il pubblico ministero non risulta
aver operato.  Il  giudice  a  quo  dovrebbe,  quindi,  eventualmente
sollecitarla, restituendo gli atti al pubblico ministero  ove  questi
non aderisse al suo invito (cio', in ossequio al meccanismo delineato
dalle Sezioni unite della Corte di  cassazione  con  la  sentenza  20
dicembre 2007-1° febbraio 2008, n. 5307, riguardo  al  controllo  del
giudice  sull'imputazione  nell'udienza  preliminare).  Ottica  nella
quale le questioni risulterebbero, comunque sia, rilevanti, incidendo
sull'esercizio della funzione giurisdizionale. 
    4.-  Di  ben  maggiore  consistenza  e'  un  altro   profilo   di
inammissibilita', connesso al petitum, anch'esso oggetto di eccezione
da parte dell'Avvocatura dello Stato. 
    Il giudice a quo invoca, infatti, una  pronuncia  ablativa  della
modifica operata dalla norma censurata, che avrebbe come  effetto  la
reviviscenza  della  precedente   norma   incriminatrice   dell'abuso
d'ufficio, dal perimetro applicativo piu' vasto. Si  tratta,  dunque,
inequivocabilmente, della richiesta di una sentenza in  malam  partem
in materia penale. 
    Viene di conseguenza in rilievo il costante indirizzo  di  questa
Corte, secondo cui l'adozione di pronunce con effetti in malam partem
in materia penale risulta, in via generale,  preclusa  dal  principio
della riserva di legge sancito dall'art. 25, secondo comma, Cost., il
quale, rimettendo al «soggetto-Parlamento» (sentenza n. 5 del  2014),
che incarna la rappresentanza politica della Nazione (sentenza n. 394
del 2006), le scelte di politica criminale (con i  relativi  delicati
bilanciamenti di diritti e interessi  contrapposti),  impedisce  alla
Corte,  sia  di  creare  nuove  fattispecie  o  di  estendere  quelle
esistenti a casi  non  previsti,  sia  di  incidere  in  peius  sulla
risposta  punitiva  o  su  aspetti  inerenti,  comunque   sia,   alla
punibilita' (ex plurimis, sentenze n. 17 del 2021, n. 37 del 2019, n.
46 del 2014, n. 324 del 2008, n. 394 del 2006  e  n.  161  del  2004;
ordinanze n. 219 del 2020, n. 65 del 2008 e n. 164 del 2007). 
    A questo riguardo, e' necessario tuttavia distinguere - come  fa,
del resto, la stessa  Avvocatura  dello  Stato  -  la  questione  che
investe il procedimento di produzione della norma da quelle intese  a
denunciare vizi sostanziali, attinenti,  cioe',  a  quanto  la  norma
dispone. 
    5.- Per quel che riguarda la questione sollevata  in  riferimento
all'art. 77 Cost.  -  che  assume  carattere  pregiudiziale,  proprio
perche' concernente il corretto esercizio  della  funzione  normativa
primaria (ex plurimis, sentenze n. 115 del 2020, n. 288 e n. 247  del
2019) - questa Corte ha avuto modo, in effetti, di  chiarire  che  la
preclusione  delle  pronunce   in   malam   partem   non   viene   in
considerazione quando si discuta di vizi formali o  di  incompetenza,
relativi, cioe', al procedimento di formazione dell'atto  legislativo
e alla legittimazione dell'organo che lo ha adottato. 
    Se  l'esclusione  delle  pronunce  in   malam   partem   mira   a
salvaguardare il monopolio del «soggetto-Parlamento» sulle scelte  di
criminalizzazione,  sarebbe  illogico  che  detta  preclusione  possa
scaturire  da  interventi   normativi   operati   da   soggetti   non
legittimati,  i  quali  pretendano  di  "neutralizzare"   le   scelte
effettuate da chi detiene quel monopolio - quale il Governo,  che  si
serva dello strumento del decreto legislativo senza il supporto della
legge di delegazione (sentenze n. 189 del 2019 e n. 5 del 2014), o le
Regioni,  che  legiferino  indebitamente  in  materia  penale,   loro
preclusa (sentenza n. 46 del 2014) -; ovvero che  possa  derivare  da
interventi normativi operati senza  il  rispetto  del  corretto  iter
procedurale, che pure assume una specifica valenza garantistica nella
cornice della riserva di legge, connessa al fatto che il procedimento
legislativo «implica un preventivo confronto dialettico tra tutte  le
forze  politiche,  incluse  quelle  di   minoranza,   e,   sia   pure
indirettamente, con la pubblica opinione» (sentenza n. 230 del 2012),
consentendo, cosi', alle une e  all'altra  un  apporto  critico  alle
«scelte di criminalizzazione adottate dalla maggioranza» (sentenza n.
487 del 1989). 
    Cio' vale anche e specificamente per le norme  penali  introdotte
mediante decreto-legge. 
    Questa Corte ha,  infatti,  scrutinato  nel  merito,  malgrado  i
possibili effetti in malam partem conseguenti al  loro  accoglimento,
non solo  questioni  volte  a  censurare  l'inserimento  in  sede  di
conversione  di  norme  penali  "intruse",  prive   cioe'   di   ogni
collegamento   logico-giuridico   con   il   testo   originario   del
decreto-legge convertito (sentenza n. 32 del  2014)  (operazione  che
menoma  indebitamente  il   dibattito   parlamentare,   comprimendolo
all'interno  dei  tempi  contingentati  correlati  alla  breve  "vita
provvisoria" dell'atto normativo del  Governo);  ma  anche,  e  prima
ancora, questioni intese - come l'odierna - a denunciare  la  carenza
dei presupposti di straordinaria necessita' ed urgenza, ai  quali  e'
subordinata l'eccezionale legittimazione del Governo ad adottare atti
con forza di legge in assenza di delegazione  parlamentare  (sentenza
n. 330 del 1996; ordinanze n. 90 del 1997 e n. 432 del 1996, tutte in
tema di depenalizzazione mediante decreto-legge di reati  in  materia
di inquinamento delle acque). 
    6.- Se pure dunque ammissibile, la questione  in  esame  non  e',
pero', fondata. 
    6.1.-  Per  costante   giurisprudenza   di   questa   Corte,   la
preesistenza di una situazione di fatto comportante la  necessita'  e
l'urgenza di provvedere  tramite  l'utilizzazione  di  uno  strumento
eccezionale, quale il  decreto-legge,  costituisce  un  requisito  di
validita' dell'adozione di tale atto, la cui  mancanza  configura  un
vizio di legittimita' costituzionale del medesimo, che non e'  sanato
dalla legge di conversione, la quale, ove intervenga, risulta  a  sua
volta inficiata da un vizio in procedendo (ex plurimis,  sentenze  n.
149 del 2020, n. 10 del 2015, n. 93 del 2011, n. 128 del 2008, n. 171
del 2007 e n. 29 del 1995). 
    Il  sindacato  resta,  tuttavia,  circoscritto  alle  ipotesi  di
"mancanza evidente"  dei  presupposti  in  discorso  o  di  manifesta
irragionevolezza o arbitrarieta' della loro valutazione (ex plurimis,
sentenze n. 186 del 2020, n. 288 e n. 97 del 2019, n. 137, n. 99 e n.
5 del 2018, n. 236 e n. 170 del 2017): cio', al fine  di  evitare  la
sovrapposizione tra la  valutazione  politica  del  Governo  e  delle
Camere (in sede  di  conversione)  e  il  controllo  di  legittimita'
costituzionale (sentenze n. 186 del 2020, n. 93 del 2011, n.  83  del
2010 e n. 171 del 2007). L'espressione, usata dall'art. 77 Cost., per
indicare i presupposti della  decretazione  d'urgenza  e'  connotata,
infatti, da un «largo margine di  elasticita'»  (sentenza  n.  5  del
2018), onde consentire al Governo di apprezzare la loro esistenza con
riguardo a una  pluralita'  di  situazioni  per  le  quali  non  sono
configurabili rigidi parametri (sentenze 137 del 2018 e  n.  171  del
2007). 
    Questa Corte ha chiarito,  per  altro  verso,  che  l'omogeneita'
costituisce un requisito del decreto-legge  sin  dalla  sua  origine,
poiche'  «l'inserimento  di  norme  eterogenee  all'oggetto  o   alla
finalita' del  decreto  spezza  il  legame  logico-giuridico  tra  la
valutazione fatta dal  Governo  dell'urgenza  del  provvedere  ed  "i
provvedimenti provvisori con forza  di  legge",  di  cui  alla  norma
costituzionale citata» (sentenze n. 149 del 2020 e n. 22 del 2012). 
    Il riconoscimento dell'esistenza dei presupposti fattuali, di cui
all'art. 77, secondo comma, Cost., resta, dunque,  collegato  ad  una
intrinseca coerenza delle norme contenute nel  decreto-legge,  o  dal
punto di vista oggettivo e materiale, o dal punto di vista funzionale
e finalistico. L'urgente necessita' del provvedere  puo'  riguardare,
cioe', una pluralita' di norme accomunate  o  dalla  natura  unitaria
delle fattispecie disciplinate, ovvero dall'intento  di  fronteggiare
una situazione straordinaria  complessa  e  variegata,  che  richiede
interventi oggettivamente eterogenei, in quanto afferenti  a  materie
diverse,  ma  indirizzati  tutti  all'unico   scopo   di   approntare
urgentemente rimedi a tale situazione (tra le altre, sentenza n.  149
del 2020, n. 137 del 2018, n. 170 del 2017, n. 244 del 2016 e  n.  22
del 2012). 
    Per i decreti-legge ab origine  a  contenuto  plurimo,  quel  che
rileva e' dunque il profilo  teleologico,  ossia  l'osservanza  della
ratio dominante l'intervento normativo d'urgenza (sentenze n. 213 del
2021, n. 170 e n. 16 del 2017, e n. 287  del  2016).  Anche  su  tale
fronte, il sindacato di questa Corte resta, peraltro, circoscritto ai
casi in cui la rottura del nesso tra la situazione di  necessita'  ed
urgenza che il Governo mira a fronteggiare e la singola  disposizione
del decreto-legge risulti evidente, cosi' da  connotare  quest'ultima
come «totalmente "estranea"» o addirittura «intrusa», analogamente  a
quanto avviene con  riguardo  alle  norme  aggiunte  dalla  legge  di
conversione (sentenza n. 213 del 2021). 
    6.2.- Alla luce  dei  principi  ora  ricordati,  le  censure  del
giudice rimettente non possono essere condivise. 
    Non si puo' ritenere, anzitutto, come egli opina,  che  la  norma
censurata sia «eccentrica ed assolutamente  avulsa»,  per  materia  e
finalita', rispetto al decreto-legge in cui e' inserita. 
    Come  emerge  dal  preambolo,  dai  lavori  preparatori  e  dalle
dichiarazioni ufficiali che ne hanno accompagnato l'approvazione,  il
d.l. n. 76 del 2020 reca un complesso di norme eterogenee  accomunate
dall'obiettivo di promuovere la ripresa economica del Paese  dopo  il
blocco delle attivita' produttive che ha caratterizzato la prima fase
dell'emergenza   pandemica.   In   quest'ottica,   il   provvedimento
interviene in molteplici ambiti: semplificazioni di vario ordine  per
le  imprese   e   per   la   pubblica   amministrazione,   diffusione
dell'amministrazione  digitale,  ma   anche   responsabilita'   degli
amministratori pubblici. 
    Quanto a quest'ultima, e segnatamente alla responsabilita' penale
per abuso d'ufficio, e' ben  vero  che  di  essa  non  si  fa  alcuna
menzione nel titolo del provvedimento (che  parla  esclusivamente  di
«[m]isure urgenti per la semplificazione e l'innovazione  digitale»),
mentre nel preambolo il  tema  e'  richiamato  in  modo  cursorio  ed
ambiguo  (con  il  secco  riferimento  alla  ritenuta  «straordinaria
necessita' e urgenza di introdurre», tra gli  altri,  «interventi  di
semplificazione in materia di  responsabilita'  del  personale  delle
amministrazioni»). Ne'  molto  piu'  prodiga  di  indicazioni  e'  la
relazione al disegno di legge di  conversione  A.S.1883,  laddove  la
modifica dell'art. 323 cod.  pen.  viene  giustificata  con  la  mera
esigenza «di definire in maniera piu' compiuta la condotta  rilevante
ai fini del reato di abuso di  ufficio»,  senza  alcuna  precisazione
riguardo al collegamento dell'intervento con gli obiettivi  di  fondo
del provvedimento d'urgenza. 
    Tale  collegamento  e'  individuabile  -  anche  alla  luce   del
convincimento espresso dal Presidente del Consiglio dei ministri  nel
presentare il decreto - nell'idea che  la  ripresa  del  Paese  possa
essere  facilitata  da  una   piu'   puntuale   delimitazione   delle
responsabilita'.  "Paura  della  firma"  e  "burocrazia   difensiva",
indotte  dal  timore  di  un'imputazione  per  abuso  d'ufficio,   si
tradurrebbero, in quanto fonte di inefficienza e immobilismo,  in  un
ostacolo al rilancio  economico,  che  richiede,  al  contrario,  una
pubblica amministrazione dinamica ed efficiente. 
    In questa prospettiva, la modifica volta  a  restringere,  meglio
definendola, la sfera  applicativa  del  reato  dell'abuso  d'ufficio
(specie in  rapporto  alla  precedente  "norma  vivente"  di  matrice
giurisprudenziale) non e' neppure una "monade" isolata. Come gia'  si
e' accennato, infatti, la norma censurata si abbina,  nell'ambito  di
dell'apposito  capo  del  "decreto  semplificazioni"  dedicato   alle
«[r]esponsabilita'» (il Capo IV del Titolo II), a disposizioni  volte
a "tranquillizzare"  i  pubblici  amministratori  rispetto  all'altro
rischio  che  accompagna  il   loro   operato:   vale   a   dire   la
responsabilita' erariale. 
    In conclusione, non puo' dunque sostenersi che la norma censurata
sia palesemente estranea alla traiettoria  finalistica  portante  del
decreto. 
    6.3.-  Neppure,  poi,  puo'  ritenersi,  come  pure   assume   il
rimettente, che rispetto alla norma in esame si versi, comunque  sia,
in un caso di evidente mancanza del presupposto  della  straordinaria
necessita' ed urgenza. 
    Al  riguardo,  non  puo'  condividersi,  nella  sua  assolutezza,
l'affermazione del giudice a quo, stando alla quale sarebbe, in linea
generale,  «opinabile,  se  non  addirittura  impossibile»,  che   la
depenalizzazione parziale di una figura criminosa  rivesta  caratteri
di straordinaria  necessita'  ed  urgenza.  Si  tratta,  infatti,  di
assunto apodittico e non sorretto da adeguata base logica,  il  quale
trova smentita nella citata sentenza n. 330 del 1996, con cui  questa
Corte nego' che fosse censurabile per difetto dei  presupposti  della
decretazione d'urgenza la depenalizzazione di alcuni reati in materia
di inquinamento delle acque. 
    Cio' premesso, deve osservarsi come l'intervento  normativo  oggi
in discussione rifletta due convinzioni,  per  quanto  si  e'  visto,
entrambe diffuse: a) che il "rischio penale"  e,  in  specie,  quello
legato alla scarsa puntualita' e alla potenziale  eccessiva  ampiezza
dei confini applicativi dell'abuso  d'ufficio,  rappresenti  uno  dei
motori della "burocrazia difensiva"; b) che quest'ultima  costituisca
a propria volta un freno e un fattore di inefficienza  dell'attivita'
della pubblica amministrazione. 
    E'  ben  vero  che  l'esigenza  di  contrastare  tali   fenomeni,
incidendo sulle relative cause - e, in particolare, per quel che  qui
rileva, ridefinendo la portata del precetto dell'art. 323  cod.  pen.
-,  non  nasce  con  l'emergenza  epidemiologica,  ma   si   connette
all'epifania, ben anteriore, degli  indirizzi  giurisprudenziali  che
hanno dilatato la sfera applicativa dell'incriminazione, attraendovi,
tanto la violazione  dell'art.  97  Cost.,  quanto  lo  sviamento  di
potere. Ma, se la necessita' della riforma  trae  origine  da  quegli
indirizzi, e' pero' l'esigenza di far "ripartire" celermente il Paese
dopo il prolungato blocco imposto per fronteggiare la pandemia che  -
nella  valutazione  del  Governo  (e  del  Parlamento,  in  sede   di
conversione) - ha impresso ad essa i connotati della straordinarieta'
e  dell'urgenza.  Valutazione,  questa,  che  non  puo'  considerarsi
manifestamente irragionevole o arbitraria. 
    7.-  Il  discorso  e'  diverso  per  le  questioni  sollevate  in
riferimento agli artt. 3 e 97 Cost., intese a censurare  i  contenuti
della norma. Riguardo ad esse, resta, infatti, pienamente operante la
ricordata preclusione delle  sentenze  in  malam  partem  in  materia
penale, cui consegue,  come  eccepito  dall'Avvocatura  dello  Stato,
l'inammissibilita' delle questioni stesse. 
    Onde superare  l'ostacolo,  il  rimettente  invoca  decisioni  di
questa Corte (in specie, le sentenze n. 394 del 2006  e  n.  148  del
1983) che hanno ammesso  la  sindacabilita'  in  malam  partem  delle
cosiddette norme penali di favore: qualifica che tuttavia non compete
alla norma oggi in esame. 
    Come questa Corte ha chiarito (sentenza n. 394 del 2006; in senso
conforme, tra le altre, sentenza n. 155 del 2019, n. 57 del 2009 e n.
324 del 2008; ordinanza n. 413 del 2008), per norme penali di  favore
debbono intendersi quelle che stabiliscano, per determinati  soggetti
o ipotesi, un trattamento penalistico piu' favorevole di  quello  che
risulterebbe dall'applicazione di norme generali o comuni compresenti
nell'ordinamento.  L'effetto  in  malam   partem   conseguente   alla
dichiarazione di illegittimita'  costituzionale  di  tali  norme  non
vulnera la riserva al legislatore sulle scelte di  criminalizzazione,
rappresentando una  conseguenza  dell'automatica  riespansione  della
norma generale o comune, dettata dallo stesso  legislatore,  al  caso
gia' oggetto di ingiustificata disciplina derogatoria. 
    La qualificazione come norma penale di  favore  non  puo'  essere
fatta, di contro, discendere, come nel caso di specie, dal  raffronto
tra una norma vigente e una norma anteriore, sostituita  dalla  prima
con effetti di restringimento dell'area di rilevanza penale.  In  tal
caso, la richiesta di sindacato  in  malam  partem  non  mira  a  far
riespandere  una  norma  tuttora  presente  nell'ordinamento,  ma   a
ripristinare  la  norma  abrogata,  espressiva  di  una   scelta   di
criminalizzazione non piu' attuale: operazione  preclusa  alla  Corte
(sulla  inammissibilita'  delle  questioni  volte  a  conseguire   il
ripristino di norme incriminatrici abrogate o  di  discipline  penali
sfavorevoli, ex plurimis, sentenze n. 37 del 2019, n. 57 del  2009  e
n. 324 del 2008; ordinanze n. 282 del 2019, n. 413 del 2008 e n.  175
del 2001). 
    Questa Corte ha gia' applicato, peraltro,  i  ricordati  principi
all'evoluzione   legislativa   dell'abuso   d'ufficio,    dichiarando
inammissibili, con la sentenza n. 447 del 1998, questioni analoghe  a
quelle ora in esame, sollevate in riferimento ai  medesimi  parametri
(artt. 3 e 97 Cost.), aventi ad oggetto l'art. 323  cod.  pen.,  come
riformulato - anche allora in senso restrittivo - dalla legge n.  234
del 1997. 
    Nell'occasione, si e' posto  in  evidenza  come  una  censura  di
illegittimita' costituzionale non possa basarsi sul  pregiudizio  che
la  formulazione,  in  assunto  troppo  restrittiva,  di  una   norma
incriminatrice, recherebbe a valori di rilievo costituzionale, quali,
nella specie, l'imparzialita' e  il  buon  andamento  della  pubblica
amministrazione.  Le  esigenze  costituzionali  di  tutela   non   si
esauriscono,  infatti,  nella  tutela  penale,  ben  potendo   essere
soddisfatte  con  altri   precetti   e   sanzioni:   l'incriminazione
costituisce anzi un'extrema ratio, cui il legislatore ricorre quando,
nel  suo  discrezionale  apprezzamento,  lo  ritenga  necessario  per
l'assenza o l'inadeguatezza di altri mezzi di tutela (sentenza n. 447
del 1998; in senso analogo, con riferimento all'abrogazione del reato
di ingiuria, sentenza n. 37 del 2019; si vedano pure la  sentenza  n.
273 del 2010 e l'ordinanza n. 317 del 1996). 
    Si e' rilevato, altresi', nella medesima occasione, che, in linea
di principio, neppure puo' tradursi in una questione di  legittimita'
costituzionale  della  norma  incriminatrice  il  rilievo  che  altre
condotte, diverse da quelle  individuate  come  fatti  di  reato  dal
legislatore, avrebbero dovuto essere a  loro  volta  incriminate  per
ragioni  di  parita'  di  trattamento  o  in  nome  di  esigenze   di
ragionevolezza. «La mancanza della base legale  -  costituzionalmente
necessaria - dell'incriminazione, cioe' della scelta  legislativa  di
considerare certe condotte  come  penalmente  perseguibili,  preclude
radicalmente la possibilita' di prospettare una  estensione  ad  esse
delle  fattispecie  incriminatrici  attraverso   una   pronuncia   di
illegittimita' costituzionale» (sentenza n. 447 del 1998). 
    In altre parole, ove pure, in ipotesi,  la  norma  incriminatrice
(non  qualificabile  come  norma  penale  di   favore)   determinasse
intollerabili disparita' di trattamento  o  esiti  irragionevoli,  il
riequilibrio potrebbe essere  operato  dalla  Corte  solo  "verso  il
basso" (ossia in bonam partem):  non  gia'  in  malam  partem,  e  in
particolare tramite interventi dilatativi del perimetro di  rilevanza
penale (sulla inammissibilita' di questioni in  malam  partem  basate
sulla denuncia di violazione dell'art. 3 Cost., ex plurimis, sentenza
n. 411 del 1995; ordinanze n. 437 del 2006 e n. 580 del 2000). 
    8.- Alla luce delle considerazioni che  precedono,  la  questione
sollevata   in   riferimento   all'art.   77    Cost.,    logicamente
pregiudiziale, deve essere  dichiarata  non  fondata,  mentre  quelle
sollevate in riferimento agli artt.  3  e  97  Cost.  debbono  essere
dichiarate inammissibili. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    1)  dichiara   non   fondata   la   questione   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 23, comma 1,  del  decreto-legge  16  luglio
2020, n. 76 (Misure urgenti per la  semplificazione  e  l'innovazione
digitale), convertito, con modificazioni, nella  legge  11  settembre
2020,  n.  120,  sollevata,  in   riferimento   all'art.   77   della
Costituzione, dal  Giudice  dell'udienza  preliminare  del  Tribunale
ordinario di Catanzaro con l'ordinanza indicata in epigrafe; 
    2)  dichiara   inammissibili   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 23, comma 1, del d.l. n. 76 del  2020,  come
convertito, sollevate, in riferimento agli artt. 3 e  97  Cost.,  dal
Giudice dell'udienza preliminare del Tribunale ordinario di Catanzaro
con l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 25 novembre 2021. 
 
                                F.to: 
                   Giancarlo CORAGGIO, Presidente 
                      Franco MODUGNO, Redattore 
             Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria 
 
    Depositata in Cancelleria il 18 gennaio 2022. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA