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Quale obbligo nella definizione dell’End of Waste negli Stati membri?

Quale obbligo nella definizione dell’End of Waste negli Stati membri?

(Nota alla sentenza della Corte di Giustizia Europea, Sez. II, C-60/18 del 28/03/2019)

di Diana Piacenti

Abstract

Con la recente sentenza C-60/18 del 28/03/2019 la Corte di Giustizia Europea si è pronunciata sull’interpretazione dell’articolo 6, paragrafo 4, della direttiva 2008/98/CE (conosciuta come Direttiva Quadro Rifiuti)1, ovvero la norma di carattere generale che attribuisce ad uno Stato membro il potere di decidere, caso per caso, se un determinato rifiuto abbia cessato di essere tale, quando non siano stati stabiliti criteri a livello comunitario, tenendo conto della giurisprudenza applicabile.

La Corte ha statuito che qualora non sia stato definito alcun criterio a livello dell’Unione per la determinazione della cessazione della qualifica del rifiuto per quanto riguarda un determinato tipo di rifiuti, la cessazione di tale qualifica dipende dalla sussistenza per tale tipo di rifiuti di criteri di portata generale stabiliti mediante un atto giuridico nazionale. Tuttavia, nel caso in cui lo Stato membro non abbia disciplinato i criteri di applicazione dell’end of waste per un determinato tipo di rifiuto, il detentore di rifiuti non può esigere l’accertamento della cessazione della qualifica di rifiuto da parte dell’autorità competente o di un giudice dello Stato membro.

Sommario: 1. Il problema interpretativo 2. Il caso estone 3. La pronuncia della CGUE 4. Effetti della sentenza 5. Riflessioni conclusive.

  1. Il problema interpretativo

La direttiva 2008/98/CE (“Direttiva Quadro Rifiuti”) stabilisce un quadro giuridico comune a livello europeo sulla gestione ed il trattamento dei rifiuti. Essa ha come finalità la prevenzione degli effetti nocivi per l’ambiente e per l’uomo che derivano dalla produzione e dallo smaltimento dei rifiuti.

Qualsiasi soggetto giuridico privato o pubblico intenda effettuare il trattamento dei rifiuti deve ottenere l’autorizzazione dell’autorità competente, che determina nello specifico il tipo e la quantità di rifiuti trattati, il metodo da utilizzare, nonché le operazioni di monitoraggio e di controllo.

L’articolo 6 della suddetta direttiva disciplina la cessazione della qualifica del rifiuto2 per talune tipologie di rifiuti quando essi vengono sottoposti ad un’operazione di recupero3, incluso il riciclaggio4, purché soddisfino criteri specifici, da elaborare conformemente alle seguenti condizioni, elencate al paragrafo 1: la sostanza o l’oggetto che ne derivi sia comunemente utilizzata/o per scopi specifici; esista un mercato o comunque una domanda per tale sostanza od oggetto, che, in quanto tale, soddisfi i requisiti tecnici per gli scopi specifici e rispetti la normativa e gli standard esistenti applicabili a quei prodotti; ed ultima, ma non meno importante, l’utilizzo della sostanza o dell’oggetto non porterà a impatti complessivi negativi sull’ambiente o sulla salute umana.

A questo proposito, i criteri devono includere, se necessario, valori limite per le sostanze inquinanti e tener conto di tutti i possibili effetti negativi della sostanza o dell’oggetto sull’ambiente.

La competenza ad adottare criteri specifici, riferibili ad altrettanto specifiche tipologie di rifiuti5, dai quali dipenda l’applicazione della norma della cessazione della qualifica del rifiuto, è affidata alla Commissione6. La controversa questione interpretativa dell’articolo 6 sorge in riferimento al paragrafo 4, laddove la norma dispone che se non sono stati stabiliti criteri a livello comunitario in conformità della procedura di cui ai paragrafi 1 e 2, gli Stati membri possono decidere, caso per caso, se un determinato rifiuto abbia cessato di essere tale tenendo conto della giurisprudenza applicabile.

Dal tenore letterale del primo periodo del paragrafo 4, della norma in esame, sembra che gli Stati membri abbiano la facoltà7 di determinare autonomamente quando un rifiuto cessi di essere tale. Ne discende che ciascuno Stato può anche determinare che taluni rifiuti non possono cessare di essere tali e rinunciare ad adottare una normativa relativa all’end of waste. La portata di questa facoltà non può tuttavia essere illimitata, avuto riguardo alla finalità della direttiva quadro rifiuti, in conformità per esempio della promozione del recupero dei rifiuti espressa al considerando 29 della stessa8, ma ancor più nel rispetto dei diritti fondamentali degli interessati, tra cui rientrano il diritto di proprietà e la libertà di impresa9.

In mancanza di criteri stabiliti a livello comunitario, l’astensione dello Stato membro non può costituire ostacolo alla realizzazione degli obiettivi della direttiva 2008/98/CE, quali il recupero dei rifiuti e l’utilizzazione dei materiali di recupero.

In tale contesto, si discute se possa configurarsi un obbligo nella definizione dell’end of waste per gli Stati membri, che devono tener conto dello stato più recente delle conoscenze scientifiche e tecniche (Best Available Techniques) al fine di adottare i criteri specifici che consentono alle autorità competenti ed ai giudici nazionali di accertare la cessazione della qualifica di rifiuto, che consente di renderlo utilizzabile per preservare le risorse naturali e consentire l’attuazione di un’economia circolare, salvaguardando la salute umana e senza recare pregiudizio all’ambiente.

Se non può configurarsi in capo ad ogni Stato membro un obbligo di adozione di una normativa specifica dell’end of waste, in assenza della normativa europea, si discute se il detentore dei rifiuti possa esigere un accertamento della cessazione della qualifica del rifiuto, sottoposto ad un processo di recupero green oriented, da parte dell’autorità competente ad emanarlo oppure da parte di un giudice dello Stato membro.

  1. Il caso estone

Un’azienda di Tallinn che si occupa del processo di canalizzazione e trattamento delle acque reflue urbane, attraverso un sistema di purificazione chimico-biologica a fanghi attivi volto ad ottenere fanghi di depurazione che possono essere utilizzati come terriccio per aree verdi, chiedeva che tale operazione fosse autorizzata come “recupero” dall’Agenzia per l’ambiente della Repubblica di Estonia.

Questi fanghi di depurazione rappresentano un esempio di “fine del rifiuto” (end of waste) delle acque reflue urbane, a seguito dell’operazione di recupero, messa in atto attraverso un impianto che sia a basso impatto ambientale. La cessazione della qualifica di rifiuto consentirebbe il loro utilizzo senza limitazioni di sorta, in quanto liberamente commercializzabili come prodotto. Lo Stato estone, nel recepire la direttiva 2008/98/CE, ha previsto che l’accertamento della cessazione della qualifica del rifiuto possa avvenire solo sulla base di criteri specifici individuati da un atto dell’Unione o da un regolamento emanato dal proprio Ministro dell’Ambiente. Tuttavia per i fanghi di depurazione l’indicazione di tali criteri mancava.

L’Agenzia per l’ambiente negava così l’autorizzazione richiesta dalla società, in quanto per il prodotto ottenuto dal riciclaggio biologico non sarebbe stato previsto alcuno standard di prodotto, con la conseguenza che l’operazione di trattamento del rifiuto operata dall’impresa dovrebbe essere classificata come preliminare al recupero dei rifiuti.

La società presentava ricorso al Tribunale amministrativo di Tallinn per ottenere l’annullamento del provvedimento di rigetto e la condanna dell’Agenzia a modificare le autorizzazioni esistenti o a rilasciarne di nuove in relazione a quella determinata tipologia di rifiuto. Tali ricorsi venivano respinti a causa dell’assenza di requisiti tecnici, di norme giuridiche e di norme applicabili ai prodotti.

La ricorrente presentava dunque appello avverso tale sentenza. Il Giudice della Corte d’Appello di Tallinn ha ritenuto di sospendere il procedimento e di sollevare pregiudizialmente la questione interpretativa sulla norma comunitaria dinanzi alla Corte di Giustizia10.

In primo luogo, è stato richiesto se sia conforme all’articolo 6, paragrafo 4 della direttiva quadro, l’interpretazione secondo cui, in mancanza di criteri per la cessazione della qualifica di rifiuto stabiliti a livello comunitario per una determinata tipologia di rifiuti, un atto giuridico nazionale possa stabilire criteri di portata generale dalla cui sussistenza far dipendere la cessazione della qualifica di rifiuto per rifiuto specifico.

In secondo luogo, è stato richiesto se la suddetta norma conferisce al detentore dei rifiuti11 il diritto di chiedere all’autorità competente o ad un Giudice di uno Stato membro di accertare detta cessazione, tenendo conto della giurisprudenza della Corte di Giustizia dell’Unione europea applicabile, a prescindere dal fatto che per uno specifico tipo di rifiuti esistano criteri stabiliti mediante un atto giuridico nazionale di portata generale.

  1. La pronuncia della CGUE

Intervenendo sulla causa C-60/18, in materia di controversa cessazione della qualifica di rifiuto per i fanghi di depurazione, l’Avvocato Generale dell’Ue Juliane Kokott in data 29 novembre 2018 ha presentato le proprie Conclusioni, trattandosi di un tema di particolare interesse in tutti i Paesi membri, proponendo un’accezione evolutiva della nozione di end of waste, senza neppure la necessità di coinvolgere le disposizioni della Direttiva 2018/851/Ue, profondamente modificativa dell’articolo 6 della tuttora vigente direttiva quadro.

Secondo l’Avvocato Generale, subordinare l’end of waste all’emanazione dei relativi criteri in sede comunitaria o nazionale vorrebbe dire che i detentori di rifiuti non avrebbero alcun diritto ad ottenere a livello individuale, l’accertamento del fatto che, pur in mancanza di criteri, determinati rifiuti hanno cessato di essere tali. Partendo dalla definizione stessa di rifiuto di cui all’articolo 3 della direttiva in oggetto, la cessazione della qualifica di rifiuto dovrebbe semplicemente corrispondere al fatto che il detentore non abbia più l’obbligo o l’intenzione di disfarsene. Un simile assetto sarebbe tuttavia incompatibile con la logica stessa che motiva la disciplina del recupero dei rifiuti, che presuppone la cessazione della qualifica del rifiuto per il prodotto ottenuto dal recupero, sempre che esso sia riutilizzabile e che il processo di trasformazione non abbia arrecato pregiudizio alla salute umana o all’ambiente.

Un’attività di recupero laddove non produca un’utilità del prodotto in uscita, rispetto al rifiuto in ingresso, non può essere considerata tale e nulla ha a che fare con un processo di end of waste. Sembra dunque preferirsi la posizione della dottrina secondo cui le operazioni di recupero di end of waste sono in rapporto di species nel più ampio genus di quelle di recupero o riciclaggio. Il passaggio da rifiuto a prodotto coincide con la fine del percorso dell’end of waste o recupero. Se in effetti il rifiuto rimane giuridicamente tale, perché imbrigliato nella normativa sui rifiuti fintanto che non cessa tale qualifica, significa che l’end of waste è la parte terminale del percorso di recupero del rifiuto12.

In data 28 marzo 2019, si è quindi pronunciata la Corte di Giustizia che, sebbene non abbia accolto in toto il punto di vista dell’Avvocato Generale, aderente agli obiettivi dell’economia circolare, ha tuttavia ammesso la possibilità di decisioni “caso per caso” ai sensi dell’articolo 6, paragrafo 4 della direttiva 2008/98/CE, nella sua stesura originaria, qualora esecutive di norme stabilite ad hoc dagli Stati membri.

Riguardo al primo quesito, la Corte si è espressa nel senso che l’articolo 6, paragrafo 4, consente sicuramente ad uno Stato membro di stabilire mediante un atto giuridico nazionale criteri di portata generale per un certo tipo di rifiuti dalla cui sussistenza far dipendere la cessazione di tale qualifica.

In risposta al secondo quesito, però, nega al detentore dei rifiuti che abbia attuato un processo di end of waste nel rispetto delle normative sulla protezione dell’ambiente e della salute umana, di pretendere l’accertamento della cessazione della qualifica del rifiuto sul prodotto ottenuto da parte dell’autorità competente o di un giudice dello Stato membro, in assenza di una normativa comunitaria o nazionale che disciplina quella categoria di rifiuto con criteri specifici.

In particolare, la sentenza al paragrafo 29 ricorda che: “le condizioni previste dall’articolo 6, paragrafo 1, della direttiva 2008/98 e che devono essere soddisfatte dai criteri specifici che consentono di stabilire quali rifiuti cessino di essere rifiuti, ai sensi dell’articolo 3, punto 1, di tale direttiva, qualora abbiano subìto un’operazione di recupero o di riciclaggio non possono, di per sé, consentire di dimostrare direttamente che taluni rifiuti o talune categorie di rifiuti non devono più essere considerati tali”13.

  1. Effetti della sentenza

Sebbene una parte della dottrina tenda a circoscrivere la portata della decisione della Corte alla sola vicenda dei fanghi di depurazione e comunque alla sola situazione normativa dell’Estonia, una lettura in senso riduttivo della sentenza è da escludere perché sarebbe erronea14.

Le sentenze pregiudiziali interpretative della Corte di Giustizia hanno la stessa efficacia delle disposizioni interpretate quindi vincolano il giudice del rinvio e creano un precedente vincolante. Il potere di iurisdictio esercitato è una sopravvenienza normativa costituita dall’insieme di regole interpretate.

La giurisprudenza della Corte di Giustizia, fin dal 198815, ha affermato la natura dichiarativa ex tunc delle sue decisioni sull’interpretazione di una norma di diritto europeo: con esse chiarisce e precisa il senso e la portata della norma stessa nella sua interpretazione autentica, da cui dipende l’ambito di applicazione della stessa, sin dalla sua entrata in vigore. Ne consegue che la norma così interpretata possa e debba applicarsi dal giudice del rinvio anche a rapporti giuridici sorti e costituiti prima della sentenza interpretativa della Corte.

Solo in via eccezionale, la Corte può decidere, motivando adeguatamente, di limitare l’applicabilità della norma interpretata, in ossequio al principio generale della certezza del diritto con riferimento all’ordinamento comunitario, per evitare un grave pregiudizio nei rapporti giuridici precostituiti in buona fede.

Il principio di interpretazione conforme del diritto nazionale al diritto Ue non si limita all’esegesi di tali norme, bensì esige che il giudice nazionale prenda in considerazione l’ordinamento nazionale nel suo complesso per valutare in quale misura possa essere applicato in modo tale da non addivenire ad un risultato non solo lontano ma in certi casi contrario a quello a cui mira la direttiva16.

Ribadita la portata generale e vincolante della sentenza interpretativa, analizzando il testo della sentenza resta da chiarire in che termini si debba risolvere il presunto contrasto tra il dispositivo, laddove afferma che l’articolo 6, paragrafo 4, della direttiva 2008/98/ CE non consente al detentore di rifiuti di esigere l’accertamento della cessazione della qualifica di rifiuto da parte dell’autorità competente o di un giudice dello Stato membro dell’Unione, ed il punto 24 della motivazione, in base al quale risulta che gli Stati membri possono prevedere la possibilità di decisioni relative a casi individuali, su istanze presentate dai detentori di rifiuti, “ma possono anche” adottare una norma o una regolamentazione tecnica relativa ai rifiuti di una determinata categoria o di un determinato tipo.

Come rilevato nelle Conclusioni dell’Avvocato Generale dell’Ue, l’obbligo di comunicazione alla Commissione vige per i soli progetti di regola tecnica e non anche per le decisioni individuali.

In realtà non vi è contrasto perché il punto 24 si limita a riconoscere in astratto una duplice scelta opzionale per lo Stato membro. Infatti, gli Stati membri possono gestire i casi non previsti da alcuna normativa alternativamente tra decisioni individuali che non necessitano di comunicazione e l’adozione di una norma o una regolamentazione tecnica da notificare alla Commissione.

In entrambi i casi, è comunque necessaria una espressa previsione normativa da parte dello Stato membro che regolamenti tali opzioni procedimentali, mancando la quale, in concomitanza di mancata regolamentazione a livello comunitario, i detentori di rifiuti sottoposti a processo di end of waste, non possono esigere il provvedimento amministrativo o la pronuncia giurisdizionale di accertamento che vada a colmare la lacuna normativa ai fini dell’accertamento della cessazione della qualifica di rifiuto.

  1. Riflessioni conclusive

La sentenza della Corte di Giustizia si è espressa sull’interpretazione dell’articolo 6, paragrafo 4, della direttiva 2008/98/CE nella sua versione originaria, senza tener conto delle modifiche intervenute con la direttiva 2018/851/UE17, in quanto temporalmente non applicabili al caso estone.

La nuova versione della norma in esame sancisce che, in assenza di criteri specifici per l’end of waste tanto a livello europeo quanto a livello statale, gli Stati membri possono decidere “caso per caso” la cessazione della qualifica di rifiuto, sulla base delle condizioni di cui ai paragrafi 1 e 2 dell’articolo 6 e tenendo conto dei valori limite delle sostanze inquinanti e del loro impatto sulla salute umana e sull’ambiente, senza necessità di notificare tali decisioni alla Commissione Ue.

La previsione è stata sostanzialmente trasposta al punto 24 della motivazione della sentenza della Corte, la quale dunque ne condivide la portata innovativa.

La stessa Guida per l’interpretazione della direttiva 2008/9818 chiarisce che l’obbligo di notifica non sussiste nemmeno per le decisioni individuali che si basano su disposizioni amministrative generali per le quali la notifica è obbligatoria. Tuttavia la sentenza presuppone sempre una disciplina nazionale che regoli la procedura “caso per caso”, escludendo un’efficacia diretta dell’articolo 6, paragrafo 4, pur se sufficientemente dettagliato da poter essere applicato direttamente senza normativa di recepimento nazionale.

Inoltre la nuova norma distingue tra competenze dello Stato membro, che può rendere pubbliche tramite strumenti elettronici le informazioni sulle decisioni adottate “caso per caso”, e delle autorità competenti, investite di una mera attività di controllo. A ben vedere, però, nella suddetta Guida si legge che lo Stato membro, che può decidere il caso singolo, significa “qualsiasi livello all’interno dello Stato membro incaricato di sviluppare tali criteri nell’ambito della struttura amministrativa nazionale”, indipendentemente dall’articolazione interna dell’apparato statale.

Le modifiche intervenute con la direttiva 2018/851 mirano a valorizzare i sistemi di gestione dei rifiuti che “possono contribuire a realizzare un’economia circolare”, consentendo il ricorso a sistemi di gestione dei rifiuti in cui la competenza della raccolta dei rifiuti urbani spetta ai Comuni, a sistemi in cui tali servizi sono appaltati a operatori privati oppure a qualsiasi altra tipologia di sistema di ripartizione delle competenze tra i soggetti pubblici e privati. La scelta di questi sistemi e la decisione di modificarli o meno restano di competenza degli Stati membri.

In Italia la cessazione della qualifica di rifiuto (end of waste) è disciplinata dall’articolo 184 ter del d.lgs. 152/2006, ove si prevede che i criteri “sono adottati in conformità a quanto stabilito dalla disciplina comunitaria ovvero, in mancanza di criteri comunitari, caso per caso per specifiche tipologie di rifiuto attraverso uno o più decreti del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare”19.

Con la sentenza n. 1229 del 28 febbraio 2018, il Consiglio di Stato20 ha precisato che il potere di individuare i casi in cui un rifiuto cessa di essere tale è concesso (in base al combinato disposto della direttiva rifiuti e del richiamato articolo 184 ter) solamente allo Stato e non anche alle Regioni.

Una sentenza definita sconcertante che deriverebbe da un equivoco interpretativo nel quale sarebbe incorso il Collegio, nella disamina incentrata più su disposizioni specifiche che su una lettura sistemica dell’intera disciplina concernente i rifiuti21, che ha negato la competenza delle Regioni e delle autorità periferiche a dichiarare “autonomamente” l’end of waste a favore dei rifiuti di qualsiasi tipo, previamente trattati presso impianti di recupero regolarmente autorizzati.

Questa pronuncia rappresenta indubbiamente una brusca frenata all’attuazione dell’economia circolare nel nostro Paese, aggravata dall’impasse dell’attuazione dei precetti espressi, a livello europeo, dall’articolo 6 della direttiva 2008/98/CE, e, in sede nazionale, dall’articolo 184 ter del d.lgs. n. 152/2006, in materia di “cessazione della qualifica di rifiuto”.

In base al principio di sussidiarietà, sancito dal Trattato dell’Unione europea, nei settori di competenza non esclusiva dell’Unione, essa interviene solo se e nella misura in cui gli obiettivi dell’azione prevista non possono essere sufficientemente realizzati dagli Stati membri e possono essere meglio realizzati al livello dell’UE. Per contro, va anche considerato che se ciascuna delle autorità competenti sul territorio determinasse autonomamente l’end of waste “caso per caso” sarebbe impossibile garantire livelli uniformi di tutela dell’ambiente e della salute umana, né tantomeno garantire un’eguale tutela della concorrenza e della parità di trattamento tra imprese. Non tralasciando che in base l’articolo 117 della Costituzione non attribuisce alle Regioni potestà legislativa in materia di end of waste che rimane di competenza esclusiva dello Stato.

Concludendo, si può auspicare che in assenza di una normativa europea di riferimento, ciascuno Stato membro delinei quantomeno la cornice di criteri per la definizione dell’end of waste per ciascuna tipologia di rifiuto, permettendo alle autorità territorialmente competenti di rilasciare ai soggetti interessati le relative autorizzazioni alla gestione e trattamento dei rifiuti con finalità di riutilizzo, nell’ottica di sviluppo dell’economia circolare e di tutela dell’ambiente.

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1 nella versione antecedente alla modifica intervenuta con la direttiva 2018/851/UE.

2 «rifiuto» è “qualsiasi sostanza od oggetto di cui il detentore si disfi o abbia l’intenzione o l’obbligo di disfarsi”, art. 3, paragrafo 1, punto 1, direttiva 2008/98/CE.

3 «recupero» è “qualsiasi operazione il cui principale risultato sia di permettere ai rifiuti di svolgere un ruolo utile sostituendo altri materiali che sarebbero stati altrimenti utilizzati per assolvere una particolare funzione o di prepararli ad assolvere tale funzione, all’interno dell’impianto o nell’economia in generale”, art. 3, paragrafo 1, punto 15, direttiva cit.

4 «riciclaggio» è “qualsiasi operazione di recupero attraverso cui i materiali di rifiuto sono ritrattati per ottenere prodotti, materiali o sostanze da utilizzare per la loro funzione originaria o per altri fini. Include il ritrattamento di materiale organico ma non il recupero di energia né il ritrattamento per ottenere materiali da utilizzare quali combustibili o in operazioni di riempimento, art. 3, paragrafo 1, punto 17, direttiva cit.

5 Tali criteri sono stati fissati a livello europeo nei soli tre casi dei rottami metallici (Regolamento n.333/2011/Ue), del vetro (Regolamento n.1179/2012/Ue) e del rame(Regolamento n.715/2013/Ue).

6 “secondo la procedura di regolamentazione con controllo di cui all’articolo 39, paragrafo 2”, così art.6, paragrafo 2, direttiva cit.

Si tratta di un tipo di procedura in vigore dal 2006 al 2009 per le misure paralegislative. Questa procedura non può più essere prescritta dai nuovi atti legislativi, ma è tuttora temporaneamente applicata in relazione agli atti giuridici che la prevedono e non sono ancora stati oggetto di modifica formale.

7 Tale facoltà è conforme all’art. 193 TFUE che permette agli Stati membri di mantenere o prendere provvedimenti per una protezione maggiore rispetto a quella prevista in sede europea, ma qui incontra alcuni limiti in ragione della materia trattata.

8 Secondo cui “gli Stati membri dovrebbero sostenere l’uso di materiali riciclati in linea con la gerarchia dei rifiuti e con l’obiettivo di realizzare una società del riciclaggio e non dovrebbero promuovere, laddove possibile, lo smaltimento in discarica o l’incenerimento di detti materiali riciclati”, Considerando 29), direttiva cit.

9 Artt. 16 e 17, Carta dei diritti fondamentali UE.

10 Rinvio pregiudiziale ex art. 267 TFUE.

11 «detentore di rifiuti» è “il produttore dei rifiuti o la persona fisica o giuridica che ne è in possesso”, art. 3, paragrafo 1, punto 6, direttiva cit.

12 Cfr. in questo senso D.Carissimi, End of waste. Chi sei? Dove vai?, in  ambientelegaledigesta.it, N.1 Gennaio- Febbraio 2019.

13 Vedi in tal senso, sentenza del 7 marzo 2013, Lapin ELY-keskus, liikenne ja infrastruktuuri, C-358/11, EU:C:2013:142, punto 55. 14 Cfr. P. Ficco, P. Fimiani, End of Waste: quali soluzioni dopo il “no” della Corte di Giustizia alle autorizzazioni “caso per caso”?, in Rivista Rifiuti – Bollettino di informazione normativa, numero 272, 30 maggio 2019, Milano.

15 Sentenza del 2 febbraio 1988, Barra contro Belgio, C-309/85.

16 L’interpretazione conforme al diritto dell’Unione europea, Profili e limiti di un vincolo problematico, a cura di Alessandro Bernardi, Jovene editore, 2015.

17 La direttiva è in vigore dal 4 luglio 2018 e dovrà essere recepita dagli Stati membri entro il 5 luglio 2020.

18 Directorate-General for Environment, Guidelines on the interpretation of key provisions of Directive 2008/98/EC on waste, giugno 2012, pag. 24.

19 In attuazione di tale disposizione sono stati emanati due soli regolamenti end of waste : il D.M. 14 febbraio 2013, n. 22 (che disciplina la cessazione della qualifica di rifiuto di determinate tipologie di combustibili solidi secondari – CSS) e il D.M. 28 marzo 2018, n. 69 (che disciplina la cessazione della qualifica di rifiuto di conglomerato bituminoso).

20 Cons. Stato Sez. IV, 28/02/2018, n. 1229.

21 Vedi A. Muratori, Una doccia fredda dal Consiglio di Stato sulla competenza delle Regioni a sancire l’EoW mediante provvedimenti autorizzativi, in Ambiente&Sviluppo, n.4/2018.

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