Corte Costituzionale 23 ottobre – 4 dicembre 2019 SENTENZA N. 253
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Ordinamento penitenziario - Detenuti per i delitti di associazione mafiosa e di "contesto mafioso" - Concessione di permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia - Possibilita' allorche' siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti - Omessa previsione - Violazione dei principi di ragionevolezza e della finalita' rieducativa della pena - Illegittimita' costituzionale in parte qua. Ordinamento penitenziario - Detenuti per i delitti di cui all'art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, diversi da quelli di associazione mafiosa e di "contesto mafioso" - Concessione di permessi premio anche in mancanza di collaborazione con la giustizia - Possibilita' allorche' siano stati acquisiti elementi tali da escludere sia l'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti - Omessa previsione - Illegittimita' costituzionale consequenziale in parte qua. - Legge 26 luglio 1975, n. 354, art. 4-bis, comma 1. - Costituzione, artt. 3 e 27, terzo comma.
(GU n.50 del 11-12-2019 )
LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente:Giorgio LATTANZI; Giudici :Aldo CAROSI, Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente SENTENZA nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'), promossi dalla Corte di cassazione e dal Tribunale di sorveglianza di Perugia con ordinanze del 20 dicembre 2018 e del 28 maggio 2019, rispettivamente iscritte ai nn. 59 e 135 del registro ordinanze 2019 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 17 e 34, prima serie speciale, dell'anno 2019. Visti gli atti di costituzione di S. C. e P. P., gli atti di intervento ad adiuvandum di M. D., dell'Associazione Nessuno Tocchi Caino, del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della liberta' personale e dell'Unione camere penali italiane, nonche' gli atti di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nell'udienza pubblica del 22 ottobre 2019 il Giudice relatore Nicolo' Zanon; uditi gli avvocati Ladislao Massari per M. D., Andrea Saccucci per l'Associazione Nessuno Tocchi Caino, Emilia Rossi per il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della liberta' personale, Vittorio Manes per l'Unione camere penali italiane, Valerio Vianello Accorretti per S. C., Mirna Raschi e Michele Passione per P. P. e gli avvocati dello Stato Marco Corsini e Maurizio Greco per il Presidente del Consiglio dei ministri. Ritenuto in fatto 1.- Con ordinanza del 20 dicembre 2018 (r.o. n. 59 del 2019), la Corte di cassazione ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'), in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, «nella parte in cui esclude che il condannato all'ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis cod. pen., ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio». 1.1.- Il collegio rimettente premette di essere investito del ricorso avente ad oggetto il provvedimento con cui il Tribunale di sorveglianza dell'Aquila ha rigettato il reclamo proposto da S. C. avverso il decreto con il quale il magistrato di sorveglianza dell'Aquila aveva dichiarato inammissibile la richiesta di permesso premio avanzata dal medesimo condannato. Espone il rimettente che il condannato si trova in espiazione della pena dell'ergastolo con isolamento diurno per la durata di un anno, irrogatagli «per i delitti di associazione mafiosa, omicidio, soppressione di cadavere, porto e detenzione illegale di armi», eseguiti tra il 1996 e il 1998 «per agevolare l'attivita'» di un'associazione mafiosa, come desumibile dalla sentenza di condanna per i reati di omicidio, per i quali e' stata applicata l'aggravante dei motivi abietti, «individuati nel fine di affermare l'egemonia e il prestigio della consorteria alla quale l'imputato era affiliato». Precisa il giudice a quo che il Tribunale di sorveglianza dell'Aquila ha ritenuto non concedibile il beneficio richiesto in quanto precluso dai titoli di reato, trattandosi di delitti tutti ricompresi nell'elenco dei reati ostativi ai sensi dell'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. - pur in assenza di una contestazione formale dell'aggravante speciale di cui all'art. 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalita' organizzata e di trasparenza e buon andamento dell'attivita' amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203 - e non sussistendo condotte di collaborazione con la giustizia rilevanti ai sensi dell'art. 58-ter ordin. penit., richiamato dal medesimo art. 4-bis. Ricorda la Corte rimettente che l'art. 4-bis ordin. penit. stabilisce il divieto di concessione di benefici penitenziari in assenza di collaborazione con la giustizia, sia per le ipotesi di reato previste dagli artt. 416-bis (Associazioni di tipo mafioso anche straniere) e 416-ter (Scambio elettorale politico-mafioso) del codice penale, sia per i reati commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni previste dallo stesso articolo. Espone, quindi, che il condannato S. C. ha sostenuto, per quanto qui interessa, che «la preclusione assoluta stabilita dalla norma censurata» si porrebbe «in contrasto con la funzione rieducativa della pena costituzionalmente garantita», sia perche' impedirebbe «il raggiungimento delle finalita' riabilitative proprie del trattamento penitenziario», sia perche' sarebbe «disarmonica rispetto ai principi affermati dall'art. 3 CEDU», invitando quindi la Corte di cassazione a sollevare questione di legittimita' costituzionale, «dell'art. 4-bis, comma 1, Ord. Pen., con riferimento agli articoli 17, 18 e 22 cod. pen., per violazione degli artt. 27, comma terzo, 117 Cost., in relazione all'art. 3 CEDU». 1.2.- Cio' premesso, il collegio rimettente ritiene rilevante e non manifestamente infondata la questione di legittimita' costituzionale prospettata in relazione all'art. 4-bis ordin. penit. 1.2.1.- In punto di rilevanza, ricorda come l'art. 30-ter ordin. penit., nel disciplinare la concessione dei permessi premio, considera decisivo l'apprezzamento di pericolosita' sociale, ai fini dell'accoglimento o del rigetto della domanda di permesso premio, ed evidenzia che tale profilo «non e' stato oggetto di specifica valutazione ad opera del Tribunale di sorveglianza che ha ritenuto impeditivo di un concreto esame il disposto normativo dell'art. 4-bis, comma 1, Ord. Pen.». A giudizio del collegio a quo, tuttavia, cio' non priva di rilevanza la questione, «perche' la rimozione dell'ostacolo costituito dalla presunzione assoluta di pericolosita' sarebbe l'unico modo per consentire la rimessione al giudice del merito, come giudice del rinvio, del compito di verificare in concreto la ricorrenza dei presupposti richiesti dall'art. 30-ter Ord. Pen. per la concessione del beneficio, in particolare l'assenza di pericolosita' sociale». 1.2.2.- In ordine alla non manifesta infondatezza della questione di legittimita' costituzionale, la Corte rimettente osserva, in primo luogo, che il tema della pericolosita' sociale di indagati o imputati per reati di criminalita' organizzata e' gia' stato vagliato dalla giurisprudenza costituzionale in relazione ai criteri che devono orientare il giudice nell'applicazione delle misure cautelari personali previste dall'art. 275, comma 3, del codice di procedura penale. A tale proposito, viene richiamata la sentenza n. 57 del 2013, che ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 275, comma 3, secondo periodo, cod. proc. pen., come modificato dall'art. 2, comma 1, del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11 (Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonche' in tema di atti persecutori) convertito, con modificazioni, nella legge 23 aprile 2009, n. 38, nella parte in cui prevedeva, per coloro per i quali sussistono gravi indizi di colpevolezza in ordine a delitti commessi avvalendosi delle condizioni previste dall'art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni mafiose, l'applicazione della custodia cautelare in carcere come unica misura adeguata a soddisfare le esigenze cautelari, senza fare salva - rispetto al concorrente esterno - l'ipotesi in cui fossero stati acquisiti elementi specifici, in relazione al caso concreto, dai quali risultasse che le esigenze cautelari potevano essere soddisfatte con altre misure. Il collegio rimettente ricorda che, secondo la Corte costituzionale, le presunzioni assolute, ove limitative di diritti fondamentali, violano il principio di eguaglianza se sono arbitrarie e irrazionali ovvero «se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit» e che, al contempo, la possibile estraneita' dell'autore di tali delitti a un'associazione mafiosa fa escludere che si sia sempre in presenza di un reato che presupponga la necessita' di un vincolo di appartenenza alla consorteria considerata. Il collegio rimettente richiama, altresi', la sentenza della Corte costituzionale n. 48 del 2015, che ha analogamente eliminato la presunzione assoluta di adeguatezza della sola custodia cautelare in carcere per gli imputati o indagati di concorso esterno in associazione mafiosa. Anche in tal caso, rammenta la Corte rimettente, secondo la giurisprudenza costituzionale non sarebbe ravvisabile, nei confronti del concorrente esterno, quel vincolo di adesione permanente al sodalizio mafioso necessario a legittimare, sul piano giurisdizionale, il ricorso esclusivo alla custodia cautelare in carcere, quale unico strumento idoneo a recidere i rapporti dell'indiziato con l'ambiente associativo, neutralizzandone la pericolosita'. In questo contesto, secondo il giudice a quo, l'art. 4-bis ordin. penit. si inserirebbe «problematicamente», dal momento che, in relazione alla concessione del permesso premio, «ne preclude l'accesso, in senso assoluto, a tutte le persone condannate per delitti ostativi che non hanno fornito una collaborazione con la giustizia rilevante ai sensi dell'art. 58-ter Ord. Pen.». Tale preclusione assoluta, «non distinguendo tra gli affiliati di un'organizzazione mafiosa» e gli autori di delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis cod. pen. ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni previste dalla stessa norma, appare al rimettente confliggente con «l'incompatibilita' costituzionale» delle presunzioni assolute di pericolosita' sociale, quando applicate alle condotte illecite che non presuppongono l'affiliazione a un'associazione mafiosa, secondo i principi che sarebbero stati affermati dalla Corte costituzionale nelle sentenze in precedenza richiamate. Il giudice a quo, ancora, richiama ulteriori pronunce della Corte costituzionale in materia di compatibilita' tra il divieto di concessione dei benefici penitenziari previsto dall'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., e i principi che governano l'esecuzione della pena. In particolare, evidenzia che, con la sentenza n. 239 del 2014, la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., nella parte «in cui non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito, la misura della detenzione domiciliare speciale prevista dall'art. 47-quinquies della medesima legge» nonche' nella parte in cui «non esclude dal divieto di concessione dei benefici penitenziari, da esso stabilito, la misura della detenzione domiciliare prevista dall'art. 47-ter, comma 1, lettere a) e b), della medesima legge, ferma restando la condizione dell'insussistenza di un concreto pericolo di commissione di ulteriori delitti». Per la Corte costituzionale, la scelta legislativa di accomunare nel regime detentivo prefigurato dall'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. fattispecie e misure alternative tra loro eterogenee sarebbe lesiva dei parametri costituzionali evocati (si trattava degli artt. 3, 29, 30 e 31 Cost.), in quanto illogica rispetto all'obiettivo di incentivare la collaborazione processuale quale strategia di contrasto alla criminalita' organizzata: la subordinazione dell'accesso ai benefici penitenziari a un effettivo ravvedimento del condannato sarebbe giustificata solo quando si discuta di misure alternative che mirano alla rieducazione del condannato e non quando «al centro della tutela si collochi un interesse "esterno" ed eterogeneo». La Corte rimettente attribuisce «[a]nalogo rilievo ermeneutico» alla sentenza n. 76 del 2017, con cui la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 47-quinquies, comma 1-bis, ordin. penit., limitatamente all'inciso «salvo che nei confronti delle madri condannate per taluno dei delitti indicati nell'art. 4-bis», evidenziando, con riferimento alla detenzione domiciliare speciale di cui alla disposizione allora censurata, l'inammissibilita' di presunzioni assolute che neghino l'accesso della madre alle modalita' agevolate di espiazione della pena, impedendo al giudice di valutare in concreto la pericolosita' sociale e facendo ricorso a indici presuntivi che comportano «il totale sacrificio dell'interesse del minore». Infine, il giudice a quo richiama la sentenza n. 149 del 2018, con la quale la Corte costituzionale ha dichiarato l'illegittimita' costituzionale dell'art. 58-quater, comma 4, ordin. penit., nella parte in cui si applica ai condannati all'ergastolo per i delitti di cui agli artt. 289-bis e 630 cod. pen. che abbiano cagionato la morte del sequestrato, ribadendo i principi della progressivita' trattamentale e della flessibilita' della pena «radicati nell'art. 27, comma terzo, Cost., che garantisce il graduale inserimento del condannato all'ergastolo nel contesto sociale». Tutto cio' premesso, la Corte rimettente espone che, che nel caso sottoposto al suo scrutinio, il condannato risulta ininterrottamente detenuto dal 27 giugno 1998 e ha sempre mantenuto un comportamento carcerario rispettoso del programma rieducativo attivato nei suoi confronti. Per il giudice a quo, subordinare l'accesso ai benefici penitenziari alla collaborazione con la giustizia, indistintamente per tutte le categorie di condannati per uno dei reati contemplati nell'elenco dell'art. 4-bis, ordin. penit., avrebbe «l'effetto di valorizzare la scelta collaborativa, come momento di rottura e di definitivo distacco dalle organizzazioni criminali, anche nei confronti di detenuti non inseriti in contesti associativi». Al contempo, se l'obiettivo prioritario della norma censurata e' individuato nell'incentivazione alla collaborazione, quale strategia di contrasto della criminalita' organizzata attraverso la rescissione definitiva dei legami con le associazioni di appartenenza, a giudizio del rimettente appare priva di ragionevolezza una disposizione che assimili condotte delittuose tanto diverse tra loro, precludendo ad una categoria cosi' ampia e diversificata di condannati il diritto di ricevere un trattamento penitenziario rivolto alla risocializzazione, senza che sia data al giudice la possibilita' di verificare in concreto la permanenza o meno di condizioni di pericolosita' sociale tali da giustificare percorsi penitenziari non aperti alla realta' esterna. Il giudice a quo considera «dato consolidato» - conformemente alla costante giurisprudenza di legittimita' - che la scelta di fornire un contributo collaborativo, rilevante ai sensi dell'art. 58-ter ordin. penit., rappresenta, per un detenuto appartenente a una consorteria mafiosa, una manifestazione inequivocabile «del suo definitivo distacco dal sodalizio in cui gravitava». Ritiene pero' che non possa assumere «valore incontrovertibile e assurgere a canone valutabile in termini di presunzione assoluta, a prescindere dalle emergenze concrete», l'affermazione che la cessazione dei legami di un detenuto con il gruppo criminale di riferimento possa essere dimostrata, durante la fase di esecuzione della pena, soltanto attraverso le condotte collaborative di cui all'art. 58-ter ordin. penit., dato che tale assunto non troverebbe «copertura» nella giurisprudenza costituzionale in precedenza illustrata che, «come ha bandito dal sistema le presunzioni assolute di pericolosita', cosi' non puo' avallare la conclusione che la scelta collaborativa costituisca prova legale esclusiva di ravvedimento». A parere del collegio rimettente, peraltro, la scelta del condannato all'ergastolo di non collaborare con la giustizia non risulterebbe univocamente dimostrativa dell'attualita' della pericolosita' sociale e non necessariamente implicherebbe la volonta' di restare legato al sodalizio mafioso di appartenenza, potendo essere determinata anche da altri fattori, estranei al percorso rieducativo, quali: il «rischio per l'incolumita' propria e dei propri familiari»; il «rifiuto morale di rendere dichiarazioni di accusa nei confronti di un congiunto o di persone legate da vincoli affettivi»; il «ripudio di una collaborazione di natura meramente utilitaristica». I dubbi di costituzionalita' aumentano, a parere del rimettente, se si considerano le peculiarita' del permesso premio previsto dall'art. 30-ter ordin. penit, che possiede «una connotazione di contingenza che non ne consente l'assimilazione integrale alle misure alternative alla detenzione», perche' non modifica le condizioni restrittive del condannato: soltanto rispetto a queste ultime le ragioni di politica criminale sottese alla «preclusione assoluta di cui all'art. 4-bis, comma 1, Ord. Pen.», potrebbero apparire rispondenti alle esigenze di contrasto alla criminalita' organizzata. A parere del giudice a quo, in particolare, i permessi premio costituirebbero parte essenziale del trattamento rieducativo, sicche', ove non concessi a causa di una «presunzione di pericolosita' non altrimenti vincibile», sarebbero compromesse le stesse finalita' costituzionali della pena detentiva. Tale tipologia di beneficio penitenziario, infatti, troverebbe fondamento anzitutto nella realizzazione di una finalita' immediata, costituita dalla cura di interessi affettivi, culturali e di lavoro, caratterizzandosi «come strumento di soddisfazione di esigenze anche molto limitate seppure non rientranti nella portata meno ampia del permesso di necessita'». In ragione di questa peculiare funzione, il collegio rimettente ritiene che sussista la possibilita', anche in assenza di collaborazione con la giustizia, di verificare in concreto «la mancanza di elementi significativi di collegamenti con la criminalita' organizzata» o di accertare «addirittura» elementi denotanti «un significativo distacco dal sistema subculturale criminale». Per la Corte di cassazione, del resto, «anche una concessione premiale per una finalita' limitata e contingente potrebbe sortire l'effetto di incentivare il detenuto a collaborare con l'istituzione carceraria». 2.- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata non fondata. Ad avviso della difesa statale, la questione sollevata sarebbe manifestamente infondata sotto piu' punti di vista. Premette l'Avvocatura che, al fine di contrastare «l'odioso fenomeno della criminalita' organizzata», il legislatore avrebbe stabilito di subordinare la concessione dei benefici per gli autori di tali delitti «ad una e una sola condizione»: che il condannato decida, quando sia materialmente possibile, di collaborare con la giustizia. Con tale disciplina speciale si sarebbe scelto di «divaricare nettamente la posizione dei "collaboratori" da quella degli "irriducibili"», privilegiando, per una serie di reati «tassativamente elencati», le finalita' di prevenzione generale e di sicurezza della collettivita'. La soluzione prefigurata dall'art. 4-bis, ordin. penit., in ogni caso, non rappresenterebbe «un automatismo che opera incondizionatamente, in quanto la collaborazione del condannato restituisce al giudice i poteri di valutare discrezionalmente la sussistenza dei presupposti "normali" per accordare il permesso premio». In sostanza, il detenuto che ha collaborato verrebbe posto sullo stesso piano del condannato nei cui riguardi opera l'art. 30-ter, ordin. penit. Si tratterebbe di una scelta discrezionale del legislatore connessa a valutazioni di politica criminale, secondo le quali l'unico mezzo con il quale il detenuto puo' dimostrare l'assenza di pericolosita' - che nel caso di detenuti per delitti previsti dall'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., consiste nella persistenza di legami con la criminalita' organizzata - e' quello di scegliere la via della collaborazione. In tal modo, a parere dell'Avvocatura, sarebbe stata incentivata la stessa collaborazione, che «nell'esperienza giudiziaria della storia nazionale» si sarebbe rivelata come «mezzo insostituibile» della ricerca della prova e del perseguimento dei responsabili. A parere dell'interveniente, il rigore che connota il sistema delineato dall'art. 4-bis, ordin. penit., si applica anche ai permessi premio, «apparendo del tutto irrilevante la sua natura contingente piuttosto che di alternativa vera e propria alla pena detentiva», poiche' la ratio della norma e' quella «di evitare l'uscita dal carcere - anche solo per poche ore - di condannati verosimilmente ancora pericolosi, in particolare in ragione dei loro persistenti legami con la criminalita' organizzata» (si cita la sentenza n. 149 del 2018). Lo stesso legislatore, «nel circoscrivere l'ambito oggettivo della preclusione», pur consapevole delle diversita' strutturali, affianca espressamente i permessi premio alle misure alternative alla detenzione, per l'esigenza di evitare che i condannati per tali reati siano rimessi, anche solo temporaneamente, in liberta'. Secondo l'Avvocatura, la stessa giurisprudenza costituzionale avrebbe ritenuto che «la collaborazione con la giustizia assuma "non irragionevolmente, la diversa valenza di criterio di accertamento della rottura dei collegamenti con la criminalita' organizzata, che a sua volta e' condizione necessaria, sia pure non sufficiente, per valutare il venir meno della pericolosita' sociale ed i risultati del percorso di rieducazione e di recupero del condannato"» (sentenza n. 273 del 2001). La scelta collaborativa sarebbe stata assunta dal legislatore a criterio legale di valutazione del comportamento del detenuto, rappresentando una condotta necessaria ai fini dell'accertamento del «sicuro ravvedimento» del condannato. Dunque, l'opzione legislativa sarebbe frutto di un potere discrezionale in materia di politica penitenziaria, come tale sindacabile nei soli limiti in cui risulti esercitato in modo arbitrario. A tale proposito, l'Avvocatura generale richiama la sentenza della Corte costituzionale n. 306 del 1993, secondo cui «certamente risponde all'esigenza di contrastare una criminalita' organizzata aggressiva e diffusa la scelta del legislatore di privilegiare finalita' di prevenzione generale e di sicurezza della collettivita', attribuendo determinati vantaggi ai detenuti che collaborano con la giustizia». 3. - In data 13 maggio 2019 si e' costituito in giudizio S. C., parte ricorrente nel giudizio a quo, per chiedere l'accoglimento delle questioni di legittimita' costituzionale, sviluppando gli argomenti gia' esibiti nell'ordinanza della Corte di cassazione. Secondo S. C., inoltre, la disposizione censurata violerebbe non soltanto gli artt. 3 e 27 Cost., ma anche l'art. 117 Cost., in relazione all'art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848, in base alla giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell'uomo (viene citata la sentenza della Grande Camera 9 luglio 2013, Vinter e altri contro Regno Unito). 3.1.- In data 1° ottobre 2019 S. C. ha depositato una memoria in cui ribadisce quanto sostenuto nell'atto di costituzione, in particolare in merito alle caratteristiche peculiari del permesso premio in relazione agli altri benefici penitenziari, ai quali ultimi non potrebbe essere omologato, pena la violazione dei principi costituzionali evocati. La parte richiama, inoltre, la sentenza pronunciata dalla Corte EDU il 13 giugno 2019, nel caso Viola contro Italia, di cui vengono riprodotti ampi stralci di motivazione. Aggiunge la parte che appare «inammissibile» che il «diritto di non collaborare», garantito processualmente come espressione del principio nemo tenetur se detegere, possa trasformarsi in fase esecutiva in un vero e proprio dovere, necessario per poter usufruire di «strumenti che dovrebbero essere invece gli ordinari risultati della partecipazione proficua al trattamento penitenziario». Infine, la parte reputa «certamente discutibile» che una condotta di tipo meramente utilitaristico sia proposta dallo stesso legislatore come requisito per evitare il «danno aggiuntivo» della preclusione ai benefici, trasformandosi cosi' in «una vera e propria costrizione», ricordando che la Corte costituzionale ha di recente affermato (e' richiamata l'ordinanza n. 117 del 2019) che il diritto a mantenere il silenzio da parte degli imputati o condannati costituisce un «corollario essenziale dell'inviolabilita' del diritto di difesa, riconosciuto dall'art. 24 Cost.». 4.- In data 30 aprile 2019 il detenuto M. D. ha depositato atto di intervento ad adiuvandum, sostenendo di avere uno specifico interesse ad intervenire nel giudizio attesa la posizione processuale di «perfetta sovrapponibilita'» rispetto a quella di S. C., trovandosi in esecuzione - da oltre ventisette anni - della pena dell'ergastolo cosiddetto ostativo, con diniego di accesso alle misure alternative alla detenzione, in assenza di collaborazione con la giustizia. M. D., in data 19 settembre 2019, ha depositato una memoria per riaffermare il suo interesse qualificato connesso alla circostanza che la Corte di cassazione, nel giudizio che lo riguarda (celebrato innanzi alla medesima sezione che ha sollevato la questione di legittimita' costituzionale da cui origina il giudizio r.o. n. 59 del 2019), ha disposto il rinvio della trattazione in attesa della «decisione della Corte Costituzionale sulla legittimita' dell'art. 4 bis ord. pen. - per quanto riguarda la concedibilita' dei permessi premio per il detenuto non collaborante». Ha concluso, dunque, per l'accoglimento delle questioni di legittimita' costituzionale sollevate dalla Corte di cassazione, sezione prima penale. 5.- In data 13 maggio 2019 ha depositato atto di intervento ad adiuvandum l'associazione Nessuno Tocchi Caino, argomentando di essere «portatrice di un interesse "qualificato" nella questione relativa alla legittimita' costituzionale» prospettata, in quanto associazione senza fini di lucro fondata con lo scopo di condurre una campagna volta a far abrogare in tutto il mondo le norme che prevedono la pena di morte ovvero che costituiscono «una sorta di pena di morte "mascherata"», come l'ergastolo cosiddetto ostativo previsto dall'art. 4-bis, ordin. penit. In vista dell'udienza pubblica del 22 ottobre 2019, l'associazione ha depositato, in data 1° ottobre 2019, una memoria in cui richiama e sviluppa gli argomenti gia' esibiti nell'atto di costituzione, con la quale si chiede l'accoglimento delle questioni di legittimita' costituzionale sollevate dalla Corte di cassazione, sezione prima penale. 6.- Con ordinanza del 28 maggio 2019 (r.o. n. 135 del 2019), il Tribunale di sorveglianza di Perugia ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., «nella parte in cui esclude che il condannato all'ergastolo per delitti commessi al fine di agevolare l'attivita' dell'associazione a delinquere ex art. 416 bis cod. pen. della quale sia stato partecipe, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio». 6.1.- Il collegio rimettente premette di essere investito del ricorso avverso il provvedimento con cui il Magistrato di sorveglianza di Spoleto ha dichiarato inammissibile l'istanza diretta ad ottenere un permesso premio ai sensi dell'art. 30-ter, ordin. penit. avanzata da P. P., in espiazione della pena dell'ergastolo con isolamento diurno in relazione ad un provvedimento di cumulo comprendente condanne tutte per delitti rientranti nel disposto dell'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., percio' ostative alla concessione del permesso richiesto. Aggiunge che la difesa del condannato ha, quindi, proposto reclamo dinanzi al tribunale di sorveglianza rimettente, chiedendo la sospensione della decisione in attesa della pronuncia sulla questione di legittimita' costituzionale sollevata dalla Corte di cassazione, sezione prima penale, con l'ordinanza 20 dicembre 2018. 6.2.- Cio' posto, il Tribunale di sorveglianza di Perugia ha ritenuto di sospendere il procedimento per sollevare, a sua volta, le questioni di legittimita' costituzionale innanzi descritte. 6.2.1.- Il giudice a quo ripercorre, richiamandoli integralmente, anche con riferimento alla citazione della giurisprudenza costituzionale ritenuta pertinente, i passaggi essenziali dell'ordinanza con cui la prima sezione penale della Corte di cassazione (r.o. n. 59 del 2019) ha sollevato le innanzi illustrate questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., sia perche' dichiara di condividerli, sia «per evidenziarne tratti di non completa sovrapponibilita'» con la fattispecie sottoposta al suo scrutinio, ma che pure ritiene di sottoporre all'esame della Corte costituzionale. Ancora con riferimento al profilo della rilevanza delle questioni sollevate, il rimettente evidenzia che, in entrambi i procedimenti da cui sono scaturite le questioni oggi all'esame della Corte costituzionale, viene in rilievo la richiesta di un condannato alla pena dell'ergastolo di fruire di un permesso premiale, rigettata dal magistrato di sorveglianza competente - e, nel caso vagliato dalla Corte di cassazione, con decisione confermata in sede di reclamo dal Tribunale di sorveglianza - poiche' soltanto la scelta di collaborare con la giustizia, «invece non avvenuta, potrebbe comportare la fuoriuscita dal regime di assoluta ostativita'». Ne consegue che nessuna valutazione puo' essere condotta in concreto sulla pericolosita' sociale del condannato, perche' «la magistratura di sorveglianza deve, di fronte a tale assoluta ostativita', dichiarare soltanto l'inammissibilita' dell'istanza, con la conseguenza della rilevanza per il giudizio sottopostole della questione di legittimita' costituzionale prospettata che, in caso di accoglimento, consentirebbe la rimessione al giudice del merito, come giudice di rinvio, con il compito di verificare l'eventuale meritevolezza del beneficio premiale». Per il rimettente, in sostanza, soltanto l'eventuale declaratoria di illegittimita' costituzionale della «preclusione assoluta» alla concessione del permesso premio consentirebbe al tribunale di sorveglianza «di non provvedere con rigetto del reclamo per inammissibilita' dell'istanza di permesso premio e di vagliarne invece la meritevolezza nel caso concreto», e cioe' di verificare se sussistano i requisiti di merito indicati nell'art. 30-ter ordin. penit. in ordine al mantenimento di una regolare condotta da parte del condannato nel corso della sua detenzione nonche', trattandosi di condannato per delitti compresi nell'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., di accertare «il requisito dell'acquisizione di elementi tali da escludere l'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata». Il giudice a quo, in ogni caso, riferisce che il reclamante e' ininterrottamente detenuto dal marzo 1995, sicche' ha «vissuto oltre ventiquattro anni di pena effettiva», fruendo di 2160 giorni di liberazione anticipata per aver partecipato all'opera rieducativa condotta nei suoi confronti, e soddisfa dunque l'altro requisito di ammissibilita' (raggiunto nell'anno 2005) per la concessione di un permesso premio al condannato alla pena dell'ergastolo, consistente nell'aver espiato la quota di pena di almeno dieci anni indicata dall'art. 30-ter, comma 4, lettera d), ordin. penit. 6.2.2.- In punto di non manifesta infondatezza, il rimettente evidenzia che, sebbene si tratti in entrambi i casi di condannati all'ergastolo per reati ricompresi nell'elenco dell'art. 4-bis, ordin. penit., che hanno chiesto di ottenere un permesso premio, la posizione all'esame del Tribunale di sorveglianza di Perugia differisce da quella esaminata dalla Corte di cassazione, poiche' il ricorrente e' stato condannato per delitti commessi al fine di agevolare il gruppo criminale organizzato ex art. 416-bis cod. pen. del quale e' stato riconosciuto partecipe, con ruolo sviluppatosi nel corso del tempo nelle diverse vicende criminose che lo hanno visto protagonista. Tuttavia, ritiene il rimettente che anche la situazione del condannato ricorrente nel giudizio a quo «meriti un vaglio circa la pericolosita' sociale realizzato in concreto dal competente magistrato di sorveglianza e non precluso assolutamente», come invece accade in ragione della disposizione di ordinamento penitenziario della cui legittimita' costituzionale si dubita. Grande rilievo viene attribuito alla giurisprudenza della Corte costituzionale relativa al superamento degli automatismi e delle preclusioni assolute per la concessione dei benefici penitenziari alle detenute madri di prole in tenera eta' (sentenza n. 239 del 2014) e ai condannati alla pena dell'ergastolo per sequestro di persona a scopo di estorsione che abbiano cagionato la morte del sequestrato (sentenza n. 149 del 2018). Pronunce di cui vengono riprodotti ampi passaggi, seguendo la traccia della motivazione disegnata dalla Corte di cassazione nel sollevare le analoghe questioni in precedenza illustrate. Il rimettente sottolinea in modo particolare che, in materia di permessi premio, «i dubbi si accrescono», alla luce della peculiarita' del beneficio, per ottenere il quale sono sufficienti requisiti diversi e meno pregnanti del ravvedimento, richiesto per ottenere la liberazione condizionale (fattispecie scrutinata in passato dalla Corte costituzionale «rispetto alle ostativita' dell'art. 4-bis, comma 1, ord. penit.»: e' richiamata la sentenza n. 135 del 2003), e della sua «necessita'» per favorire ulteriori progressioni trattamentali e soddisfare esigenze di cura di interessi affettivi, culturali o lavorativi. Il Tribunale di sorveglianza di Perugia ritiene, dunque, di condividere i dubbi sulla legittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. gia' espressi dalla Corte di cassazione con l'ordinanza in precedenza ampiamente illustrata e di cui riporta ampi stralci, estendendo pero' la questione di legittimita' costituzionale «alla preclusione alla possibilita' di essere ammesso alla fruizione di un permesso premio per il condannato alla pena dell'ergastolo che abbia commesso delitti con la finalita' di agevolazione di un gruppo criminale ex art. 416-bis cod. pen. del quale sia stato riconosciuto partecipe». Anche in relazione a tale posizione, infatti, il giudice a quo dubita che sia compatibile con gli artt. 3 e 27 Cost. «l'elevazione della collaborazione con la giustizia a prova legale del venir meno della pericolosita' sociale del condannato», impedendo che la magistratura di sorveglianza vagli nel caso concreto la sussistenza di tale «comportamento (di sicura centrale importanza), ma al fianco di altri che possono avere particolare importanza». Ricorda il rimettente, del resto, che anche oggi, pur in presenza di una condotta di collaborazione rilevante ai sensi dell'art. 58-ter ordin. penit., il tribunale di sorveglianza e' chiamato a verificare in concreto l'evoluzione personologica del condannato e anche le ragioni che lo hanno condotto alla collaborazione, sicche', con la proposizione delle questioni di legittimita' costituzionale in esame, si chiede «che cio' possa farsi anche per l'opzione opposta», al fine di valutare nel caso concreto le ragioni che hanno indotto l'interessato a mantenere il silenzio. A quest'ultimo proposito, ricorda ancora il Tribunale di sorveglianza di Perugia che il diritto a mantenere il silenzio e' stato di recente scrutinato, pur su altra materia, dalla Corte costituzionale (e' citata l'ordinanza n. 117 del 2019), che lo avrebbe considerato principio fondamentale dell'ordinamento costituzionale e descritto come «corollario essenziale dell'inviolabilita' del diritto di difesa, riconosciuto dall'art. 24 Cost.», in quanto tale «appartenente al novero dei diritti inalienabili della persona umana», quando le proprie dichiarazioni possano rivelarsi autoaccusatorie, sicche' esso entrerebbe «in significativa frizione con un meccanismo che impedisce l'accesso a ogni misura extramuraria se non vi si rinuncia». Per questo motivo, sarebbe necessario poter valutare le ragioni che, «anche al di la' delle propalazioni autoaccusatorie», incidono sulla scelta di non collaborare attivamente, quali: i timori per la propria e l'altrui incolumita', in particolare di congiunti e familiari che, ad esempio, non possano sradicarsi dai luoghi di origine in cui furono commessi i reati; il rifiuto di causare la carcerazione di altri, con i quali, ancora in via esemplificativa, si abbia o si sia avuto un legame familiare o affettivo; il rifiuto di accedere alla collaborazione perche' non si vuole essere tacciati di averlo fatto soltanto per calcolo utilitaristico, per una riduzione di pena o per ottenere un beneficio penitenziario. Inoltre, il giudice a quo ritiene che il comma 1 dell'art. 4-bis, ordin. penit., non distinguendo tra i differenti benefici penitenziari, non consenta di valutare le peculiarita' di ciascun istituto, richiedendo, piuttosto, la collaborazione tanto come prova necessaria per dimostrare il ravvedimento del condannato (requisito proprio della sola liberazione condizionale), quanto per un permesso premio che presuppone, invece, «la piu' modesta regolare condotta». Nella prospettiva del rimettente, il permesso premio costituisce uno «strumento fondamentale» per consentire al condannato di progredire «nel senso di responsabilita' e nella capacita' di gestirsi nella legalita'», e allo stesso magistrato di sorveglianza di vagliare i progressi trattamentali compiuti e la capacita' di reinserirsi, per quanto brevemente, nel tessuto sociale. Anzi, proprio la possibilita' di fruirne nel tempo e con regolarita', «in assenza di eventuali involuzioni comportamentali», potrebbe far emergere «un sempre piu' convinto allontanamento dal sistema di vita criminale in precedenza abbracciato», producendo uno «sradicamento da eventuali contesti sociali controindicati», stimolando condotte collaborative e fungendo da «sprone verso il reinserimento», necessariamente prodromico alla concessione di misure alternative. Sotto una diversa angolazione, il rimettente evidenzia che il permesso premio persegue anche l'obbiettivo peculiare di «garantire all'interessato l'esercizio pieno di diritti, altrimenti legittimamente compressi dalla condizione detentiva», e in particolare il mantenimento o il ristabilimento, dopo anche lungo tempo, delle relazioni, anche intime, con la famiglia. Per il rimettente, considerazioni legate alla pericolosita' sociale individuale del condannato «ben possono, e debbono, condurre al rigetto di un beneficio premiale», che le esigenze da ultimo illustrate potrebbe soddisfare, ma la sussistenza di una preclusione assoluta, sganciata da una valutazione del caso concreto «e nel tempo comunque rivedibile», appare «maggiormente stridente a fronte dei diritti fondamentali compressi», anche tenuto conto degli interessi «esterni ed eterogenei», costituiti dalle aspirazioni al mantenimento dell'unita' familiare da parte del coniuge o convivente e dei figli, ma anche dei genitori di eta' avanzata. Ancora, l'ordinanza di rimessione concede ampio spazio alle affermazioni di principio - in tema di progressivita' trattamentale e flessibilita' della pena - contenute nella sentenza n. 149 del 2018 della Corte costituzionale, di cui vengono riportati numerosi passaggi motivazionali, per evidenziare come l'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. svuoterebbe di significato anche la disciplina della liberazione anticipata, che nel caso di condannato all'ergastolo ha come effetto principale quello di anticipare i termini per la concessone dei singoli benefici, rappresentando uno stimolo per il detenuto a partecipare al programma rieducativo: nel caso di ergastolo ostativo si avrebbe, infatti, un reale disincentivo a partecipare al trattamento, non potendo il condannato in alcun modo avvantaggiarsene, neppure per anticipare il momento di fruizione di benefici extramurari. Il rimettente e' ben consapevole che la posizione soggettiva del reclamante nel giudizio principale e' quella di un «intraneo ad un gruppo criminale organizzato ex art. 416-bis cod. pen.», autore di omicidi volti a consentirne la sopravvivenza e agevolarne gli scopi illeciti, e che, dunque, si tratta di un soggetto per il quale «e' particolarmente rilevante l'eventuale collaborazione con la giustizia che, secondo regole di esperienza trasfuse in una costante giurisprudenza», di legittimita' e costituzionale, costituisce «la piu' forte prova della rescissione del vincolo associativo e dunque del venir meno della pericolosita' sociale dell'interessato». Ritiene, tuttavia, che, anche in tal caso, nella peculiare fase dell'esecuzione penale, la preclusione assoluta alla concessione di un beneficio penitenziario, in assenza di una condotta collaborativa, si ponga in contrasto con gli artt. 3 e 27 Cost., poiche' impedisce «il vaglio di altri elementi che nel caso concreto potrebbero condurre ugualmente ad un giudizio di cessata pericolosita' sociale e di meritevolezza dell'invocato beneficio», secondo un giudizio individualizzato e costantemente attualizzato, nel rispetto dei principi di umanizzazione e funzione rieducativa delle pene. Secondo il collegio rimettente, dalla stessa giurisprudenza costituzionale immediatamente successiva all'introduzione dell'assoluta ostativita' di cui all'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. (sono richiamate le sentenze n. 137 del 1999, n. 445 del 1997 e n. 504 del 1995), emergerebbe la «consapevolezza» che l'opzione utilizzata dal legislatore, «espressione di una scelta di politica criminale», abbia comportato una «rilevante compressione della finalita' rieducativa della pena», con una tendenza alla configurazione di «tipi d'autore per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita» (e' richiamata la sentenza n. 306 del 1993). Da allora, pero', la Corte costituzionale avrebbe continuato nell'opera di disvelamento del «volto costituzionale della pena», passando, con riferimento alla finalita' rieducativa della stessa, da una lettura che collocava tale finalita' paritariamente tra le altre, di prevenzione generale e difesa sociale, alla considerazione che la particolare gravita' del reato commesso, con la connessa esigenza di lanciare un robusto segnale di deterrenza nei confronti della generalita' dei consociati, non possano, nella fase di esecuzione della pena, «operare in chiave distonica rispetto all'imperativo costituzionale della funzione rieducativa della pena medesima» (e' richiamata, ancora, la sentenza n. 149 del 2018, di cui viene sottolineato, in particolare, il passaggio argomentativo relativo al «principio della non sacrificabilita' della funzione rieducativa sull'altare di ogni altra, pur legittima, funzione della pena»). Per il giudice a quo, risulterebbero «[c]ompatibili con il quadro costituzionale» soltanto valutazioni individualizzate, «che accolgano l'elemento della collaborazione con la giustizia quale segnale eminente della rescissione del vincolo con il contesto criminale organizzato di appartenenza, ma non esclusivo», in modo da garantire alla magistratura di sorveglianza lo spazio per un vaglio «approfondito e globale» del percorso rieducativo eventualmente condotto dal richiedente i benefici penitenziari, alla luce della peculiarita' della fase dell'esecuzione penale, che si sviluppa in un tempo che progressivamente si allontana dal reato e, mediante gli effetti del trattamento penitenziario, consente di «verificare l'evoluzione personologica del condannato a partire dai pur gravissimi fatti commessi», peraltro a notevole distanza temporale da questi ultimi, tenuto conto dei lunghi tempi previsti dal legislatore per un simile riesame. 7.- Anche nel giudizio r.o. n. 135 del 2019 e' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o, in subordine, infondata. L'Avvocatura, oltre a richiamare quanto sostenuto nel proprio atto di intervento nel giudizio r.o. n. 59 del 2019, osserva, per sostenere il difetto di rilevanza della questione, che il condannato non ha mai addotto a sostegno della sua mancata collaborazione con la giustizia nessuna delle ragioni astrattamente ipotizzate nella ordinanza di rimessione come possibili motivazioni del suo silenzio. Anzi, emergerebbe dagli atti richiamati anche dal giudice rimettente che il condannato avrebbe chiesto che la possibile collaborazione venisse dichiarata impossibile o inesigibile, ma che tale richiesta sarebbe stata rigettata con motivata ordinanza del tribunale di sorveglianza nell'anno 2012. Secondo l'Avvocatura generale, dunque, se pure e' vero che la rimozione della preclusione, attualmente disposta dall'art. 4-bis, ordin. penit., potrebbe consentire al condannato di fruire di un permesso premio, previa valutazione da parte del tribunale di sorveglianza dell'evoluzione della sua personalita', e' vero anche che l'ordinanza non spiega quali siano i motivi «in ordine all'effettiva concreta sussistenza, nella vicenda de qua, di quelle ragioni alternative, rispetto alla collaborazione richiesta dall'art. 4 bis primo comma Ord. Pen., che, ad avviso del Giudice rimettente, non consentirebbero di ritenere la mancata collaborazione idonea a rivelare - di per se' solo - la perdurante pericolosita' sociale del soggetto». Ritiene ancora l'Avvocatura generale che la disciplina censurata riguarderebbe «scelte di opportunita' in materia di politica penitenziaria», su cui la Corte costituzionale non potrebbe incidere, rientrando esse nella discrezionalita' riservata al legislatore, ove non esercitata in modo arbitrario. A questo proposito viene richiamata la sentenza n. 306 del 1993, che avrebbe esplicitato le ragioni di politica criminale che stanno alla base della scelta legislativa, allora ritenuta dalla Corte non in conflitto con l'art. 27 Cost. (vengono citate altresi' le sentenze n. 135 del 2001, n. 68 del 1995 e n. 357 del 1994). L'Avvocatura conclude affermando che la scelta del legislatore di subordinare per i condannati per delitti particolarmente gravi l'accesso ai benefici penitenziari alla collaborazione con la giustizia, quale unica forma di superamento della presunzione di pericolosita' sociale, non appare viziata da irragionevolezza o contrastante con il principio rieducativo della pena, per cui un eventuale intervento della Corte, incidendo su valutazioni affidate alla discrezionalita' del legislatore, «risulterebbe eccedente rispetto ai poteri alla stessa attribuiti». 8.- In data 9 settembre 2019 si e' costituito in giudizio il detenuto P. P., ricorrente nel giudizio a quo, chiedendo l'accoglimento delle questioni prospettate. La parte ripercorre, condividendolo, il percorso motivazionale dell'ordinanza di rimessione ed evidenzia che, successivamente al deposito della stessa, e' stata pronunciata dalla Corte EDU la sentenza 13 giugno 2019, Viola contro Italia, di cui richiama i contenuti e che viene definita «quasi-pilota, considerati i numeri e il dato strutturale dell'ergastolo ostativo». P. P. chiede, inoltre, alla Corte «di valutare l'opportunita' di estendere la sua pronuncia, ex art. 27, L. n. 87 del 1953, all'art. 4 bis, comma 1, o. p., nella parte in cui subordina alla collaborazione utile ed esigibile con la giustizia l'accesso alle misure alternative alla detenzione previste dal capo VI dell'o.p. (e tra esse, la liberazione condizionale, secondo il consolidato diritto vivente)». 8.1.- In data 1° ottobre 2019, la parte ha depositato una memoria in cui evidenzia, in risposta al rilievo dell'Avvocatura generale dello Stato per cui il detenuto non avrebbe esplicitato le ragioni della mancata collaborazione, che il Tribunale di sorveglianza di Perugia, nel sollevare le questioni di legittimita' costituzionale, ha richiamato l'ordinanza della Corte costituzionale n. 117 del 2019 sulla inviolabilita' del diritto di difesa e del diritto al silenzio, sottolineando che non poteva pretendersi dal condannato la violazione del principio nemo tenetur se detegere. Richiama poi il percorso del programma trattamentale tracciato per il detenuto, insieme ai risultati conseguiti, dai quali ultimi il giudice potrebbe valutare, una volta superata la preclusione di legge, l'effettiva persistenza, o non, della pericolosita' del condannato. Contesta, poi, la deduzione dell'Avvocatura generale, secondo cui l'accoglimento della questione di legittimita' costituzionale sollevata determinerebbe una irragionevole disparita' di trattamento tra detenuti condannati all'ergastolo e detenuti condannati, per i medesimi titoli di reato, a pene temporanee, sostenendo che spetterebbe al legislatore individuare gli opportuni rimedi (come gia' riconosciuto dalla sentenza n. 149 del 2018). La parte conclude ritenendo che alcun sostegno potrebbe apportare alla tesi dell'Avvocatura generale dello Stato la (pur da quest'ultima richiamata) sentenza n. 188 del 2019, che, nell'evidenziare la disomogeneita' delle scelte di politica criminale che, nel corso del tempo, hanno ampliato il catalogo delle fattispecie ostative per finalita' di prevenzione generale, si sarebbe limitata a scattare «una fotografia dell'attuale situazione normativa». In ogni caso, evidenzia la parte, vi sarebbe differenza tra «il rimuovere una fattispecie dai delitti di prima fascia (l'art. 630 c.p., ove sia stata ritenuta l'ipotesi gradata [...]) e, invece, rimuovere una preclusione assoluta per l'accesso ai benefici». 9.- Nel giudizio e' intervenuto, con atto del 4 settembre 2019, il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della liberta' personale, assumendo, in primo luogo, di essere titolare di un interesse qualificato, tale da integrare il requisito richiesto dalla giurisprudenza costituzionale per ammettere l'intervento in giudizio. In ordine alla titolarita' di un interesse qualificato, il Garante nazionale rappresenta di essere stato istituito per «la necessita' di rafforzare la tutela dei diritti delle persone detenute» ed e' caratterizzato da «specifici requisiti di autonomia e indipendenza nonche' di competenza riservata nelle discipline concernenti i diritti umani e la loro tutela». Sempre allo stesso scopo, vengono richiamati i compiti espressamente attribuiti dalla legge istitutiva. L'interveniente conclude per l'accoglimento delle questioni di legittimita' costituzionale sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, associandosi alla richiesta, avanzata dalla parte P. P., di estendere la pronuncia di accoglimento all'art. 4-bis, ordin. penit., nella parte in cui subordina alla collaborazione utile ed esigibile con la giustizia l'accesso alle misure alternative alla detenzione. 10.- Nel giudizio e' intervenuta, infine, l'Unione camere penali italiane (UCPI), con atto depositato in data 10 settembre 2019, assumendo di essere titolare di un interesse specifico e qualificato ad intervenire quale soggetto terzo nel giudizio, in quanto associazione rappresentativa dell'avvocatura penale che ha come scopo statutario quello di «promuovere la conoscenza, la diffusione, la concreta realizzazione e la tutela dei valori fondamentali del diritto penale e del giusto processo», nonche' di «vigilare sulla corretta applicazione della legge». L'UCPI ha concluso chiedendo l'accoglimento delle questioni di legittimita' costituzionale sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Perugia. In data 1° ottobre 2019, l'UCPI ha depositato una memoria in cui ha sviluppato gli argomenti in base ai quali ha rivendicato la sussistenza di un interesse specifico e qualificato ad intervenire quale soggetto terzo nel giudizio a quo. Considerato in diritto 1.- Con ordinanza del 20 dicembre 2018 (r.o. n. 59 del 2019), la Corte di cassazione ha sollevato questioni di legittimita' costituzionale, in riferimento agli artt. 3 e 27 della Costituzione, dell'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'), «nella parte in cui esclude che il condannato all'ergastolo, per delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis cod. pen., ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni in esso previste, che non abbia collaborato con la giustizia, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio». Il giudice rimettente ritiene, in primo luogo, che l'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. violi l'art. 3 Cost. sotto il profilo della ragionevolezza. Esso conterrebbe, infatti, una «preclusione assoluta» di accesso ai benefici penitenziari, e in particolare al permesso premio, per il condannato - non collaborante con la giustizia - per reati cosiddetti di "contesto mafioso", che non presuppongono l'affiliazione ad una associazione mafiosa. Tale preclusione impedirebbe al magistrato di sorveglianza qualunque valutazione in concreto sulla pericolosita' del condannato, determinando in limine l'inammissibilita' di ogni richiesta di quest'ultimo di accedere ai benefici penitenziari. La Corte di cassazione opera un richiamo alla giurisprudenza di questa Corte sugli "automatismi" nell'applicazione delle misure cautelari personali, secondo la quale la presunzione di pericolosita', che impone l'applicazione della misura custodiale in carcere, trova giustificazione - sulla base di dati d'esperienza generalizzati, riassumibili nella formula dell'id quod plerumque accidit - solo per l'affiliato all'associazione mafiosa, ma la stessa giustificazione non trova in relazione ai condannati per reati che tale affiliazione non presuppongono. Trasponendo questa giurisprudenza alla fase dell'esecuzione della pena, ritiene, appunto, irragionevole la «preclusione assoluta» contenuta nella disposizione censurata, poiche' essa non consentirebbe di distinguere tra gli affiliati a un'organizzazione mafiosa, da una parte, e, dall'altra, gli autori di delitti commessi avvalendosi delle condizioni di cui all'art. 416-bis del codice penale, ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni previste dalla stessa norma. L'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. non si baserebbe, per questo aspetto, su dati d'esperienza generalizzati, riassumibili nella formula dell'id quod plerumque accidit, e percio' impedirebbe incongruamente al magistrato di sorveglianza di svolgere una valutazione in concreto sulla pericolosita' del condannato che richiede il permesso premio. In secondo luogo, il rimettente ritiene violato l'art. 27, terzo comma, Cost., in quanto la disposizione censurata frustrerebbe, impedendo in radice al condannato l'accesso ai benefici penitenziari, gli obiettivi di risocializzazione evocati dal parametro costituzionale in questione, anche in virtu' dei principi della progressivita' trattamentale e della flessibilita' della pena (sono evocate, in particolare, le sentenze n. 149 del 2018, n. 76 del 2017 e n. 239 del 2014 di questa Corte). Infine - premesse considerazioni critiche sul rilievo attribuito dalla disposizione censurata alla scelta di collaborare con la giustizia quale «prova legale esclusiva di ravvedimento», e soprattutto dell'assenza di pericolosita' sociale del condannato - il giudice a quo ritiene che i dubbi di legittimita' costituzionale sollevati aumentino «sol che si considerino le peculiarita' del permesso premio ex art. 30-ter Ord. Pen.», finalizzato alla cura di interessi affettivi, culturali e di lavoro, la concessione del quale e' legata a valutazioni del tutto specifiche. 2.- Con ordinanza del 28 maggio 2019 (r.o. n. 135 del 2019), il Tribunale di sorveglianza di Perugia ha a sua volta sollevato, in riferimento agli artt. 3 e 27 Cost., questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. «nella parte in cui esclude che il condannato all'ergastolo per delitti commessi al fine di agevolare l'attivita' dell'associazione a delinquere ex art. 416 bis cod. pen. della quale sia stato partecipe, possa essere ammesso alla fruizione di un permesso premio». Chiamato a decidere il reclamo di un detenuto condannato alla pena dell'ergastolo per il delitto di cui all'art. 416-bis cod. pen. e per vari delitti di "contesto mafioso", al quale il magistrato di sorveglianza aveva negato la concessione di un permesso premio in assenza di collaborazione con la giustizia, il rimettente dubita che l'obbligo di collaborare con la giustizia per poter accedere ai benefici previsti dall'ordinamento penitenziario (e, in particolare, ai permessi premio) sia compatibile con gli artt. 3 e 27 Cost., a prescindere dal tipo di reato commesso dal detenuto. Trovandosi al cospetto di un condannato, oltre che per reati di "contesto mafioso", anche per il delitto di associazione mafiosa, il giudice a quo segue un percorso argomentativo diverso da quello dell'ordinanza illustrata in precedenza. Ritiene infatti il Tribunale di sorveglianza di Perugia che, anche nel caso dell'associato ex art. 416-bis cod. pen., nella peculiare fase dell'esecuzione penale, la preclusione assoluta alla concessione di un beneficio penitenziario, in assenza di una condotta collaborativa, collida con i principi costituzionali deducibili dagli artt. 3 e 27 Cost., poiche' impedirebbe il vaglio di elementi che, in concreto, potrebbero condurre ugualmente a un giudizio, individualizzato e attualizzato, di cessata pericolosita' sociale. Osserva che non si comprende per quale motivo sia precluso al giudice di sorveglianza, chiamato a verificare l'evoluzione del detenuto, di verificare, in concreto, «le ragioni che hanno indotto l'interessato a non collaborare, cioe' a mantenere il silenzio», evocato non quale mero atteggiamento, ma nel suo significato di diritto inviolabile a non accusare se' stessi (e' richiamata l'ordinanza n. 117 del 2019 di questa Corte). Analogamente all'ordinanza della Corte di cassazione, il rimettente evidenzia inoltre come la finalita' rieducativa della pena sarebbe vanificata dall'impossibilita' di ottenere permessi premio, i quali costituiscono «uno strumento fondamentale per consentire al condannato di progredire nel senso di responsabilita' e di capacita' di gestirsi nella legalita', e al magistrato di sorveglianza di vagliare i progressi trattamentali compiuti e la capacita' di reinserirsi, per quanto brevemente, nel tessuto sociale» (sono richiamate le sentenze n. 149 del 2018 e n. 403 del 1997 di questa Corte). I permessi premio, ricorda il rimettente, consentono anche «l'esercizio pieno di diritti», tra i quali «il mantenimento o il ristabilimento, dopo anche lungo tempo, delle relazioni con la famiglia». Il Tribunale di sorveglianza di Perugia sottolinea, quindi, con ulteriore richiamo alla sentenza n. 149 del 2018, che la disposizione colliderebbe con l'art. 27 Cost. anche perche' l'impossibilita' di ottenere un qualsiasi beneficio premiale in assenza di collaborazione costituirebbe un disincentivo alla stessa partecipazione del condannato al percorso rieducativo connesso al trattamento penitenziario, con evidente mortificazione degli obiettivi che la norma costituzionale si pone. Infine - anche su questo aspetto distinguendosi dall'ordinanza della Corte di cassazione - il rimettente sottolinea la peculiarita' dell'esecuzione penale rispetto alla fase cautelare: mentre quest'ultima potrebbe infatti tollerare qualche presunzione, la prima, sviluppandosi lungo un arco temporale piu' esteso, richiederebbe una valutazione costante dell'evoluzione personologica del condannato, che tenga conto del trascorrere del tempo e della distanza dal reato commesso. 3.- Sebbene presentino profili di parziale differenziazione nei percorsi argomentativi, le due ordinanze di rimessione censurano la stessa disposizione ed evocano i medesimi parametri costituzionali. I relativi giudizi vanno percio' riuniti, per essere decisi con un'unica pronuncia. 4.- In via preliminare, va confermata l'ordinanza dibattimentale allegata alla presente sentenza, che ha dichiarato inammissibili tutti gli interventi spiegati da soggetti diversi dalle parti dei giudizi principali. 5.- Sempre in via preliminare, devono essere correttamente definiti il thema decidendum e i termini delle questioni di legittimita' costituzionale portate all'attenzione di questa Corte dalle ordinanze di rimessione illustrate. 5.1.- In primo luogo, nel giudizio r.o. n. 59 del 2019, la parte S. C. ha prospettato, nell'atto di costituzione, anche la violazione dell'art. 117, primo comma, Cost., in relazione all'art. 3 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell'uomo e delle liberta' fondamentali (CEDU), firmata a Roma il 4 novembre 1950, ratificata e resa esecutiva con legge 4 agosto 1955, n. 848. Trattasi, pero', di censura che il collegio rimettente non ha inteso proporre nell'atto di promovimento. Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, non possono essere presi in considerazione ulteriori profili di illegittimita' costituzionale dedotti dalle parti oltre i limiti dell'ordinanza di rimessione; e cio', sia che siano stati eccepiti, ma non fatti propri dal giudice a quo, sia che siano diretti ad ampliare o modificare successivamente il thema decidendum, una volta che le parti si siano costituite nel giudizio incidentale di costituzionalita' (ex multis, da ultimo, sentenze n. 226, n. 206, n. 141, n. 96 e n. 78 del 2019). Di tale censura questa Corte non deve percio' occuparsi. 5.2.- In secondo luogo, le questioni di legittimita' costituzionale sollevate non riguardano la legittimita' costituzionale della disciplina relativa al cosiddetto ergastolo ostativo, sulla cui compatibilita' con la CEDU si e', di recente, soffermata la Corte europea dei diritti dell'uomo, sentenza 13 giugno 2019, Viola contro Italia. Questo sarebbe stato l'oggetto delle presenti questioni se le ordinanze di rimessione avessero censurato - oltre che l'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. - anche la previsione contenuta nell'art. 2, comma 2, del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalita' organizzata e di trasparenza e buon andamento dell'attivita' amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203, che, richiamando l'art. 176 cod. pen., non consente di concedere la liberazione condizionale al condannato all'ergastolo che non collabora con la giustizia e che abbia gia' scontato ventisei anni effettivi di carcere, cosi' trasformando la pena perpetua de iure in una pena perpetua anche de facto. Le questioni di legittimita' costituzionale ora in esame attengono, invece, non alla condizione di chi ha subito una condanna a una determinata pena, bensi' a quella di colui che ha subito condanna (all'ergastolo, in entrambi i giudizi a quibus) per reati cosiddetti ostativi, in specie i delitti di associazione di tipo mafioso ai sensi dell'art. 416-bis cod. pen., e quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo, ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni in esso previste. Infatti, e' portato all'attenzione di questa Corte l'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., ai sensi del quale la condanna per i delitti che esso elenca - si tratti di condanna a pena perpetua oppure a pena temporanea - impedisce l'accesso ai benefici penitenziari, e in special modo al permesso premio, in assenza di collaborazione con la giustizia ai sensi dell'art. 58-ter ordin. penit. (secondo cui l'utile collaborazione, anche dopo la condanna, consiste nell'essersi adoperati per evitare che l'attivita' delittuosa sia portata a conseguenze ulteriori ovvero nell'aiutare concretamente l'autorita' di polizia o l'autorita' giudiziaria nella raccolta di elementi decisivi per la ricostruzione dei fatti e per l'individuazione o la cattura degli autori dei reati). I giudici a quibus, per parte loro, hanno "costruito" le questioni di legittimita' costituzionale modellandole sulle fattispecie portate alla loro attenzione, nelle quali la richiesta di accesso al permesso premio riguardava due condannati alla pena dell'ergastolo, per i delitti prima specificati. Ma questa Corte non deve risolvere tali specifici giudizi, bensi' pronunciarsi sulla disposizione di legge censurata, decidendo questioni di legittimita' costituzionale rilevanti in quei giudizi. Tali questioni riguardano percio' l'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., in quanto recante una disciplina da applicarsi a tutti i condannati, a pena perpetua o temporanea, per i reati di partecipazione ad associazione mafiosa e di "contesto mafioso". Per tutti costoro, infatti, la disposizione censurata dai rimettenti richiede la collaborazione con la giustizia quale condizione per l'accesso alla valutazione, in concreto, circa la concedibilita' dei benefici penitenziari. 5.3.- Infine, nei processi a quibus si fa questione della sola possibilita' di concessione, ai detenuti, di un permesso premio, non di altri benefici. Coerentemente con tale circostanza, i dispositivi di entrambe le ordinanze di rimessione precisano che l'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. e' censurato nella sola parte in cui esclude che i condannati per i reati descritti, che non collaborano con la giustizia, possano essere ammessi alla fruizione dello specifico beneficio di cui all'art. 30-ter ordin. penit. Del resto, non solo i rimettenti, come si diceva, limitano le proprie censure alla impossibilita' - determinata dall'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. - di accedere al permesso premio, ad esclusione, percio', di qualunque riferimento agli altri benefici penitenziari; ma e' lo stesso art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. ad elencare distintamente i benefici che non possono essere concessi ai detenuti per determinati reati (nonche' agli internati, la cui posizione non e' in discussione nel presente giudizio) che non collaborano con la giustizia: sicche' unicamente del permesso premio si fa qui questione. 5.4.- Entrambe le ordinanze, alla luce degli artt. 3 e 27 Cost., censurano l'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., in quanto introduce una presunzione assoluta di mancata rescissione dei legami con la criminalita' organizzata a carico del condannato - per i reati precisati - che non collabori con la giustizia ai sensi dell'art. 58-ter del medesimo ordin. penit. Proprio in virtu' di tale presunzione, assoluta in quanto non superabile se non dalla collaborazione stessa, la disposizione attualmente vigente fa si' che le richieste di un tale detenuto di accedere allo specifico beneficio del permesso premio debbano dichiararsi in limine inammissibili, senza poter essere oggetto di un vaglio in concreto da parte del magistrato di sorveglianza (in disparte i casi di collaborazione impossibile o irrilevante). Se tutto cio' sia conforme ai parametri costituzionali evocati e', in definitiva, il thema decidendum posto dalle presenti questioni di legittimita' costituzionale. 6.- Ancora in via preliminare, deve essere vagliata l'eccezione di inammissibilita' per difetto di rilevanza prospettata dall'Avvocatura generale dello Stato con specifico riferimento al giudizio instaurato dall'ordinanza (r.o. n. 135 del 2019) del Tribunale di sorveglianza di Perugia. Lamenta, in particolare, l'Avvocatura dello Stato che il rimettente non avrebbe indicato le specifiche ragioni che motivano la scelta del detenuto di non collaborare con la giustizia. Il giudice a quo, in effetti, pur dando atto che la condotta collaborativa costituisce manifestazione del distacco del detenuto dal gruppo criminale di riferimento, ritiene che non possa per cio' solo dirsi che tale condotta «sia davvero l'unica "prova legale esclusiva di ravvedimento", perche' sono plurime le ragioni che possono indurre un condannato a non collaborare». Tra queste ragioni enumera, trattandone in astratto e in via di mera ipotesi: «il rischio per la propria incolumita' e per quella dei propri congiunti, il rifiuto morale di rendere dichiarazioni accusatorie nei confronti di persone a lui legate da vincoli affettivi o amicali, o il ripudio di una collaborazione che rischi di apparire strumentale alla concessione di un beneficio». L'Avvocatura lamenta proprio il carattere ipotetico e astratto di tali ragioni, sottolineando come il reclamante nel giudizio a quo non abbia mai addotto alcuna di queste motivazioni per giustificare la propria mancata collaborazione. Dal che deriverebbe, appunto, il difetto di rilevanza delle questioni sollevate, poiche', anche nel caso di una pronuncia di accoglimento, una tale decisione non spiegherebbe effetti nel processo a quo. L'eccezione non e' fondata. Sostiene, invero, il rimettente che solo se questa Corte accogliesse le questioni - "smontando" il carattere assoluto della presunzione di pericolosita' del detenuto che non collabora, e permettendo cosi' che la prova dell'avvenuto distacco dal sodalizio criminale sia fornita altrimenti - il magistrato di sorveglianza, investito della richiesta di accesso al beneficio, potrebbe allora, in concreto, verificare le vere ragioni che hanno condotto il detenuto alla scelta di non collaborare. Questa affermazione si pone, in effetti, nel solco della giurisprudenza costituzionale in tema di rilevanza, ove (ex plurimis, sentenze n. 20 del 2016, n. 46 e n. 5 del 2014, n. 294 del 2011) e' ricorrente l'affermazione secondo cui, per l'ammissibilita' delle questioni di legittimita' costituzionale sollevate in via incidentale, e' sufficiente che la disposizione censurata sia applicabile nel giudizio a quo, senza che rilevino gli effetti di una eventuale pronuncia di illegittimita' costituzionale per le parti in causa (da ultimo, sentenza n. 170 del 2019). Del resto, anche nella prospettiva di un piu' diffuso accesso al sindacato di costituzionalita' (messa in risalto, tra le pronunce piu' recenti, dalla sentenza n. 77 del 2018) e di una piu' efficace garanzia della conformita' a Costituzione della legislazione (profilo valorizzato, da ultimo, nella sentenza n. 174 del 2019), il presupposto della rilevanza non si identifica con l'utilita' concreta di cui le parti in causa potrebbero beneficiare a seguito della decisione (sentenza n. 20 del 2018). Soprattutto, con specifico riferimento alle presenti questioni, va considerato che, secondo la disposizione censurata, il giudice e' chiamato a fare applicazione di una disciplina che predetermina l'esito del processo, nel senso dell'inammissibilita' della richiesta di accesso al beneficio del permesso premio da parte del condannato non collaborante. Invece, nell'ipotesi di accoglimento delle sollevate questioni, il giudice a quo dovrebbe decidere secondo una diversa regola di giudizio, attingendola dalla disciplina di riferimento, privata della norma in ipotesi dichiarata incostituzionale. E quand'anche l'esito del giudizio a quo sia il medesimo - la non concessione del permesso premio - la pronuncia di questa Corte influirebbe di certo sul percorso argomentativo che il rimettente dovrebbe a questo punto seguire per decidere sulla richiesta del detenuto (tra le molte, sentenza n. 28 del 2010, nonche', con riferimento alle questioni relative alle cosiddette norme penali di favore, sentenze n. 394 del 2006, n. 161 del 2004 e n. 148 del 1983). 7.- Venendo al merito, questa Corte ritiene opportuno scrutinare in primo luogo le questioni sollevate dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, in quanto, riferendosi alla posizione del condannato sia per partecipazione all'associazione di cui all'art. 416-bis cod. pen., sia per reati di "contesto mafioso", la decisione su di esse potrebbe assorbire quelle sollevate dalla Corte di cassazione esclusivamente in riferimento al condannato per questi ultimi delitti. Le questioni sono fondate, nei termini di seguito precisati. 7.1.- «Sono fin troppo note le ragioni di politica criminale che indussero il legislatore dapprima ad introdurre e poi a modificare, secondo una linea di progressivo inasprimento, l'art. 4-bis della legge 26 luglio 1975, n. 354» (sentenza n. 68 del 1995), riversando cosi' tali ragioni all'interno dell'ordinamento penitenziario e dell'esecuzione della pena. Nella prima versione - introdotta dall'art. 1 del d.l. n. 152 del 1991, come convertito - l'art. 4-bis ordin. penit. prevedeva due distinte "fasce" di condannati, a seconda della riconducibilita', piu' o meno diretta, dei titoli di reato a fatti di criminalita' organizzata o eversiva. Per i reati "di prima fascia" - comprendenti l'associazione di tipo mafioso, i relativi "delitti-satellite", il sequestro di persona a scopo di estorsione e l'associazione finalizzata al narcotraffico - l'accesso a taluni benefici previsti dall'ordinamento penitenziario era possibile, alla stregua di un parametro probatorio particolarmente elevato, solo se fossero stati acquisiti «elementi tali da escludere l'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata o eversiva». Per i reati "di seconda fascia" (omicidio, rapina ed estorsione aggravate, nonche' produzione e traffico di ingenti quantita' di stupefacenti: «delitti, questi, per i quali le connessioni con la criminalita' organizzata erano, nella valutazione del legislatore, meramente eventuali», come affermato nella sentenza n. 149 del 2018) si richiedeva - in termini inversi, dal punto di vista probatorio - l'insussistenza di elementi tali da far ritenere attuali detti collegamenti. Accanto a questa distinzione di fondo, singole previsioni stabilivano, quale ulteriore requisito per l'ammissione a specifici benefici (tra i quali il permesso premio), che i condannati avessero espiato un periodo minimo di pena piu' elevato dell'ordinario, a meno che non si trattasse di persone che avevano collaborato con la giustizia, secondo la nuova previsione dell'art. 58-ter ordin. penit., che lo stesso d.l. n. 152 del 1991, come convertito, aveva introdotto nella legge penitenziaria del 1975. In questa prima fase, dunque, il trattamento di maggior rigore per i condannati per reati di criminalita' organizzata veniva realizzato su due piani, fra loro complementari. Come spiega la sentenza n. 68 del 1995: da un lato «si stabiliva, quale presupposto generale per l'applicabilita' di alcuni istituti di favore, la necessita' di accertare (alla stregua di una graduazione probatoria differenziata a seconda delle "fasce" di condannati) l'assenza di collegamenti con la criminalita' organizzata o eversiva; dall'altro, si postulava, attraverso l'introduzione o l'innalzamento dei livelli minimi di pena gia' espiata, un requisito specifico per l'ammissione ai singoli benefici, fondato sulla necessita' di verificare per un tempo piu' adeguato l'effettivo percorso di risocializzazione di quanti si fossero macchiati di delitti iscrivibili nell'area della criminalita' organizzata o eversiva. Requisito, a sua volta, dal quale il legislatore riteneva di poter prescindere in tutti i casi in cui fosse lo stesso condannato ad offrire prova dell'intervenuto distacco dal circuito criminale attraverso la propria condotta collaborativa». Subito dopo la strage di Capaci del 23 maggio 1992, si produce un evidente mutamento di prospettiva, nettamente ispirato «a finalita' di prevenzione generale e di tutela della sicurezza collettiva» (sentenza n. 306 del 1993). L'art. 15 del decreto-legge 8 giugno 1992, n. 306 (Modifiche urgenti al nuovo codice di procedura penale e provvedimenti di contrasto alla criminalita' mafiosa), convertito, con modificazioni, nella legge 7 agosto 1992, n. 356, apporta decisive modifiche all'art. 4-bis della legge n. 354 del 1975. Per quel che piu' direttamente ora interessa, nei confronti dei condannati per i reati appartenenti alla prima "fascia", si stabilisce che l'assegnazione al lavoro all'esterno, i permessi premio e le misure alternative alla detenzione, ad eccezione della liberazione anticipata, possono essere concessi solo nei casi di collaborazione con la giustizia (fatte salve alcune ipotesi per le quali i benefici sono applicabili anche se la collaborazione offerta risulti oggettivamente impossibile o irrilevante e sempre che sussistano, in questi casi, elementi tali da escludere in maniera certa l'attualita' dei collegamenti con la criminalita' organizzata). Restano sullo sfondo i diversi parametri probatori, alla cui stregua condurre l'accertamento circa la permanenza, nel condannato che aspira ai benefici penitenziari, di legami con la criminalita' organizzata; e acquisisce invece risalto esclusivo una condotta, quella della collaborazione con la giustizia, assunta come la sola idonea a dimostrare, per facta concludentia, l'intervenuta rescissione di quei collegamenti. Ancora la sentenza n. 68 del 1995: si passa «da un sistema fondato su di un regime di prova rafforzata per accertare l'inesistenza di una condizione negativa (assenza dei collegamenti con la criminalita' organizzata), ad un modello che introduce una preclusione per certi condannati, rimuovibile soltanto attraverso una condotta qualificata (la collaborazione)». Come mette in luce la sentenza n. 239 del 2014, la nuova disciplina poggia insomma sulla presunzione legislativa che la commissione di determinati delitti dimostri l'appartenenza dell'autore alla criminalita' organizzata, o il suo collegamento con la stessa, e costituisca, quindi, un indice di pericolosita' sociale incompatibile con l'ammissione del condannato ai benefici penitenziari extramurari. La scelta di collaborare con la giustizia viene correlativamente assunta come la sola idonea a rimuovere l'ostacolo alla concessione dei benefici indicati, in ragione della sua valenza "rescissoria" del legame con il sodalizio criminale. Si coniuga a cio' - assumendo, in fatto, un rilievo preminente - l'obiettivo di incentivare, per ragioni investigative e di politica criminale generale, la collaborazione con la giustizia dei soggetti appartenenti o "contigui" ad associazioni criminose, che appare come strumento essenziale per la lotta alla criminalita' organizzata. Per converso, la mancata collaborazione con la giustizia fonda la presunzione assoluta che i collegamenti con l'organizzazione criminale siano mantenuti ed attuali, ricavandosene la permanente pericolosita' del condannato, con conseguente inaccessibilita' ai benefici penitenziari normalmente disponibili agli altri detenuti. Infine, recependo le indicazioni di questa Corte (sentenze n. 68 del 1995, n. 357 del 1994 e n. 306 del 1993), il comma 1-bis dell'art. 4-bis ordin. penit. estende la possibilita' di accesso ai benefici ai casi in cui un'utile collaborazione con la giustizia risulti inesigibile, per la limitata partecipazione del condannato al fatto criminoso accertata nella sentenza di condanna, ovvero impossibile, per l'integrale accertamento dei fatti e delle responsabilita', operato con la sentenza irrevocabile; nonche' ai casi in cui la collaborazione offerta dal condannato si riveli «oggettivamente irrilevante», sempre che, in questa evenienza, sia stata applicata al condannato taluna delle circostanze attenuanti di cui agli artt. 62, numero 6), 114 o 116 cod. pen. In tutte le ipotesi dianzi indicate occorre, peraltro, che «siano stati acquisiti elementi tali da escludere l'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata, terroristica o eversiva». 7.2.- La presunzione dell'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata, cosi' introdotta nell'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. e' assoluta, nel senso che non puo' essere superata da altro se non dalla collaborazione stessa. Quest'ultima, per i condannati per i delitti ricordati, e' l'unico elemento che puo' consentire l'accesso ai benefici previsti dall'ordinamento penitenziario. E' cosi' introdotto un trattamento distinto rispetto a quello che vale per tutti gli altri detenuti. In questi specifici termini deve essere precisata la precedente giurisprudenza di questa Corte, che ha sostenuto non potersi qualificare questa disciplina come «"costrizione" alla delazione», poiche' spetta al detenuto adottare o meno quel comportamento (sentenza n. 39 del 1994). A ben guardare, l'inaccessibilita' ai benefici penitenziari, per il detenuto che non collabora, non e' un vero automatismo, poiche' e' lo stesso detenuto, scegliendo di collaborare, a poter spezzare la consequenzialita' della disposizione censurata. L'inaccessibilita' ai benefici penitenziari e' insomma una preclusione che non discende automaticamente dall'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. «ma deriva dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni di farlo» (sentenza n. 135 del 2003). Purtuttavia, la presunzione della mancata rescissione dei collegamenti con la criminalita' organizzata, che incombe sul detenuto non collaborante, e' assoluta, perche' non puo' essere superata da altro, se non dalla collaborazione stessa. E, come si chiarira', e' proprio questo carattere assoluto a risultare in contrasto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. 7.3.- Nella sentenza n. 306 del 1993, che questa Corte pronuncio' a breve distanza dall'entrata in vigore della disciplina introdotta dal d.l. n. 306 del 1992, come convertito, si riconosce che il requisito della collaborazione, quale condizione per l'accesso ai benefici penitenziari, «e' essenzialmente espressione di una scelta di politica criminale», adottata per finalita' di prevenzione generale e di sicurezza collettiva. Sottolineando che la scelta legislativa costituiva risposta alla necessita' di contrastare una criminalita' organizzata «aggressiva e diffusa», la sentenza non condivide la tesi, sostenuta nella relazione alla legge di conversione del d.l. n. 306 del 1992, secondo cui la decisione di collaborare e' la sola ad esprimere con certezza la «volonta' di emenda» del condannato, sicche' essa assumerebbe una valenza anche "penitenziaria", non estranea al principio della funzione rieducativa della pena («e' solo la scelta collaborativa ad esprimere con certezza quella volonta' di emenda che l'intero ordinamento penale deve tendere a realizzare»: cosi' la relazione presentata in Senato in sede di conversione del d.l. n. 306 del 1992 - atto n. 328). Su questo profilo, la sentenza sottolineo' che l'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. non puo' essere presentato sotto le vesti di una disposizione di natura "penitenziaria", giacche' la collaborazione con la giustizia non necessariamente e' sintomo di credibile ravvedimento, cosi' come il suo contrario (la mancata collaborazione) non puo' assurgere a insuperabile indice legale di mancato ravvedimento o "emenda", secondo una lettura "correzionalistica" della rieducazione: «non puo' non convenirsi con i giudici a quibus quando sostengono che la condotta di collaborazione ben puo' essere frutto di mere valutazioni utilitaristiche in vista dei vantaggi che la legge vi connette, e non anche segno di effettiva risocializzazione». Sono argomenti, questi ultimi, considerati, sia pur con riferimento a un diverso beneficio, dalla Corte EDU nella gia' ricordata sentenza Viola, nelle parti espressamente dedicate alla collaborazione con la giustizia, ove viene sottoposta a critica una disposizione che assume iuris et de iure la permanenza di collegamenti con associazioni criminali del non collaborante ed eleva aprioristicamente la collaborazione al rango di sintomo eloquente di abbandono della scelta di vita originaria, quando in realta' essa potrebbe essere dovuta a molte altre ragioni, non sempre commendevoli. Quel che piu' conta, la sentenza n. 306 del 1993 - pur dichiarando, tra l'altro, non fondate le questioni allora sollevate sull'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit, in relazione all'art. 27, terzo comma, Cost. - osservo' che inibire l'accesso ai benefici penitenziari ai condannati per determinati gravi reati, i quali non collaborino con la giustizia, comporta una «rilevante compressione» della finalita' rieducativa della pena: «la tipizzazione per titoli di reato non appare consona ai principi di proporzione e di individualizzazione della pena che caratterizzano il trattamento penitenziario, mentre appare preoccupante la tendenza alla configurazione normativa di "tipi d'autore", per i quali la rieducazione non sarebbe possibile o potrebbe non essere perseguita» in caso di mancata collaborazione. 8.- Queste ultime valutazioni vanno sviluppate, e conducono oggi all'accoglimento delle questioni sollevate, nei termini che ora si chiariranno. Non e' la presunzione in se' stessa a risultare costituzionalmente illegittima. Non e' infatti irragionevole presumere che il condannato che non collabora mantenga vivi i legami con l'organizzazione criminale di originaria appartenenza, purche' si preveda che tale presunzione sia relativa e non gia' assoluta e quindi possa essere vinta da prova contraria. Mentre una disciplina improntata al carattere relativo della presunzione si mantiene entro i limiti di una scelta legislativa costituzionalmente compatibile con gli obbiettivi di prevenzione speciale e con gli imperativi di risocializzazione insiti nella pena, non regge, invece, il confronto con gli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. - agli specifici e limitati fini della fattispecie in questione - una disciplina che assegni carattere assoluto alla presunzione di attualita' dei collegamenti con la criminalita' organizzata. Cio' sotto tre profili, distinti ma complementari. In un primo senso, perche' all'assolutezza della presunzione sono sottese esigenze investigative, di politica criminale e di sicurezza collettiva che incidono sull'ordinario svolgersi dell'esecuzione della pena, con conseguenze afflittive ulteriori a carico del detenuto non collaborante. In un secondo senso, perche' tale assolutezza impedisce di valutare il percorso carcerario del condannato, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero del reo alla vita sociale, ai sensi dell'art. 27, terzo comma, Cost. In un terzo senso, perche' l'assolutezza della presunzione si basa su una generalizzazione, che puo' essere invece contraddetta, a determinate e rigorose condizioni, dalla formulazione di allegazioni contrarie che ne smentiscono il presupposto, e che devono poter essere oggetto di specifica e individualizzante valutazione da parte della magistratura di sorveglianza. 8.1.- Dal primo punto di vista, il congegno normativo inserito nell'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. dal d.l. n. 306 del 1992, come convertito, e' espressione di una trasparente opzione di politica investigativa e criminale. In quanto tale, essa immette nel percorso carcerario del condannato - attraverso il decisivo rilievo attribuito alla collaborazione con la giustizia anche dopo la condanna - elementi estranei ai caratteri tipici dell'esecuzione della pena. La disposizione in esame, infatti, prefigura una sorta di scambio tra informazioni utili a fini investigativi e conseguente possibilita' per il detenuto di accedere al normale percorso di trattamento penitenziario. Per i condannati per i reati elencati nella disposizione censurata, infatti, e' costruita una disciplina speciale (sentenza n. 239 del 2014), ben diversa da quella prevista per la generalita' degli altri detenuti. Essi possono accedere ai benefici previsti dall'ordinamento penitenziario solo qualora collaborino con la giustizia, ai sensi dell'art. 58-ter ordin. penit. Se tale collaborazione non assicurino, ai benefici in questione non potranno accedere mai, neppure dopo aver scontato le frazioni di pena richieste quale ordinario presupposto per l'ammissione a ciascun singolo beneficio (previste per il permesso premio dall'art 30-ter, comma 4, ordin. penit.). E se invece collaborino secondo le modalita' contemplate dal citato art. 58-ter, a tali benefici potranno accedere senza dover previamente scontare la frazione di pena ordinariamente prevista, in forza della soluzione interpretativa gia' individuata, sia da questa Corte (sentenze n. 174 del 2018 e n. 504 del 1995), sia dalla giurisprudenza di legittimita' (Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 3 febbraio 2016, n. 37578 e 12 luglio 2006, n. 30434). La disciplina in esame, quindi, a seconda della scelta compiuta dal soggetto, aggrava il trattamento carcerario del condannato non collaborante rispetto a quello previsto per i detenuti per reati non ostativi, oppure, al contrario, lo agevola, giacche', in presenza di collaborazione, introduce a favore del detenuto elementi premiali rispetto alla disciplina ordinaria. Ma, alla stregua dei principi di ragionevolezza, di proporzionalita' della pena e della sua tendenziale funzione rieducativa, un conto e' l'attribuzione di valenza premiale al comportamento di colui che, anche dopo la condanna, presti una collaborazione utile ed efficace, ben altro e' l'inflizione di un trattamento peggiorativo al detenuto non collaborante, presunto iuris et de iure quale persona radicata nel crimine organizzato e percio' socialmente pericolosa. Il valore "premiale" della collaborazione - che rende immediatamente accessibili tutti i benefici, senza necessita' di raggiungere le soglie di pena previste ordinariamente - si giustifica sia considerando che essa e' ragionevole indice del presumibile abbandono dell'originario sodalizio criminale, sia in virtu' della determinante utilita' che ha mostrato sul piano del contrasto alle organizzazioni mafiose. Del resto, nel piu' ampio contesto del comportamento intramurale, la collaborazione assume rilievo, oltre che come dimostrazione della rottura con il circuito criminale, anche ai fini della complessiva valutazione dell'iter rieducativo. Invece, alla luce degli artt. 3 e 27 Cost., l'assenza di collaborazione con la giustizia dopo la condanna non puo' tradursi in un aggravamento delle modalita' di esecuzione della pena, in conseguenza del fatto che il detenuto esercita la facolta' di non prestare partecipazione attiva a una finalita' di politica criminale e investigativa dello Stato. Come configurata dall'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., la mancata collaborazione infligge ulteriori conseguenze negative, che non hanno diretta connessione con il reato commesso, ma derivano unicamente, appunto, dal rifiuto del detenuto di prestare la collaborazione in parola, nella sostanza aggravando le condizioni di esecuzione della pena gia' inflittagli al termine del processo. In disparte ogni considerazione - su cui insiste il rimettente - circa il rilievo del diritto al silenzio nella fase di esecuzione della pena (la giurisprudenza costituzionale ha affermato che esso e' corollario essenziale dell'inviolabilita' del diritto di difesa riconosciuto dall'art. 24 Cost. e «si esplica in ogni procedimento secondo le regole proprie di questo»: sentenza n. 165 del 2008; ordinanze n. 282 del 2008 e n. 33 del 2002), questa Corte non puo' esimersi dal rilevare che l'attuale formulazione dell'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., anche in nome di prevalenti esigenze di carattere investigativo e di politica criminale, opera una deformante trasfigurazione della liberta' di non collaborare ai sensi dell'art. 58-ter ordin. penit., che certo l'ordinamento penitenziario non puo' disconoscere ad alcun detenuto. Garantita nel processo nella forma di vero e proprio diritto, espressione del principio nemo tenetur se detegere, la liberta' di non collaborare, in fase d'esecuzione, si trasforma infatti - quale condizione per consentire al detenuto il possibile accesso all'ordinario regime dei benefici penitenziari - in un gravoso onere di collaborazione che non solo richiede la denuncia a carico di terzi (carceratus tenetur alios detegere), ma rischia altresi' di determinare autoincriminazioni, anche per fatti non ancora giudicati. Cio' non risulta conforme agli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost. 8.2.- In secondo luogo, contrasta con l'art. 27, terzo comma, Cost. la circostanza che la richiesta di ottenere il permesso premio debba essere in limine dichiarata inammissibile, senza che al magistrato di sorveglianza sia consentita una valutazione in concreto della condizione del detenuto. Il permesso premio, almeno per le pene medio-lunghe, rappresenta un peculiare istituto del complessivo programma di trattamento. Esso consente «al detenuto, a fini rieducativi, i primi spazi di liberta'» (sentenza n. 188 del 1990), mostrando percio' una «funzione "pedagogico-propulsiva"» (sentenza n. 504 del 1995, poi sentenze n. 445 del 1997 e n. 257 del 2006), e permette l'osservazione da parte degli operatori penitenziari degli effetti sul condannato del temporaneo ritorno in liberta' (sentenza n. 227 del 1995). La giurisprudenza di questa Corte (in particolare sentenza n. 149 del 2018) ha del resto indicato come criterio costituzionalmente vincolante quello che richiede una valutazione individualizzata e caso per caso nella materia dei benefici penitenziari (in proposito anche sentenza n. 436 del 1999), sottolineando che essa e' particolarmente importante al cospetto di presunzioni di maggiore pericolosita' legate al titolo del reato commesso (sentenza n. 90 del 2017). Ove non sia consentito il ricorso a criteri individualizzanti, l'opzione repressiva finisce per relegare nell'ombra il profilo rieducativo (sentenza n. 257 del 2006), in contrasto con i principi di proporzionalita' e individualizzazione della pena (sentenza n. 255 del 2006). La presunzione assoluta in esame impedisce proprio tale verifica secondo criteri individualizzanti, non consentendo nemmeno - come sottolinea il Tribunale di sorveglianza di Perugia - di valutare le ragioni che hanno indotto il detenuto a mantenere il silenzio. In definitiva, l'inammissibilita' in limine della richiesta del permesso premio puo' arrestare sul nascere il percorso risocializzante, frustrando la stessa volonta' del detenuto di progredire su quella strada. Cio' non e' consentito dall'art. 27, terzo comma, Cost. 8.3.- In terzo luogo, la giurisprudenza di questa Corte sottolinea che «le presunzioni assolute, specie quando limitano un diritto fondamentale della persona, violano il principio di uguaglianza, se sono arbitrarie e irrazionali, cioe' se non rispondono a dati di esperienza generalizzati, riassunti nella formula dell'id quod plerumque accidit» (sentenza n. 268 del 2016; in precedenza, sentenze n. 185 del 2015, n. 232, n. 213 e n. 57 del 2013, n. 291, n. 265, n. 139 del 2010, n. 41 del 1999 e n. 139 del 1982). In particolare, l'irragionevolezza di una presunzione assoluta si coglie tutte le volte in cui sia possibile formulare ipotesi di accadimenti reali contrari alla generalizzazione posta a base della presunzione stessa. Nel presente caso, la generalizzazione che fonda la presunzione assoluta consiste in cio': se il condannato per il delitto di associazione mafiosa e/o per delitti di "contesto mafioso" non collabora con la giustizia, la mancata collaborazione e' indice (non superabile se non dalla collaborazione stessa) della circostanza per cui egli non ha spezzato i legami che lo tengono avvinto all'organizzazione criminale di riferimento. Sono ben note le ragioni di una tale generalizzazione. L'appartenenza ad una associazione di stampo mafioso implica un'adesione stabile ad un sodalizio criminoso, di norma fortemente radicato nel territorio, caratterizzato da una fitta rete di collegamenti personali, dotato di particolare forza intimidatrice e capace di protrarsi nel tempo (in materia cautelare, sentenze n. 48 del 2015, n. 213 del 2013, n. 57 del 2013, n. 164 e n. 231 del 2011; ordinanza n. 136 del 2017). Tali ragioni sono di notevolissima importanza e non si sono affatto affievolite in progresso di tempo. Nonostante cio', nella fase cautelare, in presenza di gravi indizi di colpevolezza in ordine al delitto di cui all'art. 416-bis cod. pen., la presunzione di sussistenza di esigenze cautelari e' relativa, perche' puo' essere vinta dall'acquisizione di elementi dai quali risulti che tali esigenze non sussistono (art. 275, comma 3, cod. proc. pen.). Se tali esigenze tuttavia sussistono, esse si presumono - con presunzione questa volta iuris et de iure - non fronteggiabili con misure diverse dalla custodia in carcere (sentenza n. 265 del 2010, ordinanza n. 136 del 2017), non solo per le peculiari connotazioni del sodalizio criminale, ma anche perche' la valutazione e' svolta quasi nell'immediatezza del fatto o, comunque, in un momento non lontano dalla sua supposta commissione. Nella fase di esecuzione della pena, assume invece ruolo centrale il trascorrere del tempo, che puo' comportare trasformazioni rilevanti, sia della personalita' del detenuto, sia del contesto esterno al carcere, ed e' questa situazione che induce a riconoscere carattere relativo alla presunzione di pericolosita' posta a base del divieto di concessione del permesso premio. E' certo possibile che il vincolo associativo permanga inalterato anche a distanza di tempo, per le ricordate caratteristiche del sodalizio criminale in questione, finche' il soggetto non compia una scelta di radicale distacco, quale quella che - in particolare, ma non esclusivamente, secondo la ratio stessa di questa pronuncia - e' espressa dalla collaborazione con la giustizia. Peraltro, per i casi di dimostrati persistenti legami del detenuto con il sodalizio criminale originario, l'ordinamento penitenziario appresta l'apposito regime di cui all'art. 41-bis, che non e' ovviamente qui in discussione e la cui applicazione ai singoli detenuti presuppone proprio l'attualita' dei loro collegamenti con organizzazioni criminali (sentenze n. 186 del 2018 e n. 122 del 2017). Ma, in disparte simili vicende, il decorso del tempo della esecuzione della pena esige una valutazione in concreto, che consideri l'evoluzione della personalita' del detenuto. Cio' in forza dell'art. 27 Cost., che in sede di esecuzione e' parametro costituzionale di riferimento (a differenza di quanto accade in sede cautelare: ordinanza n. 532 del 2002). Inoltre, una valutazione individualizzata e attualizzata non puo' che estendersi al contesto esterno al carcere, nel quale si prospetti la possibilita' di un, sia pur breve e momentaneo, reinserimento dello stesso detenuto, potendosi ipotizzare che l'associazione criminale di originario riferimento, ad esempio, non esista piu', perche' interamente sgominata o per naturale estinzione. Con assorbimento delle questioni di legittimita' costituzionale sollevate dalla Corte di cassazione (miranti a distinguere tra la posizione dell'affiliato e quella del condannato per reati di "contesto mafioso"), ne deriva percio', in lesione dell'art. 3 Cost., l'irragionevolezza - nonche', anche sotto questo profilo, il contrasto con la funzione rieducativa della pena - di una presunzione assoluta di pericolosita' sociale che, a prescindere da qualsiasi valutazione in concreto, presupponga l'immutabilita', sia della personalita' del condannato, sia del contesto esterno di riferimento. 9.- Nel caso di specie, pero', trattandosi del reato di affiliazione a una associazione mafiosa (e dei reati a questa collegati), caratterizzato dalle specifiche connotazioni criminologiche prima descritte, la valutazione in concreto di accadimenti idonei a superare la presunzione dell'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata - da parte di tutte le autorita' coinvolte, e in primo luogo ad opera del magistrato di sorveglianza - deve rispondere a criteri di particolare rigore, proporzionati alla forza del vincolo imposto dal sodalizio criminale del quale si esige l'abbandono definitivo. Cio' giustifica che la presunzione di pericolosita' sociale del detenuto che non collabora, pur non piu' assoluta, sia superabile non certo in virtu' della sola regolare condotta carceraria o della mera partecipazione al percorso rieducativo, e nemmeno in ragione di una soltanto dichiarata dissociazione, ma soprattutto in forza dell'acquisizione di altri, congrui e specifici elementi. Quali siano questi elementi, e' la stessa evoluzione del medesimo art. 4-bis ordin. penit. a mostrare con evidenza. Come si e' gia' detto (supra, punto 7.1 del Considerato in diritto), prima dell'introduzione del decisivo requisito della collaborazione con la giustizia, l'art. 1 del d.l. n. 152 del 1991, come convertito, gia' stabiliva, per i reati della "prima fascia" (comprendenti l'associazione di tipo mafioso, i relativi "delitti-satellite", il sequestro di persona a scopo di estorsione e l'associazione finalizzata al narcotraffico), che l'accesso a taluni benefici previsti dall'ordinamento penitenziario fosse possibile alla stregua di un parametro probatorio particolarmente elevato, cioe' solo se fossero stati acquisiti «elementi tali da escludere l'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata o eversiva». Era quindi disegnato, per questi reati, un sistema fondato su di «un regime di prova rafforzata per accertare l'inesistenza di una condizione negativa» (sentenza n. 68 del 1995). Di un tale regime, anche la versione attualmente vigente dell'art. 4-bis, ordin. penit. mantiene traccia testuale, al comma 1-bis. Infatti, come pure si e' detto (supra, punto 7.1 del Considerato in diritto), tale comma estende la possibilita' di accesso ai benefici penitenziari ai casi in cui un'utile collaborazione con la giustizia risulti inesigibile, impossibile od «oggettivamente irrilevante», sempre che, in questa evenienza, sia stata applicata al condannato taluna delle circostanze attenuanti di cui agli artt. 62, numero 6), 114 o 116 cod. pen. Ma, ancora, per tutte le ipotesi appena indicate occorre che «siano stati acquisiti elementi tali da escludere l'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata, terroristica o eversiva». L'acquisizione di simili elementi appartiene, come si vede, alla stessa logica cui e' improntato l'art. 4-bis ordin. penit. e consente alla magistratura di sorveglianza, attraverso un efficace collegamento con tutte le autorita' competenti in materia, di svolgere d'ufficio una seria verifica non solo sulla condotta carceraria del condannato nel corso dell'espiazione della pena, ma altresi' sul contesto sociale esterno in cui il detenuto sarebbe autorizzato a rientrare, sia pure temporaneamente ed episodicamente (ordinanza n. 271 del 1992). In particolare, l'art. 4-bis, comma 2, ordin. penit., prevede che, ai fini della concessione dei benefici di cui al comma 1 (percio', anche del permesso premio), la magistratura di sorveglianza decide non solo sulla base delle relazioni della pertinente autorita' penitenziaria ma, altresi', delle dettagliate informazioni acquisite per il tramite del comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica competente. E' fondamentale aggiungere che, ai sensi del comma 3-bis del medesimo art. 4-bis, tutti i benefici in questione, compreso il permesso premio, «non possono essere concessi» (ferma restando l'autonomia valutativa del magistrato di sorveglianza: ex multis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 5 dicembre 2016, n. 51878) quando il Procuratore nazionale antimafia (oggi anche antiterrorismo) o il Procuratore distrettuale comunica, d'iniziativa o su segnalazione del competente comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica, l'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata. In tale contesto, l'acquisizione di stringenti informazioni in merito all'eventuale attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata (a partire da quelli di natura economico-patrimoniale) non solo e' criterio gia' rinvenibile nell'ordinamento (sentenze n. 40 del 2019 e n. 222 del 2018) - nel caso di specie, nella stessa disposizione di cui e' questione di legittimita' costituzionale (sentenza n. 236 del 2016) - ma e' soprattutto criterio costituzionalmente necessario (sentenza n. 242 del 2019) per sostituire in parte qua la presunzione assoluta caducata, alla stregua dell'esigenza di prevenzione della «commissione di nuovi reati» (sentenze n. 211 del 2018 e n. 177 del 2009) sottesa ad ogni previsione di limiti all'ottenimento di benefici penitenziari (sentenza n. 174 del 2018). L'acquisizione in parola e', d'altra parte, fattore imprescindibile, ma non sufficiente. Il regime probatorio rafforzato, qui richiesto, deve altresi' estendersi all'acquisizione di elementi che escludono non solo la permanenza di collegamenti con la criminalita' organizzata, ma altresi' il pericolo di un loro ripristino, tenuto conto delle concrete circostanze personali e ambientali. Si tratta, del resto, di aspetto logicamente collegato al precedente, del quale condivide il carattere necessario alla luce della Costituzione, al fine di evitare che il gia' richiamato interesse alla prevenzione della commissione di nuovi reati, tutelato dallo stesso art. 4-bis ordin. penit., finisca per essere vanificato. Di entrambi tali elementi - esclusione sia dell'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata che del pericolo di un loro rispristino - grava sullo stesso condannato che richiede il beneficio l'onere di fare specifica allegazione (come stabilisce la costante giurisprudenza di legittimita' maturata sul comma 1-bis dell'art. 4-bis, ordin. penit., in tema di collaborazione impossibile o inesigibile: ex plurimis, Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenze 13 agosto 2019, n. 36057, 8 luglio 2019, n. 29869 e 12 ottobre 2017, n. 47044). La magistratura di sorveglianza decidera', sia sulla base di tali elementi, sia delle specifiche informazioni necessariamente ricevute in materia dalle autorita' competenti, prima ricordate; con la precisazione che - fermo restando l'essenziale rilievo della dettagliata e motivata segnalazione del Procuratore nazionale antimafia o del Procuratore distrettuale (art. 4-bis, comma 3-bis, ordin penit.) - se le informazioni pervenute dal comitato provinciale per l'ordine e la sicurezza pubblica depongono in senso negativo, incombe sullo stesso detenuto non il solo onere di allegazione degli elementi a favore, ma anche quello di fornire veri e propri elementi di prova a sostegno (in tal senso, gia' Corte di cassazione, sezione prima penale, sentenza 12 maggio 1992, n. 1639). 10.- Va pertanto dichiarata, per violazione degli artt. 3 e 27, terzo comma, Cost., l'illegittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. nella parte in cui non prevede che - ai detenuti per i delitti di cui all'art. 416-bis cod. pen., e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni in esso previste - possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell'art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorche' siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. 11.- Con la presente sentenza, in relazione ai reati indicati, e' percio' sottratta all'applicazione del meccanismo "ostativo" previsto dall'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. la disciplina relativa alla concessione del beneficio del permesso premio, di cui all'art. 30-ter del medesimo ordin. penit. Cio' e' conforme al perimetro delle questioni di legittimita' costituzionale sollevate dai giudici a quibus, nonche' alla connotazione peculiare del permesso premio, che lo distingue dagli altri benefici pure elencati nella disposizione censurata. 12.- Come si e' chiarito, le due ordinanze di rimessione hanno portato all'attenzione di questa Corte i reati di criminalita' organizzata di stampo mafioso, cioe' quelli che hanno costituito parte del nucleo originario della previsione censurata. Ma, come pure si e' accennato (supra, punto 7.1 del Considerato in diritto), l'assetto delineato dai provvedimenti dei primi anni Novanta del secolo scorso e' stato progressivamente modificato, nel tempo, da una serie di riforme, che, da un lato, hanno mutato l'architettura complessiva dell'art. 4-bis ordin. penit. e, dall'altro, ne hanno ampliato progressivamente l'ambito di operativita', con l'innesto di numerose altre fattispecie criminose nella lista dei reati "ostativi". In virtu' di varie scelte di politica criminale, non sempre tra loro coordinate, accomunate da finalita' di prevenzione generale e da una volonta' di inasprimento del trattamento penitenziario, in risposta ai diversi fenomeni criminali di volta in volta emergenti, l'art. 4-bis ordin. penit. ha cosi' progressivamente allargato i propri confini, finendo per contenere, attualmente, una disciplina speciale relativa, ormai, a un «complesso, eterogeneo e stratificato elenco di reati» (sentenze n. 188 del 2019, n. 32 del 2016, n. 239 del 2014). E il comma 1 della disposizione, in particolare, presume l'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata dei condannati per questo ampio elenco di reati, disegnando per tutti costoro un particolare regime carcerario, che non consente in radice l'accesso ai benefici penitenziari in assenza di collaborazione con la giustizia. Peraltro, nella disposizione in esame, accanto ai reati tipicamente espressivi di forme di criminalita' organizzata, compaiono ora, tra gli altri, anche reati che non hanno necessariamente a che fare con tale criminalita', ovvero che hanno natura mono-soggettiva: infatti, nel comma 1 dell'art. 4-bis, figurano i reati di prostituzione minorile e pornografia minorile, di violenza sessuale di gruppo (art. 3 del decreto-legge 23 febbraio 2009, n. 11, recante «Misure urgenti in materia di sicurezza pubblica e di contrasto alla violenza sessuale, nonche' in tema di atti persecutori», convertito, con modificazioni, nella legge 23 aprile 2009, n. 38), di favoreggiamento dell'immigrazione clandestina (decreto-legge 18 febbraio 2015, n. 7, recante «Misure urgenti per il contrasto del terrorismo, anche di matrice internazionale, nonche' proroga delle missioni internazionali delle Forze armate e di polizia, iniziative di cooperazione allo sviluppo e sostegno ai processi di ricostruzione e partecipazione alle iniziative delle Organizzazioni internazionali per il consolidamento dei processi di pace e di stabilizzazione», convertito, con modificazioni, nella legge 17 aprile 2015, n. 43) e, da ultimo, anche quasi tutti i reati contro la pubblica amministrazione (legge 9 gennaio 2019, n. 3, recante «Misure per il contrasto dei reati contro la pubblica amministrazione, nonche' in materia di prescrizione del reato e in materia di trasparenza dei partiti e movimenti politici»). In questo contesto, l'intervento parzialmente ablatorio realizzato sui reati di criminalita' organizzata di matrice mafiosa deve riflettersi sulle condizioni predisposte dal primo comma della norma censurata, in vista dell'accesso al permesso premio dei condannati per tutti gli altri reati di cui all'elenco. Se cosi' non fosse, deriverebbe dalla presente sentenza la creazione di una paradossale disparita', a tutto danno dei detenuti per reati rispetto ai quali possono essere privi di giustificazione sia il requisito (ai fini dell'accesso ai benefici penitenziari) di una collaborazione con la giustizia, sia la dimostrazione dell'assenza di legami con un, inesistente, sodalizio criminale di originaria appartenenza. Ed anzi, la mancata estensione a tutti i reati previsti dal primo comma dell'art. 4-bis, ordin. penit. dell'intervento compiuto dalla presente sentenza sui reati di associazione mafiosa e di "contesto mafioso" finirebbe per compromettere la stessa coerenza intrinseca dell'intera disciplina di risulta. In definitiva, i profili di illegittimita' costituzionale relativi al carattere assoluto della presunzione attingono tanto la disciplina, in questa sede censurata, applicabile ai detenuti per i delitti di cui all'art. 416-bis cod. pen., e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni in esso previste, quanto l'identica disciplina dettata dallo stesso art. 4-bis, comma 1, ordin. penit. per i detenuti per gli altri delitti in esso contemplati. Visto l'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), va percio' dichiarata in via consequenziale l'illegittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi contemplati, diversi da quelli di cui all'art. 416-bis cod. pen. e da quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell'art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorche' siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti.
per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE riuniti i giudizi, 1) dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'), nella parte in cui non prevede che, ai detenuti per i delitti di cui all'art. 416-bis del codice penale e per quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell'art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorche' siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti; 2) dichiara, in via consequenziale, ai sensi dell'art. 27 della legge 11 marzo 1953, n. 87 (Norme sulla costituzione e sul funzionamento della Corte costituzionale), l'illegittimita' costituzionale dell'art. 4-bis, comma 1, della legge n. 354 del 1975, nella parte in cui non prevede che ai detenuti per i delitti ivi contemplati, diversi da quelli di cui all'art. 416-bis cod. pen. e da quelli commessi avvalendosi delle condizioni previste dallo stesso articolo ovvero al fine di agevolare l'attivita' delle associazioni in esso previste, possano essere concessi permessi premio anche in assenza di collaborazione con la giustizia a norma dell'art. 58-ter del medesimo ordin. penit., allorche' siano stati acquisiti elementi tali da escludere, sia l'attualita' di collegamenti con la criminalita' organizzata, terroristica o eversiva, sia il pericolo del ripristino di tali collegamenti. Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 23 ottobre 2019. F.to: Giorgio LATTANZI, Presidente Nicolo' ZANON, Redattore Roberto MILANA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 4 dicembre 2019. Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA Allegato: Ordinanza letta all'udienza del 22 ottobre 2019 ORDINANZA Rilevato che nel giudizio promosso dalla Corte di cassazione, iscritto al reg. ord. n. 59 del 2019, con atto depositato il 30 aprile 2019, ha chiesto di intervenire M. D., in qualita' di parte di vicenda giudiziaria che asserisce essere «totalmente sovrapponibile e identica» a quella della parte del giudizio a quo; che, nello stesso giudizio promosso dalla Corte di cassazione, con atto depositato il 13 maggio 2019, ha chiesto di intervenire anche l'associazione Nessuno Tocchi Caino, nella asserita qualita' di associazione titolare di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio; che, nel giudizio promosso dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, iscritto al n. 135 del reg. ord. 2019, con atto depositato il 4 settembre 2019, ha chiesto di intervenire il Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della liberta' personale (di seguito: Garante), nella asserita qualita' di soggetto titolare di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e, in subordine, quale amicus curiae; che, nello stesso giudizio promosso dal Tribunale di sorveglianza di Perugia, con atto depositato il 10 settembre 2019, ha chiesto di intervenire anche l'Unione Camere Penali Italiane (di seguito UCPI), nella qualita' di ente rappresentativo di interessi collettivi asseritamente titolare di un interesse qualificato, immediatamente inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio. Considerato che, per costante giurisprudenza di questa Corte, sono ammessi a intervenire nel giudizio incidentale di legittimita' costituzionale (art. 3 delle Norme integrative per i giudizi davanti alla Corte costituzionale) i soli soggetti parti del giudizio a quo, oltre al Presidente del Consiglio dei ministri e, nel caso di legge regionale, al Presidente della Giunta regionale (ex plurimis, sentenze n. 206 del 2019, con allegata ordinanza letta all'udienza del 4 giugno 2019 e n. 173 del 2019, con allegata ordinanza letta all'udienza del 18 giugno 2019; ordinanza n. 204 del 2019); che l'intervento di soggetti estranei al giudizio principale (art. 4 delle Norme integrative) e' ammissibile soltanto per i terzi titolari di un interesse qualificato, inerente in modo diretto e immediato al rapporto sostanziale dedotto in giudizio e non semplicemente regolato, al pari di ogni altro, dalla norma oggetto di censura (ex plurimis, le citate sentenze n. 206 del 2019, con allegata ordinanza letta all'udienza del 4 giugno 2019 e n. 173 del 2019, con allegata ordinanza letta all'udienza del 18 giugno 2019; ordinanza n. 204 del 2019); che, pertanto, l'incidenza sulla posizione soggettiva dell'interveniente deve derivare non gia', come per tutte le altre situazioni sostanziali disciplinate dalla disposizione denunciata, dalla pronuncia della Corte sulla legittimita' costituzionale della legge stessa, ma dall'immediato effetto che la pronuncia della Corte produce sul rapporto sostanziale oggetto del giudizio a quo; che, in disparte ogni considerazione sul rinvio del giudizio in cui M.D. e' parte in attesa della pronuncia di questa Corte, l'ammissibilita' del suo intervento contrasterebbe con il carattere incidentale del giudizio di legittimita' costituzionale, in quanto il suo accesso al contraddittorio avverrebbe senza la previa verifica della rilevanza e della non manifesta infondatezza della questione da parte del giudice a quo (ex plurimis, sentenze n. 173 del 2016, con allegata ordinanza letta all'udienza del 13 luglio 2016; n. 71 del 2015, con allegata ordinanza letta all'udienza del 10 marzo 2015; sentenza n. 33 del 2015); che, quanto agli interventi dell'associazione Nessuno Tocchi Caino, del Garante e dell'UCPI, nessuno dei tre intervenienti e' titolare di un interesse qualificato inerente al rapporto sostanziale dedotto in giudizio; che, in relazione alla richiesta avanzata dal Garante, in via subordinata, di essere ammesso al contraddittorio in qualita' di amicus curiae, una tale figura non e' allo stato prevista dalle fonti che regolano i giudizi di legittimita' costituzionale. PER QUESTI MOTIVI LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara inammissibili tutti gli interventi spiegati nei presenti giudizi di legittimita' costituzionale; dichiara inammissibile la richiesta del Garante nazionale dei diritti delle persone detenute o private della liberta' personale di essere ammesso al giudizio in qualita' di amicus curiae. F.to: Giorgio Lattanzi, Presidente
Corte Costituzionale 5 novembre – 6 dicembre 2019 SENTENZA N. 263
Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. Esecuzione penale - Detenuti minorenni e giovani adulti, condannati per uno dei reati "ostativi" di cui all'art. 4-bis, commi 1 e 1-bis, della legge n. 354 del 1975 - Possibilita' di accesso ai benefici penitenziari (misure penali di comunita', permessi premio e lavoro esterno) - Esclusione in assenza di condotte collaborative con la giustizia - Eccesso di delega, violazione dei principi di proporzionalita' e individualizzazione della pena, contrasto con la preminente funzione rieducativa dell'esecuzione penale minorile - Illegittimita' costituzionale. - Decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, art. 2, comma 3. - Costituzione, artt. 2, 3, 27, terzo comma, 31, secondo comma, 76 e 117, primo comma; direttiva 2016/800/UE dell'11 maggio 2016, artt. 7, 10 e 11; Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea, art. 49, paragrafo 3.
(GU n.50 del 11-12-2019 )
LA CORTE COSTITUZIONALE composta dai signori: Presidente:Aldo CAROSI; Giudici :Marta CARTABIA, Mario Rosario MORELLI, Giancarlo CORAGGIO, Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria de PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI, Giovanni AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI,
ha pronunciato la seguente SENTENZA nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 3, del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, recante «Disciplina dell'esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all'art. 1, commi 82, 83 e 85, lettera p), della legge 23 giugno 2017, n. 103», promosso dal Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, in funzione di tribunale di sorveglianza, nel procedimento nei confronti di F. P., con ordinanza del 28 dicembre 2018, iscritta al n. 56 del registro ordinanze 2019 e pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica n. 16, prima serie speciale, dell'anno 2019. Visto l'atto di intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; udito nella camera di consiglio del 23 ottobre 2019 il Giudice relatore Giuliano Amato. Ritenuto in fatto 1.- Il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, in funzione di tribunale di sorveglianza, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 27, terzo comma, 31, secondo comma, 76 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 3, del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, recante «Disciplina dell'esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all'art. 1, commi 82, 83 e 85, lettera p), della legge 23 giugno 2017, n. 103». Tale disposizione prevede che, ai fini della concessione delle misure penali di comunita' e dei permessi premio e per l'assegnazione al lavoro esterno, si applica l'art. 4-bis, commi 1 e 1-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'), il quale consente la concessione dei benefici penitenziari ai condannati per taluni delitti, espressamente indicati, solo nei casi in cui gli stessi collaborino con la giustizia. Nell'estendere ai minorenni e giovani adulti preclusioni analoghe a quelle previste per gli adulti, la disposizione censurata violerebbe, in primo luogo, l'art. 76 Cost. L'esclusione dei benefici penitenziari da essa indicati ove ricorrano i reati ostativi di cui all'art. 4-bis ordin. penit. si porrebbe in contrasto con i principi di cui all'art. 1, comma 85, lettera p), numeri 5) e 6), della legge delega 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all'ordinamento penitenziario), che prevedono l'ampliamento dei criteri di accesso alle misure alternative alla detenzione e l'eliminazione di ogni automatismo nella concessione dei benefici penitenziari. Sarebbero, inoltre, violati gli artt. 2, 3, 27 e 31 Cost., perche' siffatto automatismo, che si fonda su una presunzione di pericolosita' basata solo sul titolo di reato commesso, impedirebbe una valutazione individualizzata dell'idoneita' della misura a conseguire le preminenti finalita' di risocializzazione che debbono presiedere all'esecuzione penale minorile. Infine, la disposizione censurata violerebbe l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 7, 10 e 11 della direttiva 2016/800/UE del Parlamento europeo e del Consiglio dell'11 maggio 2016, sulle garanzie procedurali per i minori indagati o imputati nei procedimenti penali. Tali disposizioni prevedono il diritto del minore ad una valutazione individuale e la necessita' di ricorrere, ogni qualvolta sia possibile, a misure alternative alla detenzione. La norma censurata non sarebbe coerente neppure con l'art. 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, il quale stabilisce il principio di proporzionalita' delle pene inflitte rispetto al reato. 2.- Il giudice a quo e' chiamato a decidere in ordine all'istanza avanzata da un detenuto, condannato in via definitiva alla pena di cinque anni di reclusione per i reati di cui all'art. 416-bis del codice penale e agli artt. 2 e 7 della legge 2 ottobre 1967, n. 895 (Disposizioni per il controllo delle armi), aggravati, in base alla normativa all'epoca vigente, ai sensi dell'art. 7 del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalita' organizzata e di trasparenza e buon andamento dell'attivita' amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203. Con riferimento alla residua pena da espiare di un anno, cinque mesi e quattordici giorni di reclusione, e' stata richiesta l'applicazione della misura della detenzione domiciliare presso un'abitazione o in una struttura comunitaria. 2.1.- Il rimettente evidenzia che la disposizione censurata esclude la possibilita' di concedere le misure penali di comunita' in presenza dei reati cosiddetti ostativi, previsti dall'art. 4-bis ordin. penit. Cio' impedirebbe di valutare nel merito l'istanza del detenuto e di adeguare la residua sanzione da espiare ai progressi da lui compiuti. Nel caso in esame, la condanna per uno dei delitti indicati nell'art. 4-bis non consentirebbe di accogliere l'istanza. A questo riguardo, non rileverebbe ne' l'accertata recisione dei collegamenti con la criminalita' organizzata, essendo richiesta anche l'effettiva collaborazione con la giustizia, ne' l'inesigibilita' di tale collaborazione poiche', ad avviso del rimettente, il rinvio e' al catalogo dei reati ivi indicati e non al suo contenuto, ne' infine la mancata prova della pericolosita' sociale, essendo richiesta viceversa la prova dell'assenza di attuali collegamenti con la criminalita' organizzata. L'ostacolo non sarebbe superabile in via interpretativa. Un'esegesi costituzionalmente orientata della disposizione censurata porterebbe, infatti, alla sua sostanziale abrogazione. 2.2.- Nel merito, il giudice a quo ritiene, in primo luogo, che la disposizione censurata violi l'art. 76 Cost., per il contrasto con i principi e i criteri direttivi posti dall'art. 85, lettera p), numeri 5) e 6), della legge n. 103 del 2017, che prevedono l'ampliamento dei criteri di accesso alle misure alternative alla detenzione e l'eliminazione di ogni automatismo nella concessione dei benefici penitenziari. Il giudice rimettente fa riferimento alla giurisprudenza costituzionale che ha affermato che il cuore della giustizia minorile debba consistere in valutazioni fondate su prognosi individualizzate, in grado di assolvere al compito di recupero del minore deviante. Cio' comporta l'abbandono di qualsiasi automatismo che escluda l'applicazione di benefici o misure alternative (sono richiamate le sentenze n. 90 del 2017, n. 436 del 1999, n. 16 del 1998 e n. 109 del 1997). Sono inoltre richiamati i principi espressi in numerosi atti internazionali, tra i quali le Regole minime delle Nazioni unite sull'amministrazione della giustizia minorile ("Regole di Pechino"), adottate dall'Assemblea generale con la risoluzione 40/33 del 29 novembre 1985, le Regole delle Nazioni Unite per la protezione dei minori privati della liberta' (cosiddette regole dell'Havana), approvate dall'Assemblea generale con risoluzione n. 45/113 del 14 dicembre 1990, la raccomandazione CM/Rec. (2008)11 del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa, adottata il 5 novembre 2008, sui minori autori di reato e soggetti a sanzioni o misure alternative alla detenzione, le Linee guida del Comitato dei ministri del Consiglio d'Europa su una "giustizia a misura di minore", adottate il 17 novembre 2010, nella 1098a riunione dei delegati dei ministri, nonche', da ultimo, la direttiva 2016/800/UE, gia' citata. Questi atti esprimerebbero tutti l'esigenza che le autorita' nazionali ricorrano alla privazione della liberta' personale del minore quale misura di ultima istanza. Sarebbe, inoltre, richiesto che venga sempre privilegiato il ricorso alle misure alternative alla detenzione e che venga garantito un trattamento penitenziario specificamente disegnato sulle peculiari necessita' del minore. Proprio a questi fini, la legge delega n. 103 del 2017 aveva prescritto l'ampliamento dei criteri per l'accesso alle misure alternative e l'eliminazione di automatismi e preclusioni che impediscono o ritardano l'individualizzazione del trattamento rieducativo. Viceversa, la disposizione censurata ha ribadito la preclusione automatica per i reati previsti dall'art. 4-bis, commi 1 e 1-bis, ordin. penit., rendendo in questi casi estremamente difficoltosa la concessione di misure alternative. Sulla base di una presunzione di pericolosita' legale, verrebbe privilegiata l'istanza punitiva rispetto a quella del recupero del minorenne o del giovane adulto. Cio' si porrebbe in contrasto con i principi e i criteri direttivi fissati dall'art. 1, comma 85, lettera p), numeri 5) e 6), della legge n. 103 del 2017. D'altra parte, la medesima disposizione tradirebbe la ratio dell'art. 656, comma 9, cod. proc. pen., come risultante dalla sentenza n. 90 del 2017. La sospensione dell'esecuzione consentita al pubblico ministero risulterebbe inutiliter data se il tribunale di sorveglianza non potesse poi valutare nel merito le istanze di misure alternative alla detenzione, anche in presenza di reati ostativi. Osserva il giudice a quo che l'art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen. si rivolge al pubblico ministero e, dopo la sentenza n. 90 del 2017, gli consente di sospendere l'ordine di esecuzione anche in presenza di reati ostativi. La disposizione censurata, invece, si rivolge al tribunale di sorveglianza e gli impedisce di concedere le misure penali di comunita' in caso di reati ostativi. La disciplina censurata sarebbe, inoltre, in contrasto con altri istituti del processo penale minorile. Si fa rilevare, ad esempio, come la sospensione del processo con messa alla prova sia applicabile senza il rigido sbarramento previsto dall'art. 4-bis ordin. penit., secondo un'ottica che privilegia le esigenze di recupero dell'imputato rispetto alla pretesa punitiva. Il contrasto sarebbe inoltre ravvisabile con l'intero impianto del processo minorile e con i principi di tutela dell'infanzia cui lo stesso si ispira. Tra questi, in particolare, rientrano quelli enunciati dagli artt. 37, lettera b), e 40, paragrafi 1 e 4, della Convenzione sui diritti del fanciullo, fatta a New York il 20 novembre 1989, ratificata e resa esecutiva in Italia con legge 27 maggio 1991, n. 176, secondo cui la detenzione del minore deve costituire un provvedimento "di ultima istanza" e avere la durata piu' breve possibile. 2.3.- L'automatismo posto dalla disposizione censurata, in quanto fondato su una presunzione di pericolosita' radicata solo sul titolo di reato commesso sarebbe, inoltre, in contrasto con il principio sancito dall'art. 27, terzo comma, Cost., connesso a quelli di cui agli artt. 2, 3 e 31, secondo comma, Cost., in quanto espressivi della necessita' di un trattamento differenziato per i minorenni e i giovani adulti e «di valutazioni, da parte dello stesso giudice, fondate su prognosi individualizzate in funzione del recupero del minore deviante» (sono richiamate le sentenze n. 143 del 1996, n. 182 del 1991, n. 78 del 1989, n. 128 del 1987, n. 222 del 1983 e n. 46 del 1978). 2.4.- Sarebbe violato, infine, l'art. 117, primo comma, Cost., per il contrasto con i principi posti dalla direttiva 2016/800/UE, nonche' dall'art. 49, paragrafo 3, CDFUE. In particolare, sarebbe mancata l'attuazione degli artt. 7, 10 e 11 della citata direttiva, relativa alle garanzie procedurali per i minori indagati o imputati nei procedimenti penali. Essa chiede ai legislatori nazionali di provvedere affinche': 1) sia garantito «il diritto del minore a una valutazione individuale» (art. 7); 2) «in qualsiasi fase del procedimento la privazione della liberta' personale del minore sia limitata al piu' breve periodo possibile» (art. 10); 3) «ogniqualvolta sia possibile, le autorita' competenti ricorrano a misure alternative alla detenzione» (art. 11). Il contrasto tra la disposizione censurata e la direttiva in esame non sarebbe sanabile in via interpretativa, ne' potrebbe trovare rimedio nella disapplicazione della norma nazionale da parte del giudice comune, essendo la norma dell'Unione europea priva di efficacia diretta. La disposizione censurata si porrebbe, infine, in contrasto con l'art. 49, paragrafo 3, CDFUE e con il principio di proporzionalita' e di flessibilita' del trattamento sanzionatorio, secondo un'accezione riferibile anche alle misure alternative alla detenzione e alla necessita' di un loro adattamento alle condizioni del minorenne autore del reato. La proposizione della questione di legittimita' costituzionale sarebbe, dunque, l'unica via per garantire l'adeguamento del diritto interno agli obblighi comunitari. 3.- E' intervenuto il Presidente del Consiglio dei ministri, rappresentato e difeso dall'Avvocatura generale dello Stato, chiedendo che la questione sia dichiarata inammissibile o comunque non fondata. 3.1.- In via preliminare, l'interveniente ha eccepito che l'applicazione dell'art. 4-bis ordin. penit. anche ai minori non deriverebbe dalla disposizione censurata, bensi' dall'art. 4, comma 4, del d.l. n. 152 del 1991, che gia' aveva previsto che le limitazioni all'accesso ai benefici penitenziari si applicassero anche nei confronti dei soggetti minorenni al tempo del fatto. La disposizione censurata avrebbe, quindi, natura meramente ricognitiva di una disciplina gia' esistente e non introdurrebbe alcuna novita'. Un eventuale accoglimento della questione non inciderebbe sulla persistente applicazione dell'art. 4-bis, ne' sulla limitazione all'accesso ai benefici penitenziari per i minorenni. La questione sarebbe pertanto inammissibile, per essere stata sottoposta a scrutinio una disposizione diversa dall'oggetto effettivo delle censure. 3.2.- In ogni caso, la questione non sarebbe fondata. La disciplina censurata costituirebbe l'espressione di una scelta rimessa alla discrezionalita' legislativa, che non sarebbe affatto irragionevole. La giurisprudenza costituzionale ne avrebbe riconosciuto piu' volte la legittimita' e la compatibilita' con la finalita' rieducativa della pena. D'altra parte, in riferimento alla denunciata violazione dell'art. 2 Cost., sarebbe incerto il principio che il rimettente assume violato, non essendo chiarito quale sia il nesso tra la scelta legislativa censurata e i diritti inviolabili dell'individuo. Quanto alla violazione dell'art. 3 Cost., non sarebbe rilevabile alcuna incoerenza sistematica o disparita' di trattamento in relazione all'art. 656, comma 9, cod. proc. pen., letto alla luce della sentenza n. 90 del 2017. Anche questa disposizione rimette al giudice l'accertamento delle condizioni per l'accesso ai benefici. Il potere riconosciuto al pubblico ministero di sospendere l'esecuzione sarebbe infatti funzionale alla valutazione da parte del magistrato di sorveglianza in ordine ai presupposti per l'applicazione di misure alternative e quindi, secondo l'Avvocatura generale dello Stato, all'intervenuta collaborazione con la giustizia. Anche la questione relativa alla violazione dell'art. 76 Cost. non sarebbe fondata. La disposizione censurata, senza introdurre automatismi o preclusioni, si limiterebbe a prendere atto della disciplina previgente, perseguendo, accanto alla finalita' di prevenzione, anche una specifica ratio di rieducazione del detenuto minorenne, il quale sarebbe incentivato a recidere definitivamente i legami con la criminalita' organizzata. Cio' costituirebbe, dunque, fedele attuazione dei principi della legge delega n. 103 del 2017. Quanto alla violazione dell'art. 117 Cost., l'Avvocatura generale dello Stato ritiene che la riforma dell'esecuzione penale minorile non sia in contrasto con la direttiva 2016/800/UE. Anche la disposizione censurata sarebbe ispirata al principio di favore per le misure penali di comunita', concedibili, alle condizioni date, anche per i reati piu' gravi. Nel privilegiare le misure alternative alla detenzione, il d.lgs. n. 121 del 2018 avrebbe l'obiettivo di realizzare un modello esecutivo penale che ricorre alla detenzione solo laddove questo sia l'unico trattamento che consenta di contemperare le esigenze sanzionatorie e di sicurezza con le istanze pedagogiche di una personalita' in evoluzione. Considerato in diritto 1.- Il Tribunale per i minorenni di Reggio Calabria, in funzione di tribunale di sorveglianza, ha sollevato, in riferimento agli artt. 2, 3, 27, terzo comma, 31, secondo comma, 76 e 117, primo comma, della Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 3, del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, recante «Disciplina dell'esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all'art. 1, commi 82, 83 e 85, lettera p), della legge 23 giugno 2017, n. 103». Tale disposizione prevede che, ai fini della concessione delle misure penali di comunita' e dei permessi premio e per l'assegnazione al lavoro esterno, si applica l'art. 4-bis, commi 1 e 1-bis, della legge 26 luglio 1975, n. 354 (Norme sull'ordinamento penitenziario e sulla esecuzione delle misure privative e limitative della liberta'), il quale consente la concessione dei benefici penitenziari ai condannati per taluni delitti, espressamente indicati, solo nei casi in cui gli stessi collaborino con la giustizia. Ad avviso del giudice a quo, la disposizione censurata - nell'estendere ai minorenni e giovani adulti preclusioni analoghe a quelle previste per gli adulti - violerebbe, in primo luogo, l'art. 76 Cost. L'impossibilita' di accedere ai benefici penitenziari ivi indicati, in caso di condanna per i reati indicati dall'art. 4-bis ordin. penit., si porrebbe in contrasto con i principi di cui all'art. 1, comma 85, lettera p), numeri 5) e 6), della legge delega 23 giugno 2017, n. 103 (Modifiche al codice penale, al codice di procedura penale e all'ordinamento penitenziario), che prevedono l'ampliamento dei criteri di accesso alle misure alternative alla detenzione e l'eliminazione di ogni automatismo nella concessione dei benefici penitenziari. Sarebbero, inoltre, violati gli artt. 2, 3, 27, terzo comma, e 31, secondo comma, Cost., perche' siffatto automatismo, che si fonda su una presunzione di pericolosita' basata solo sul titolo di reato commesso, impedirebbe una valutazione individualizzata dell'idoneita' della misura a conseguire le preminenti finalita' di risocializzazione che debbono presiedere all'esecuzione penale minorile. Infine, la disposizione censurata violerebbe l'art. 117, primo comma, Cost., in relazione agli artt. 7, 10 e 11 della direttiva 2016/800/UE del Parlamento europeo e del Consiglio dell'11 maggio 2016, sulle garanzie procedurali per i minori indagati o imputati nei procedimenti penali. Tali disposizioni della direttiva prevedono il diritto del minore a una valutazione individuale e la necessita' di ricorrere, ogni qualvolta sia possibile, a misure alternative alla detenzione. L'art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 121 del 2018 sarebbe in contrasto anche con l'art. 49, paragrafo 3, della Carta dei diritti fondamentali dell'Unione europea (CDFUE), proclamata a Nizza il 7 dicembre 2000 e adattata a Strasburgo il 12 dicembre 2007, il quale stabilisce il principio di proporzionalita' delle pene inflitte rispetto al reato. 2.- Va preliminarmente respinta l'eccezione di inammissibilita' sollevata dall'Avvocatura generale dello Stato. 2.1.- La difesa del Presidente del Consiglio dei ministri ritiene che il giudice a quo abbia sottoposto a scrutinio una disposizione diversa dall'oggetto effettivo delle censure, poiche' l'art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 121 del 2018 avrebbe natura meramente ricognitiva della disciplina gia' prevista dall'art. 4, comma 4, del decreto-legge 13 maggio 1991, n. 152 (Provvedimenti urgenti in tema di lotta alla criminalita' organizzata e di trasparenza e buon andamento dell'attivita' amministrativa), convertito, con modificazioni, nella legge 12 luglio 1991, n. 203. In riferimento all'accesso alle misure penitenziarie alternative, la disposizione censurata non introdurrebbe, dunque, alcuna novita'. 2.2.- L'applicazione dell'art. 4-bis ordin. penit. anche nei confronti dei minori risultava in effetti gia' prevista dall'art. 4, comma 4, del d.l. n. 152 del 1991, il quale, dopo avere introdotto l'art. 4-bis nella legge n. 354 del 1975, aveva stabilito che i commi 1 e 2 di quest'ultima disposizione si applicassero anche nei confronti dei minorenni. Invero, il giudice a quo non ignora che, in passato, le preclusioni derivanti dall'art. 4-bis ordin. penit. fossero applicabili anche nei confronti dei minori. Tuttavia le sue censure si incentrano proprio sul loro inserimento nell'ambito del nuovo ordinamento penitenziario minorile ed e' proprio sulla legittimita' di tale scelta legislativa che si chiede a questa Corte di pronunciarsi. E' tale scelta a rendere il richiamo al meccanismo dell'art. 4-bis ordin. penit., contenuto nella disposizione censurata, non meramente ricognitivo di una norma preesistente. Esso svolge anche una funzione di primaria rilevanza, nel senso di stabilire, nell'ambito della riforma organica dell'ordinamento penitenziario minorile - a lungo attesa e finalmente introdotta dal d.lgs. n. 121 del 2018 - il perimetro delle preclusioni alle misure extramurarie applicabili ai condannati per fatti commessi da minorenni. Questo intervento da' vita, infatti, all'unica normativa applicabile a questa categoria di soggetti. Essa si e' integralmente sostituita alla precedente disciplina dettata sul punto, per i condannati adulti, dalla legge n. 354 del 1975 e, in particolare, dal suo art. 4-bis, e, per i condannati per reati commessi durante la minore eta', dall'art. 4, comma 4, del d.l. n. 152 del 1991. 2.3.- Il carattere innovativo (e non meramente ricognitivo) della disposizione censurata risulta, altresi', dalla considerazione del suo diverso ambito applicativo. A differenza dell'art. 4, comma 4, del d.l. n. 152 del 1991, che rendeva applicabili ai minori i commi 1 e 2 dell'art. 4-bis ordin. penit., l'art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 121 del 2018 richiama i commi 1 e 1-bis della medesima disposizione, ma non il comma 2. 3.- Nel merito, la questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 121 del 2018, sollevata in riferimento all'art. 76 Cost., e' fondata. 3.1.- Il d.lgs. n. 121 del 2018 costituisce l'approdo di un processo evolutivo che si snoda nel corso di alcuni decenni, a partire dalla previsione dell'art. 79, comma 1, ordin. penit., in base al quale la mancanza di una disciplina penitenziaria specificamente destinata ai minori avrebbe dovuto avere natura transitoria, ossia «fino a quando non sara' provveduto con apposita legge». L'esigenza di un'esecuzione "a misura di minore" era stata ripetutamente affermata nell'ambito di plurimi atti internazionali, attraverso il richiamo ai principi di individualizzazione del trattamento e di promozione della persona del minore. La stessa giurisprudenza di questa Corte ha riconosciuto, con riferimento all'ordinamento penale minorile, l'accentuazione della funzione rieducativa della pena e del criterio di individualizzazione del trattamento, quali corollari di una considerazione unitaria dei principi posti negli artt. 27, terzo comma, e 31, secondo comma, Cost. (sentenze n. 143 del 1996, n. 182 del 1991, n. 128 del 1987, n. 222 del 1983 e n. 46 del 1978). Cio' ha portato a riconoscere che la parificazione della disciplina della fase esecutiva nei confronti di adulti e minori puo' «confliggere con le esigenze di specifica individualizzazione e di flessibilita' del trattamento del detenuto minorenne» e che questa situazione ««contrast[a] con le esigenze [...] del recupero e della risocializzazione dei minori devianti, esigenze che comportano [appunto] la necessita' di differenziare il trattamento dei minorenni rispetto ai detenuti adulti e di eliminare automatismi applicativi nell'esecuzione della pena» (sentenza n. 90 del 2017, con richiamo alle sentenze n. 125 del 1992 e n. 109 del 1997). 3.2.- E' proprio sulla base dei principi di speciale protezione per l'infanzia e la gioventu', di individualizzazione del trattamento punitivo del minore e di preminenza della finalita' rieducativa che questa Corte ha dichiarato l'illegittimita' della previsione dell'ergastolo per gli infradiciottenni (sentenza n. 168 del 1994). Nello stesso senso si pongono anche le pronunce con le quali e' stata dichiarata l'illegittimita' costituzionale di alcuni istituti dell'ordinamento penale e penitenziario, laddove riferiti ai condannati minorenni. Il contrasto con i richiamati principi costituzionali e' stato, infatti, ravvisato in relazione alla preclusione della sospensione del processo per messa alla prova, nell'ambito del processo minorile, quando l'imputato abbia chiesto il giudizio abbreviato o il giudizio immediato (sentenza n. 125 del 1995); al divieto di disporre misure alternative alla detenzione per l'esecuzione di pene detentive derivanti da conversione di pena sostitutiva (sentenza n. 109 del 1997); all'esclusione della possibilita' di concedere permessi premio nel biennio successivo alla commissione di un delitto doloso (sentenza n. 403 del 1997); alle condizioni soggettive per l'applicazione delle sanzioni sostitutive della pena detentiva (sentenza n. 16 del 1998); alla previsione della necessaria espiazione di una determinata quota di pena ai fini della concessione dei permessi premio (sentenza n. 450 del 1998); alla preclusione triennale dei benefici per il condannato nei cui confronti sia stata revocata l'applicazione di una misura alternativa (sentenza n. 436 del 1999), nonche', piu' recentemente, al divieto di sospensione delle pene detentive brevi, di cui all'art. 656, comma 9, lettera a), del codice di procedura penale (sentenza n. 90 del 2017). Questa evoluzione, che ha via via diversificato il trattamento dei minorenni da quello stabilito in via generale dall'ordinamento penitenziario, e' culminata nella legge n. 103 del 2017, di cui il d.lgs. n. 121 del 2018 costituisce attuazione. 3.3.- Cio' premesso, si tratta ora di stabilire se l'art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 121 del 2018 - laddove impedisce l'accesso alle misure penali di comunita' nei confronti dei minori condannati per i delitti di cui all'art. 4-bis ordin. penit. - si ponga in contrasto con i principi e criteri direttivi fissati dalla legge delega n. 103 del 2017, in particolare con l'art. 1, comma 85, lettera p), numeri 5) e 6). In queste disposizioni, il legislatore delegante - nel recepire i principi, sopra richiamati, provenienti dalle fonti internazionali e dalla giurisprudenza di questa Corte - da un lato, ha previsto l'«ampliamento dei criteri per l'accesso alle misure alternative alla detenzione, con particolare riferimento ai requisiti per l'ammissione dei minori all'affidamento in prova ai servizi sociali e alla semiliberta'» (art. 1, comma 85, lettera p, numero 5) e, dall'altro lato, ha imposto l'«eliminazione di ogni automatismo e preclusione per la revoca o per la concessione dei benefici penitenziari, in contrasto con la funzione rieducativa della pena e con il principio dell'individuazione del trattamento» (art. 1, comma 85, lettera p, numero 6). Le diverse scelte possibili avrebbero dovuto essere parametrate sulla duplice concorrente esigenza di ampliare l'accesso alle misure alternative e di eliminare ogni automatismo e preclusione nell'applicazione dei benefici penitenziari. 3.4.- Viceversa, l'art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 121 del 2018 ha ristretto la possibilita' di accedere alle misure extramurarie ivi indicate, agganciandola alle condizioni previste dall'art. 4-bis ordin. penit. La disposizione censurata appare in aperta distonia non solo rispetto al senso complessivo dell'evoluzione normativa e giurisprudenziale in tema di esecuzione minorile, ma anche con le direttive impartite dal legislatore delegante. Da un lato, il richiamo alla disciplina dell'art. 4-bis ordin. penit. restringe l'ambito di applicabilita' delle misure alternative alla detenzione. In presenza di condanna per uno dei reati ostativi di cui all'art. 4-bis, comma 1, ordin. penit., l'accesso a tali misure - salvo quanto si dira' sui permessi premio - e' condizionato all'accertamento di una condotta collaborativa con la giustizia (ovvero una condotta ad essa equiparata). Dall'altro, questi stessi criteri, in quanto fondati su una presunzione di pericolosita' che si basa esclusivamente sul titolo del reato, irrigidiscono la regola di giudizio in un meccanismo che non consente di tenere conto della storia e del percorso individuale del singolo soggetto e della sua complessiva evoluzione sulla strada della risocializzazione. Al contrario, un modello decisorio basato su una prognosi individualizzata, ragionevolmente calibrato sulla personalita' in fieri del minore, sarebbe stato coerente con la volonta' del delegante e con l'obiettivo di ampliare l'accesso alle misure alternative, abbandonando automatismi e preclusioni che ne limitino l'applicazione. 3.5.- D'altra parte, va escluso che in questo caso si sia inteso rinunciare ad esercitare la delega per la parte qui rilevante. Come gia' osservato, la scelta per il regime delle preclusioni dell'art. 4-bis ordin. penit. non discende dalla disciplina precedente, ma e' espressamente affermata dalla disposizione censurata. Dalla relazione illustrativa al d.lgs. n. 121 del 2018 emerge, infatti, la volonta' del legislatore delegato di dare positiva attuazione alla legge delega in questo ambito normativo. In tale relazione si legge, infatti, che l'esigenza di conservare i limiti di cui all'art. 4-bis ordin. penit. ai fini della concessione dei benefici, deriverebbe «[...] dalla necessita' di mantenere indenne dalla riforma la disciplina di cui all'articolo 41-bis della legge n. 354 del 1975, individuato dalla legge di delega quale criterio generale che deve orientare tutti gli interventi in materia di ordinamento penitenziario, ivi compreso quello minorile [...]». Tuttavia, la dichiarata finalita' dell'intervento non trova riscontro nei criteri impartiti dalla legge delega n. 103 del 2017. Invero, non si ravvisa alcun necessario collegamento, ne' alcuna interdipendenza, tra il divieto di accesso ai benefici penitenziari e la sospensione delle regole trattamentali di cui all'art. 41-bis ordin. penit. Come correttamente osservato dal Tribunale rimettente, i due regimi risultano accomunati quanto alla previsione di alcune gravi fattispecie di reato che li legittimano, ma la relativa applicazione rimane autonoma quanto ai rispettivi presupposti e ai destinatari. 4.- La questione di legittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 121 del 2018 e' fondata anche in riferimento agli artt. 27, terzo comma, e 31, secondo comma, Cost. 4.1.- La disposizione in esame, collocata nell'ambito dei principi generali che sovraintendono al sistema dell'esecuzione minorile, condiziona la concessione dei benefici penitenziari ivi indicati ai criteri posti dai commi 1 e 1-bis dell'art. 4-bis ordin. penit. Mentre, dunque, per la generalita' dei condannati minorenni l'accesso ai singoli benefici e' soggetto ai principi generali di cui agli artt. 1 e 2 dello stesso d.lgs. n. 121 del 2018, per le speciali categorie di condannati cui si riferisce l'art. 4-bis tale accesso e' drasticamente limitato in considerazione della necessita' di condotte collaborative con la giustizia, ai sensi dell'art. 58-ter ordin. penit., secondo uno schema applicativo che non differisce in modo significativo da quello previsto per gli adulti. Il richiamo ai criteri posti dall'art. 4-bis ordin. penit. determina dunque un irrigidimento della disciplina dell'accesso ai benefici penitenziari. In ragione del titolo di reato per cui e' intervenuta condanna e' impedita al giudice una valutazione individuale sul concreto percorso rieducativo compiuto dal minore. In questo modo, le finalita' di prevenzione generale e di difesa sociale finiscono per prevalere su quelle di educazione e risocializzazione, restaurando un assetto in contrasto con i principi di proporzionalita' e individualizzazione della pena, sottesi all'intera disciplina del nuovo ordinamento penitenziario minorile. Tanto piu' che questa Corte, con sentenza n. 253 del 2019, relativa sia pure ai soli permessi premio, ha ritenuto che il meccanismo introdotto dall'art. 4-bis, anche laddove applicato nei confronti di detenuti adulti, contrasta con gli artt. 3 e 27 Cost. sia «perche' all'assolutezza della presunzione sono sottese esigenze investigative, di politica criminale e di sicurezza collettiva che incidono sull'ordinario svolgersi dell'esecuzione della pena, con conseguenze afflittive ulteriori a carico del detenuto non collaborante», sia «perche' tale assolutezza impedisce di valutare il percorso carcerario del condannato, in contrasto con la funzione rieducativa della pena, intesa come recupero del reo alla vita sociale, ai sensi dell'art. 27, terzo comma, Cost.». Nell'esecuzione della pena nei confronti dei condannati per fatti commessi da minorenni, il contrasto di questo modello decisorio con il ruolo riconosciuto alla finalita' rieducativa del condannato si pone in termini ancora piu' gravi. Con riferimento ai soggetti minori di eta', infatti, questa finalita' «e' da considerarsi, se non esclusiva, certamente preminente» (sentenza n. 168 del 1994). 4.2.- Questa preminenza della funzione rieducativa dell'esecuzione minorile ha gia' portato a ritenere illegittima, per contrasto con gli artt. 27 e 31 Cost., la preclusione posta dall'art. 656, comma 9, lettera a), cod. proc. pen., nella parte in cui esso vietava la sospensione dell'esecuzione della pena detentiva nei confronti dei minori condannati per i delitti di cui all'art. 4-bis ordin. penit. (sentenza n. 90 del 2017). Le medesime finalita' di garanzia della funzione educativa della pena e di individualizzazione del trattamento penitenziario, gia' riconosciute con riferimento alla sospensione della pena disposta dal pubblico ministero, si pongono allo stesso modo anche dinanzi al tribunale di sorveglianza chiamato a decidere in ordine all'applicabilita' delle misure alternative alla detenzione ai condannati minorenni e comportano l'illegittimita' della stessa preclusione, determinata dal richiamo all'art. 4-bis ordin. penit. Una volta riconosciuta come costituzionalmente imposta la necessita' di prognosi individualizzate e di flessibilita' del trattamento, si tratta, dunque, di restituire al tribunale di sorveglianza quel medesimo potere di apprezzamento delle specificita' di ciascun caso che e' gia' stato riconosciuto al pubblico ministero, in sede di sospensione dell'esecuzione delle pene detentive nei confronti dei condannati minorenni. 4.3.- Dal superamento del meccanismo preclusivo che osta alla concessione delle misure extramurarie non deriva in ogni caso una generale fruibilita' dei benefici, anche per i soggetti condannati per i reati elencati all'art. 4-bis ordin. penit. Al tribunale di sorveglianza compete, infatti, la valutazione caso per caso dell'idoneita' e della meritevolezza delle misure extramurarie, secondo il progetto educativo costruito sulle esigenze del singolo. Solo attraverso il necessario vaglio giudiziale e' possibile tenere conto, ai fini dell'applicazione dei benefici penitenziari, delle ragioni della mancata collaborazione, delle condotte concretamente riparative e dei progressi compiuti nell'ambito del percorso riabilitativo, secondo quanto richiesto dagli artt. 27, terzo comma, e 31, secondo comma, Cost. 5.- Va pertanto dichiarata l'illegittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 3, del d.lgs. n. 121 del 2018 per violazione degli artt. 76, 27, terzo comma, e 31, secondo comma, Cost., con assorbimento delle ulteriori censure.
per questi motivi LA CORTE COSTITUZIONALE dichiara l'illegittimita' costituzionale dell'art. 2, comma 3, del decreto legislativo 2 ottobre 2018, n. 121, recante «Disciplina dell'esecuzione delle pene nei confronti dei condannati minorenni, in attuazione della delega di cui all'art. 1, commi 82, 83 e 85, lettera p), della legge 23 giugno 2017, n. 103». Cosi' deciso in Roma, nella sede della Corte costituzionale, Palazzo della Consulta, il 5 novembre 2019. F.to: Aldo CAROSI, Presidente Giuliano AMATO, Redattore Roberto MILANA, Cancelliere Depositata in Cancelleria il 6 dicembre 2019. Il Direttore della Cancelleria F.to: Roberto MILANA