Di Stefano Nespor. L’Europa, o quantomeno l’Europa legata dalla moneta unica, continua a dibattersi in una crisi economica di enormi proporzioni della quale è difficile intravedere la fine. Questa volta è diverso da tutte le volte precedenti. O forse no.
This time is different. Eight centuries of Financial Folly è il titolo di un’opera di due economisti, Carmen M. Reinhart e Kenneth S. Rogoff (Princeton University Press 2009) il cui insegnamento è semplice: non importa quanto sembri diversa la crisi economica o finanziaria attuale da quelle che la hanno preceduta, tutte hanno molto in comune. Rendersi conto che non c’è nulla di straordinariamente nuovo o diverso può aiutare a prevenire in futuro nuove e ancor peggiori disastri economici. La maggior parte dei boom economici o dei periodi di apparente prosperità, spesso sostenuti da false, negligenti o imprecise informazioni diramate dai governi o dalle banche, finisce malamente. Questo accade per lo più perché stati, banche e imprese contraggono debiti quando l’economia tira, contando su un indefinito protrarsi del periodo di abbondanza, e poi non sono più in grado di far fronte ai debiti accumulati quando si verifica la recessione.
Certamente, le crisi non sono proprio tutte uguali. Ci sono fallimenti di Stati sovrani che si verificano quando un governo non è più in grado di pagare i suoi debiti con l’estero o internamente. Ci sono crisi bancarie, come quella verificatesi alcuni anni fa, dove all’improvviso si scopre che molte delle maggiori banche non riescono a far fronte ai propri obblighi. Ci sono crisi monetarie, quali quelle che hanno colpito l’Asia o l’America latina negli anni Novanta dell’altro secolo, allorché la moneta di uno stato si deprezza rapidamente, impedendo allo Stato di far fronte a impegni contratti internazionalmente. Tutte sono ripetutamente accadute nel corso dei secoli (l’opera ancora oggi fondamentale per ricostruire la storia delle crisi finanziarie è il libro di Charles Kindleberger, Manias, Panics and Crashes: A History of Financial Crises, Basic Books, N.Y. 1989). Anzi, si può dire che è l’assenza di fallimenti o default statali nei primi anni di questo decennio che rappresenta una anomalia. Il libro di Reinhart e Rogoff è assai istruttivo prima di tutto perché offre un esame analitico, rigorosamente statistico e quantitativo delle crisi economiche, poi perché mette sotto osservazione un lungo periodo di tempo: le maggiori crisi economiche degli ultimi ottocento anni. Un dato appare significativo e quasi sempre non preso in considerazione per ciò che riguarda i fallimenti degli stati, quale può essere quello, sostanzialmente già verificatosi, della Grecia o quelli, per il momento ancora in bilico, di Spagna, Portogallo e forse anche Italia: Il fallimento, ben lungi dal rappresentare una anomalia, è una sorta di rito di passaggio allorché si passa, da un punto di vista dell’economia, di livello: nel caso attuale, quando si passa da dover interagire con un mercato di dimensioni contenute a un mercato di maggiori dimensioni o, come è successo ora, a un mercato di dimensioni globali.
Quel che è accaduto in Grecia, poi, è tutt’altro che straordinario: dal 1800 fino alla conclusione della Seconda guerra mondiale il paese è fallito a ripetizione, anzi, è sempre stato in una sorta di fallimento perpetuo: una condizione che avrebbe forse dovuto indurre a maggiore prudenza allorché la Grecia è stata accettata nella zona euro. Pochissimi sono invece i paesi che nel corso della loro storia sono riusciti a evitare situazioni di fallimento o di default nel pagamento dei propri debiti: Australia, Nuova Zelanda, Canada, Danimarca, Tailandia e Stati Uniti.