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PUBBLICA AMMINISTRAZIONE: unificazione delle scuole di formazione per le amministrazioni centrali.

Amministrazione pubblica – unificazione delle scuole di formazione per le amministrazioni centrali

CORTE COSTITUZIONALE SENTENZA 8 ottobre 2019, n.241 (Data deposito in cancelleria 21 novembre 2019)

Giudizio di legittimita’ costituzionale in via incidentale. Amministrazione pubblica – Unificazione delle scuole di formazione per le amministrazioni centrali – Trasferimento dei docenti ordinari e dei ricercatori dei ruoli a esaurimento della soppressa Scuola superiore dell’economia e delle finanze (SSEF) alla Scuola nazionale dell’amministrazione (SNA) – Applicazione dello stato giuridico dei professori o ricercatori universitari e omologazione del trattamento economico a quello dei professori universitari di prima fascia a tempo pieno – Denunciata violazione dei principi di uguaglianza, ragionevolezza, legittimo affidamento nella certezza delle situazioni giuridiche – Non fondatezza delle questioni. – Decreto-legge 24 giugno 2014, n. 90, convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto 2014, n. 114, art. 21, comma 4. – Costituzione, artt. 3, 36, 38, 51 e 97. (T-190241) (GU n. 48 del 27-11-2019)


  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giorgio LATTANZI; 
Giudici  :Aldo  CAROSI,  Marta  CARTABIA,  Mario   Rosario   MORELLI,
  Giancarlo CORAGGIO,  Giuliano  AMATO,  Silvana  SCIARRA,  Daria  de
  PRETIS, Nicolo' ZANON, Franco  MODUGNO,  Augusto  Antonio  BARBERA,
  Giulio  PROSPERETTI,  Giovanni  AMOROSO,  Francesco  VIGANO',  Luca
  ANTONINI, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nei giudizi di legittimita' costituzionale dell'art. 21, comma 4,
del decreto-legge 24 giugno  2014,  n.  90  (Misure  urgenti  per  la
semplificazione e la trasparenza amministrativa  e  per  l'efficienza
degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella  legge
11 agosto 2014, n. 114, promossi con quattro ordinanze del 2  maggio,
una sentenza non definitiva del 4 maggio e tre ordinanze del 9 maggio
2018 dal Consiglio di Stato, sezione quarta, rispettivamente iscritte
dal n. 121 al n. 128 del registro ordinanze 2018 e  pubblicate  nella
Gazzetta Ufficiale della Repubblica  n.  38,  prima  serie  speciale,
dell'anno 2018. 
    Visti gli atti di costituzione di E. S., di M. L., di G.  F.,  di
V. L., di M. M., di M. P., di G. C. e di V. F., nonche' gli  atti  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udito  nell'udienza  pubblica  dell'8  ottobre  2019  il  Giudice
relatore Nicolo' Zanon; 
    uditi gli avvocati Massimo Luciani per E. S., per M. L.,  per  G.
F., per M. P., per G. C. e per V. F., Luisa Torchia per E. S., per M.
L. e per G. F., Alessandro Botto per V. L. e Gianluigi Pellegrino per
M. M. e l'avvocato dello Stato Fabrizio Fedeli per il Presidente  del
Consiglio dei ministri. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Il Consiglio di Stato, sezione quarta, con quattro  ordinanze
del 2 maggio 2018 (r.o. n. 121, n. 122, n. 123 e n.  124  del  2018),
una sentenza non definitiva del 4 maggio 2018 (r.o. n. 125 del  2018)
e tre ordinanze del 9 maggio 2018 (r.o. n. 126, n. 127 e n.  128  del
2018), tutte di tenore  sostanzialmente  analogo,  ha  sollevato,  in
riferimento agli artt.  3,  36,  38,  51  e  97  della  Costituzione,
questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 21, comma  4,  del
decreto-legge  24  giugno  2014,  n.  90  (Misure  urgenti   per   la
semplificazione e la trasparenza amministrativa  e  per  l'efficienza
degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella  legge
11 agosto 2014, n. 114. 
    La disposizione censurata prevede che  i  docenti  ordinari  e  i
ricercatori dei ruoli a esaurimento della soppressa Scuola  superiore
dell'economia e delle finanze (d'ora in poi: SSEF)  siano  trasferiti
alla Scuola nazionale dell'amministrazione (d'ora in poi: SNA) e  che
ad essi sia «applicato  lo  stato  giuridico  dei  professori  o  dei
ricercatori   universitari»,   nonche'   un   trattamento   economico
rideterminato, con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri,
al fine di renderlo «omogeneo» a quello  degli  altri  docenti  della
SNA,   «sulla   base    del    trattamento    economico    spettante,
rispettivamente, ai professori o ai ricercatori universitari a  tempo
pieno con corrispondente anzianita'». 
    In attuazione di tale previsione e' stato adottato il decreto del
Presidente del Consiglio dei  ministri  25  novembre  2015,  n.  202,
contenente il «Regolamento  recante  determinazione  del  trattamento
economico dei docenti  della  Scuola  nazionale  dell'amministrazione
(SNA)» che, per quanto qui rileva, ha previsto - all'art. 2, commi  1
e 4, e all'art. 5, commi 2 e 4 - che ai docenti a  tempo  pieno  e  a
tempo indeterminato della SNA si applichi  il  trattamento  economico
annuo lordo, nonche' la disciplina  delle  incompatibilita'  previsti
per  i  professori  universitari  di  prima  fascia  a  tempo  pieno,
computando  i  periodi  di  servizio  svolti  come  docente  a  tempo
indeterminato presso la SSEF come anzianita' di  servizio  nel  ruolo
dei professori universitari di prima o seconda fascia a tempo pieno. 
    Il Consiglio di Stato premette di essere stato adito  in  appello
dalla Presidenza del Consiglio dei Ministri avverso le  sentenze  con
cui il Tribunale amministrativo regionale per il Lazio, sezione prima
- accogliendo i ricorsi presentati da E. S., M. L., G. F., V. L.,  M.
M., M. P., G. C. e V. F., tutti  docenti  provenienti  dalla  SSEF  e
trasferiti alla SNA -  aveva  disposto  l'annullamento  dell'art.  2,
commi 1 e 4, e dell'art. 5, commi 2 e 4,  del  d.P.C.m.  25  novembre
2015, nonche' i provvedimenti consequenziali adottati. 
    A fondamento di tali  decisioni,  il  giudice  amministrativo  di
primo grado aveva evidenziato come l'art. 21, comma 4, del d.l. n. 90
del  2014,  come  convertito,   si   fosse   limitato   a   prevedere
l'applicazione dello stato  giuridico  dei  professori  universitari,
senza che da cio' potesse pero' dedursi l'introduzione del regime  di
incompatibilita' proprio dei professori ordinari a  tempo  pieno.  Il
riferimento contenuto nella previsione di legge al regime  del  tempo
pieno sarebbe stato, infatti, da intendersi soltanto «come  parametro
di riferimento a fini economici, cui era  delegato  l'esecutivo»,  ma
esso non avrebbe avuto l'obiettivo di modificare lo status  giuridico
del ruolo dei professori ad esaurimento della ex SSEF. 
    Inoltre,   l'«omologazione»   del   trattamento   economico   dei
professori ex SSEF a  quello  dei  professori  universitari  a  tempo
pieno, sarebbe stata disposta dal d.P.C.m.  25  novembre  2015  senza
tenere conto della peculiarita' dei primi, «inseriti a suo  tempo  in
un ruolo ad esaurimento in virtu' del  processo  di  riorganizzazione
delle  scuole  di  formazione  della  P.A.   ...   con   procedimento
sostanzialmente coincidente a quello  di  mobilita'  obbligatoria  ex
lege dei pubblici dipendenti, che  prevede  pero'  il  godimento  del
medesimo trattamento economico garantito al dipendente e su  cui  non
opera(va) l'abrogato art. 202 T.U. n. 3/1957». 
    Il  d.P.C.m.  neppure  avrebbe  riservato  agli  interessati   un
adeguato lasso di tempo per valutare se continuare a permanere  nella
SNA (con una riduzione dello stipendio variabile, a seconda dei  casi
esaminati dal TAR Lazio, tra il quaranta  e  il  sessanta  per  cento
rispetto  a   quello   precedentemente   percepito;   riduzione   che
influirebbe anche sul trattamento pensionistico) o se  continuare  ad
esercitare soltanto l'attivita' libero-professionale. 
    Negli atti di impugnazione avverso le sentenze del TAR Lazio,  la
Presidenza del Consiglio dei ministri ha sostenuto che proprio l'art.
21, comma 4, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, avrebbe invece
espressamente  disposto  l'applicazione  dello  stato  giuridico  dei
professori universitari ai docenti del ruolo ad esaurimento della  ex
SSEF, confermando tra l'altro quanto gia'  previsto  dalla  normativa
precedentemente in vigore (viene richiamato l'art. 5,  comma  4,  del
decreto del  Ministro  delle  finanze  28  settembre  2000,  n.  301,
«Regolamento recante norme per il  riordino  della  Scuola  superiore
dell'economia e delle  finanze»,  cosi'  rubricato  a  seguito  delle
modifiche ad esso apportate dall'art. 1,  comma  1,  lettera  a,  del
decreto del Ministro dell'economia e delle finanze 29 marzo 2002,  n.
80, «Modifiche al regolamento ministeriale 28 settembre 2000, n. 301,
concernente il riordino della Scuola superiore dell'economia e  delle
finanze»). 
    La stretta correlazione tra lo status giuridico e il  trattamento
economico dei professori e ricercatori universitari  sarebbe  d'altra
parte comprovata anche da altre  previsioni  normative  (si  cita  il
combinato disposto dell'art. 3 del decreto legislativo 30 marzo 2001,
n. 165, recante «Norme  generali  sull'ordinamento  del  lavoro  alle
dipendenze delle amministrazioni pubbliche» e dell'art. 6 della legge
30 marzo 2010, n. 240, recante «Norme in  materia  di  organizzazione
delle universita', di personale accademico  e  reclutamento,  nonche'
delega al Governo per incentivare  la  qualita'  e  l'efficienza  del
sistema universitario») e l'estensione del regime di incompatibilita'
sarebbe pertanto una conseguenza ragionevole  della  rideterminazione
del trattamento economico dei professori ex SSEF. 
    Inoltre, in capo a tali soggetti non potrebbe essersi consolidato
un affidamento tutelabile al mantenimento del precedente  trattamento
giuridico  ed  economico,  in  quanto  questo  sarebbe   «disancorato
rispetto a quello dei  docenti  universitari  che  svolgono  analoghe
funzioni» presso la SNA. Il legislatore, d'altra  parte,  proprio  al
fine di «creare omogeneita' tra i docenti della ex SSEF e  gli  altri
docenti  della»  SNA,  avrebbe  indicato,  quale  parametro  per   la
rideterminazione del trattamento economico dei primi, il  trattamento
economico «spettante ai professori universitari  a  tempo  pieno  con
corrispondente  anzianita'».  Infine,  le  decisioni  del  TAR  Lazio
avrebbero omesso di considerare che - ai  sensi  dell'art.  1,  comma
458, della legge 27 dicembre 2013, n. 147, recante «Disposizioni  per
la formazione del bilancio annuale e pluriennale dello  Stato  (Legge
di stabilita' 2014)» - non opererebbe piu' «il diritto del dipendente
a mantenere  il  trattamento  economico  piu'  favorevole  goduto  in
precedenti posizioni lavorative». 
    2.-  Riassunti  i  fatti  di  causa  e  ricordate  le  previsioni
normative e regolamentari delle quali devono  fare  applicazione,  le
ordinanze di rimessione - smentendo la tesi fatta propria dal giudice
di primo grado  -  assumono  che  le  disposizioni  del  d.P.C.m.  25
novembre 2015 «costituiscano coerente applicazione dell'art. 21»  del
d.l. n. 90 del 2014, sia con riferimento allo status giuridico  e  al
connesso  regime  delle  incompatibilita',  sia  con  riferimento  al
trattamento economico attribuito ai docenti ex SSEF. 
    Si legge infatti negli  atti  di  promovimento  del  giudizio  di
legittimita'  costituzionale  che  «il  regolamento   -   una   volta
equiparata la categoria dei docenti di cui al proprio art. 2, co.  2,
al professore di  prima  fascia  a  tempo  pieno  -  non  poteva  che
applicare agli appartenenti a detta categoria,  conseguentemente,  lo
stato giuridico previsto per quest'ultima,  ivi  compreso  il  regime
delle incompatibilita' e delle  autorizzazioni  allo  svolgimento  di
eventuali incarichi». 
    La  contraria  tesi  sostenuta  dal  TAR   Lazio,   secondo   cui
l'applicazione dello status giuridico previsto dall'art. 21, comma 4,
del  d.l.  n.  90  del  2014,  come  convertito,  non  implica  anche
l'applicazione  del  regime   delle   incompatibilita',   porterebbe,
infatti, a ritenere che  l'attribuzione  dello  stato  giuridico  dei
professori avrebbe una portata limitata rispetto  al  «complesso  dei
diritti, dei doveri, degli obblighi, oneri  e  limitazioni  che  ogni
attribuzione di status comporta». 
    Il Consiglio di Stato osserva che «tale interpretazione, oltre  a
non trovare plausibile riscontro nella norma primaria  (e  nella  sua
corretta applicazione), comporterebbe che, mentre si  attribuisce  il
trattamento economico (status  economico)  del  professore  di  prima
fascia a tempo pieno, al tempo stesso lo status giuridico - che  pure
e' dichiarato  essere  quello  di  "professore  universitario"  -  in
realta'  continuerebbe  ad   essere,   in   assenza   di   disciplina
transitoria, quello delineato dalla previgente  normativa,  con  cio'
ponendosi  in  contrasto  con  la  finalita'  di   "omogeneizzazione"
enunciata dal legislatore». 
    In definitiva, il d.P.C.m. 25 novembre 2015 avrebbe rideterminato
il trattamento economico dei docenti ex SSEF,  attribuendo  loro  «il
massimo  trattamento  tra  quelli  rinvenibili  nella  categoria  dei
professori universitari». Una  volta  compiuta  tale  operazione,  lo
stesso  d.P.C.m.  avrebbe  «chiarito  come  lo  status  giuridico  di
professore  universitario  (gia'  ex  lege   attribuito)   veniva   a
specificarsi in relazione alla qualifica concretamente attribuita  ai
fini   dell'erogazione   del   trattamento   economico    (professore
universitario di prima fascia a tempo pieno), realizzandosi una piana
e coerente corrispondenza tra status giuridico e status economico». 
    Anche l'attribuzione del trattamento economico  -  e  del  futuro
trattamento pensionistico - del  professore  universitario  di  prima
fascia a tempo pieno, prevista dall'art. 2, comma 1, del d.P.C.m.  25
novembre 2015 e dai conseguenti  atti  amministrativi,  costituirebbe
pertanto  «coerente  applicazione  della  norma   primaria»,   mentre
eventuali disparita' di trattamento  tra  docenti  appartenenti  alle
varie scuole e con  provenienza  diversa  rileverebbero  quanto  alla
possibile legittimita' costituzionale della norma  primaria,  ma  non
costituirebbero un vizio di legittimita' del d.P.C.m. 
    Nessun  rilievo  avrebbe  la   delega   all'esecutivo   contenuta
nell'art. 11, comma 1, lettera d), della legge 7 agosto 2015, n.  124
(Deleghe  al   Governo   in   materia   di   riorganizzazione   delle
amministrazioni pubbliche) e volta alla ridefinizione del trattamento
economico dei docenti della SNA, in quanto  essa  non  e'  stata  mai
attuata. 
    Tutto  quanto  appena  ricordato   determinerebbe   pertanto   la
rilevanza delle questioni di  legittimita'  costituzionale  dell'art.
21, comma 4, del d.l. n. 90 del 2014,  come  convertito,  poiche'  di
esso il giudice rimettente  e'  chiamato  a  «fare  applicazione,  in
quanto  e'  di  questo   che   gli   atti   impugnati   (disposizioni
regolamentari e provvedimenti) fanno applicazione». 
    La rilevanza sussisterebbe anche con riferimento  alle  questioni
sollevate con la sentenza non definitiva iscritta al r.o. n. 125  del
2018: in tale pronuncia, il Consiglio di Stato, dopo aver  dichiarato
la  fondatezza  di  uno  dei  motivi  di  ricorso   prospettato   dai
ricorrenti, precisa che la decisione sugli altri motivi di ricorso  -
necessaria  ai  fini  di  una  «maggiore  "pienezza"   della   tutela
giurisdizionale accordata al ricorrente e ad una maggiore ampiezza  e
precisione dell'effetto conformativo derivante dalla  sentenza  sulla
successiva attivita' della Pubblica Amministrazione»  -  dipenderebbe
necessariamente  dalla  soluzione  delle  questioni  di  legittimita'
costituzionale sollevate sull'art. 21, comma 4, del d.l.  n.  90  del
2014, come convertito. 
    3.- Quanto alla motivazione sulla non manifesta infondatezza,  il
Consiglio di Stato evidenzia sei diverse ragioni che  lo  inducono  a
dubitare della  legittimita'  costituzionale  della  disposizione  in
esame. 
    In primo luogo, la disposizione censurata confliggerebbe con  gli
artt. 3 e 51 Cost., poiche' nell'applicare ai docenti della  ex  SSEF
lo stato giuridico dei professori e dei ricercatori universitari, non
terrebbe conto «ne'  della  diversificazione  delle  provenienze  dei
medesimi  (dirigenti   di   amministrazioni   pubbliche,   magistrati
ordinari,  amministrativi  e  contabili,  avvocati  dello   stato   e
consiglieri parlamentari), conservate pur in  costanza  del  rapporto
con la SSEF, ne' della differenza di status originario esistente  tra
tali docenti e quelli delle altre Scuole confluite nella SNA e  della
stessa SNA». Sarebbe dunque violato il principio di ragionevolezza in
quanto la previsione impugnata, prevedendo «un  "trattamento  eguale"
(nel senso di standardizzato) sul piano giuridico» per situazioni tra
loro diverse, determinerebbe «un "accesso"  (nel  senso  di  nuova  e
diversa configurazione del rapporto di impiego) agli uffici  pubblici
non in condizioni di uguaglianza». 
    In secondo luogo, l'art. 21, comma 4, del d.l. n.  90  del  2014,
come convertito, violerebbe sempre gli artt. 3 e 51 Cost.,  ma  sotto
un diverso profilo:  la  disposizione  infatti,  pur  attribuendo  al
docente ex SSEF il trattamento economico del professore a tempo pieno
e  pur   qualificando   anche   «lo   status   giuridico   in   senso
corrispondente, ivi compreso il regime delle  incompatibilita'»,  non
prevedrebbe il diritto di opzione per il regime a tempo definito. Con
la conseguenza che i docenti ex SSEF, pur  equiparati  al  professore
universitario, costituirebbero «l'unico esempio di tale categoria  al
quale non e' riconosciuta la possibilita' di scelta tra tempo pieno e
tempo definito». 
    In terzo luogo, la disposizione censurata contrasterebbe con  gli
artt. 3 e 36 Cost., poiche', nell'attribuire ai  docenti  provenienti
dalla SSEF «il trattamento economico spettante,  rispettivamente,  ai
professori  o  ai  ricercatori  universitari  a   tempo   pieno   con
corrispondente anzianita'», determinerebbe, in modo  irragionevole  e
«con  violazione  del  legittimo  affidamento  nella  certezza  delle
situazioni  giuridiche,  una  compressione   e/o   livellamento   dei
trattamenti  economici  da  corrispondersi  in  futuro».  Una  simile
«reformatio in peius», che  non  stabilisce  neppure  «meccanismi  di
progressiva  omogeneizzazione»,  non  terrebbe  inoltre   in   alcuna
considerazione i diversi  trattamenti  economici  precedentemente  in
godimento e appiattirebbe, in modo  irragionevole  e  ingiustificato,
tutte le retribuzioni. 
    In quarto luogo, l'art. 21, comma 4, del d.l.  n.  90  del  2014,
come convertito, violerebbe gli artt. 3, 36 e 38 Cost., nella  misura
in cui non prevedrebbe «che a docenti aventi qualifiche e provenienze
diverse nell'ambito del piu'  generale  rapporto  di  lavoro  con  le
Pubbliche   Amministrazioni,   sia    conservato    il    trattamento
previdenziale  attualmente  previsto   (o   comunque   questo   venga
autonomamente considerato e valutato)» e che dunque a  costoro  venga
applicato il trattamento previdenziale del regime universitario. 
    Ancora, la disposizione impugnata violerebbe poi gli artt. 3 e 97
Cost., in quanto, omettendo di considerare la diversita' dei ruoli di
provenienza dei docenti della ex SSEF, determinerebbe la  «violazione
dei principi  di  imparzialita'  e  buon  andamento  da  parte  della
Pubblica Amministrazione, nei confronti di soggetti ad essa legati da
rapporto di impiego». 
    Infine, in sesto luogo, la disposizione censurata  contrasterebbe
con gli artt. 3, 36, 38,  51  e  97  Cost.,  «per  non  essere  stata
prevista una "norma transitoria"», che consenta ai docenti  della  ex
SSEF  «una  possibilita'  di   scelta,   non   immediata   ma   anche
temporalmente definita», tra  il  rientro  nei  ruoli  di  originaria
provenienza ovvero la permanenza «nel (modificato) status di  docente
presso la SNA». 
    4.- Con atti di analogo tenore depositati il 15 e il  16  ottobre
2018, si sono costituiti in giudizio E. S., M. L., G. F., V.  L.,  M.
M., M. P., G.  C.  e  V.  F.,  chiedendo  preliminarmente  che  venga
dichiarata  l'inammissibilita'  delle   questioni   di   legittimita'
costituzionale sollevate, per due ragioni. 
    Innanzitutto, perche' il giudice a quo non avrebbe esperito alcun
tentativo di  interpretazione  costituzionalmente  orientata  -  come
quella adottata dal giudice  di  primo  grado  -  della  disposizione
sottoposta al giudizio della Corte costituzionale. 
    Secondo le parti  costituite,  sarebbe  stato  infatti  possibile
interpretare l'art. 21, comma 4,  del  d.l.  n.  90  del  2014,  come
convertito, ritenendo che esso, da una parte, non avrebbe  esteso  ai
docenti  ex  SSEF  il  regime  di  incompatibilita'  dei   professori
universitari a tempo pieno, ma avrebbe «genericamente esteso [...] le
prerogative dello status giuridico dei professori  universitari  tout
court». Ancora, lo stesso art.  21  poteva  essere  interpretato  nel
senso che esso non avrebbe imposto «l'assimilazione  del  trattamento
economico dei docenti provenienti dai ruoli ad esaurimento della SSEF
a quello dei professori universitari a tempo pieno»,  ma  si  sarebbe
limitato a «richiedere un processo di "omogeneizzazione"  (e  non  di
omologazione)» del trattamento economico dei docenti ex SSEF a quello
degli altri docenti SNA, «la cui retribuzione deve a sua volta essere
stabilita  "sulla   base"   di   quella   spettante   ai   professori
universitari» e non dovrebbe quindi coincidere con essa. 
    Le  questioni  sarebbero   poi   inammissibili   anche   perche',
attraverso  la  loro   rimessione,   il   giudice   a   quo   avrebbe
impropriamente richiesto alla Corte  costituzionale  un  mero  avallo
della  interpretazione  prescelta  in  ordine  al  significato  della
disposizione censurata. 
    In alternativa, M. M. ha  chiesto  che  la  Corte  costituzionale
valuti la possibilita' di adottare una  pronuncia  interpretativa  di
rigetto che preservi la compatibilita' della  disposizione  censurata
«con i principi di ragionevolezza,  di  legittimo  affidamento  e  di
adeguatezza  della  tutela  retributiva  e  previdenziale».   Analoga
richiesta e' stata avanzata anche da M. P., G. C. e  V.  F.  che,  in
questa prospettiva, ritengono che la Corte costituzionale  possa  far
proprio l'orientamento  interpretativo  recepito  nelle  sentenze  di
primo grado e nelle  ordinanze  cautelari  del  Consiglio  di  Stato,
«disattes[o] (immotivatamente)» dalle ordinanze di rimessione. 
    In   subordine,   tutte   le   parti,   aderendo    nel    merito
all'impostazione  seguita  dal  Consiglio  di  Stato,  hanno  chiesto
l'accoglimento delle questioni sollevate. 
    In  primo  luogo,  con  riferimento  alla   pretesa   illegittima
equiparazione dei docenti ex SSEF ai professori universitari a  tempo
pieno, si evidenzia come la previsione, violando gli  artt.  3  e  51
Cost., non tenga in alcuna considerazione la provenienza  diversa  di
tali soggetti, «che hanno intrapreso [...] percorsi  ben  diversi  da
quelli della carriera accademica e che hanno scelto poi di  dedicarsi
alla formazione dei dirigenti della pubblica amministrazione non gia'
in qualita' di  professori  universitari  [...]  bensi'  di  soggetti
dotati di esperienze tecniche ed operative». Inoltre,  la  previsione
non terrebbe in alcun conto le differenze di status esistenti  tra  i
docenti ex SSEF, che sono docenti a tempo indeterminato e non possono
piu' rientrare  nell'amministrazione  di  provenienza,  e  gli  altri
docenti della SNA, che invece svolgono  incarichi  a  termine  e  che
dunque conservano intatta l'opportunita' del rientro. 
    In secondo luogo, l'applicazione «coattiva ed indiscriminata» del
regime delle incompatibilita'  previste  per  i  professori  a  tempo
pieno, senza che ai docenti ex SSEF venga consentito di optare per un
regime a tempo definito, realizzerebbe una ingiustificata  disparita'
di  trattamento  di  tali  docenti  proprio   rispetto   ai   docenti
universitari, che possono invece scegliere  tra  il  regime  a  tempo
pieno e quello a tempo definito. 
    In terzo luogo, in violazione degli artt. 3 e 36  Cost.,  sarebbe
stata disposta la rideterminazione in peius del trattamento economico
dei docenti ex SSEF, utilizzando  come  unico  parametro  le  tabelle
stipendiali dei professori universitari,  senza  considerare  che  le
attivita' cui sono chiamati  i  primi  sono  diverse  da  quelle  dei
secondi.  Inoltre,   la   disposizione   non   terrebbe   in   alcuna
considerazione i trattamenti economici di cui fruivano i  docenti  ex
SSEF, con cio' violando il principio dell'affidamento da essi riposto
nel mantenimento di tale trattamento, che sarebbe stato drasticamente
abbattuto. Violazione che sarebbe ancora  piu'  evidente  poiche'  in
questo caso - come avrebbe invece evidenziato il Consiglio di  Stato,
sezione consultiva atti normativi, con  il  parere  n.  533  adottato
nell'adunanza del 29 gennaio 2015 - non sarebbe stato  garantito  «il
diritto all'invarianza del trattamento retributivo in godimento nella
carriera di provenienza». 
    Ancora, la previsione oggetto  della  questione  di  legittimita'
costituzionale inciderebbe gravemente, violando gli artt. 3, 36 e  38
Cost., sul  trattamento  previdenziale  e  sul  trattamento  di  fine
servizio  originariamente   previsti,   poiche'   computerebbe   come
«anzianita' di servizio nel ruolo dei  professori  ordinari  a  tempo
pieno i periodi di  servizio  svolti  dai  docenti  della  SNA  nella
precedente   qualifica».   La   disposizione    produrrebbe    quindi
«illegittimi   effetti   retroattivi   su    situazioni    giuridiche
consolidate, incidendo in misura del tutto irragionevole sui  diritti
acquisiti» dai docenti ex SSEF. 
    Quanto alla pretesa  violazione  dell'art.  97  Cost.,  le  parti
evidenziano come l'art. 21, comma 4, del d.l. n. 90  del  2014,  come
convertito, impedirebbe  di  fatto  che  figure  professionali  quali
magistrati, avvocati dello stato, dirigenti amministrativi  divengano
docenti della  SNA,  poiche'  cio'  non  sarebbe  per  tali  soggetti
economicamente conveniente:  cio'  pertanto  non  consentirebbe  piu'
«alla SNA di dotarsi di professionalita' diversificate per assicurare
una formazione per la pubblica amministrazione  che  possa  integrare
conoscenze accademiche ed esigenze operative». 
    Da ultimo, la disposizione indubbiata si  porrebbe  in  contrasto
con gli artt. 3, 36, 38, 51 e 97 Cost., per non  avere  previsto  una
disciplina transitoria che consenta ai docenti ex SSEF  di  rientrare
nei ruoli di originaria provenienza. Tale lacuna sarebbe  stata  gia'
censurata dal citato parere del Consiglio di Stato n. 533 del 2015. 
    5.- Con distinti atti di uguale tenore, depositati il 16 e il  19
ottobre 2018, e' intervenuto nel  giudizio  di  costituzionalita'  il
Presidente  del  Consiglio  dei  ministri,  rappresentato  e   difeso
dall'Avvocatura generale dello  Stato,  per  chiedere  che  la  Corte
dichiari la manifesta infondatezza delle questioni sollevate. 
    L'Avvocatura, al fine di rappresentare  l'attuale  organizzazione
del  personale  docente  della  SNA,  effettua  un   ampio   excursus
normativo, partendo da  quanto  disposto  dall'art.  10  del  decreto
legislativo 1° dicembre 2009, n. 178, recante «Riorganizzazione della
Scuola superiore  della  pubblica  amministrazione  (SSPA),  a  norma
dell'articolo 24 della legge  18  giugno  2009,  n.  69»,  che  aveva
previsto due categorie di docenti: i «docenti  a  tempo  pieno»  e  i
«docenti incaricati», anche temporaneamente. 
    Successivamente, l'art. 14 del  d.P.R.  16  aprile  2013,  n.  70
(Regolamento  recante  riordino  del  sistema   di   reclutamento   e
formazione dei  dipendenti  pubblici  e  delle  Scuole  pubbliche  di
formazione, a norma dell'articolo 11 del decreto-legge 6 luglio  2012
n. 95, convertito, con modificazioni, dalla legge 7 agosto  2012,  n.
135), ha introdotto una nuova  categoria  di  docenti,  destinata  ad
assumere incarichi di breve durata per lo  svolgimento  di  attivita'
didattica in specifici moduli formativi e ha modificato  parzialmente
il regime delle altre due categorie di docenti. 
    I docenti a tempo pieno, in numero non superiore a  trenta,  sono
scelti tra professori universitari,  dirigenti  pubblici  e  privati,
magistrati, avvocati dello Stato, consiglieri  parlamentari  e  altri
soggetti altamente qualificati. Essi, per svolgere gli  incarichi  di
docenza, non superiore a tre anni rinnovabili, sono  collocati  fuori
ruolo,  in  comando  o  in  aspettativa  dalle   amministrazioni   di
appartenenza e conservavano il trattamento economico in godimento. 
    Alla categoria dei docenti «incaricati» (che l'art. 14 del d.P.R.
n. 70 del 2013  definisce  come  «docenti  a  tempo  parziale»),  non
possono essere attribuiti incarichi di durata  non  superiore  ad  un
anno,  per  lo  svolgimento  di  progetti  formativi  di  particolare
rilevanza. Anche tali docenti possono essere  scelti  tra  le  stesse
categorie dei docenti a tempo pieno, ma per essi non e'  previsto  il
collocamento in comando, fuori ruolo o in aspettativa: nel periodo di
insegnamento  presso  la  SNA  rimangono   infatti   a   disposizione
dell'amministrazione di appartenenza. 
    Precisa l'Avvocatura che la «normativa generale non prevedeva  la
necessita' per i docenti della SNA di optare tra il  regime  a  tempo
pieno e il regime a tempo definito», poiche' «i docenti a tempo pieno
della SNA conservavano, infatti, il trattamento economico e lo  stato
giuridico corrispondente all'opzione esercitata presso  l'Universita'
di appartenenza (qualora provenienti da un'Universita')». 
    A seguito dell'entrata in vigore dell'art. 21 del d.l. n. 90  del
2014, come convertito, l'assetto organizzativo del personale  docente
della SNA si e' modificato  poiche',  accanto  alle  categorie  sopra
ricordate si e' aggiunta, a seguito della soppressione della SSEF, la
categoria dei docenti a tempo indeterminato trasferiti  dalla  stessa
SSEF. Secondo il comma 4 dell'art. 21 del d.l. n. 90 del  2014,  come
convertito, il trattamento economico di questi ultimi  doveva  essere
rideterminato con successivo decreto del Presidente del Consiglio dei
ministri al fine di «renderlo omogeneo» a quello degli altri  docenti
SNA,   «sulla   base    del    trattamento    economico    spettante,
rispettivamente, ai professori o ai ricercatori universitari a  tempo
pieno con corrispondente anzianita'». 
    Annota  l'Avvocatura  come  la  ridefinizione   del   trattamento
economico dei docenti della SNA in coerenza con quanto  previsto  dal
citato art. 21 era stata poi devoluta  al  potere  regolamentare  del
Governo dall'art. 11, comma 1, lettera d), della  legge  n.  124  del
2015: tale delega non e' stata pero' mai esercitata. 
    Nel dicembre del 2015 e' invece stato pubblicato il  d.P.C.m.  25
novembre 2015 che ha rideterminato  il  trattamento  economico  annuo
lordo dei docenti SNA e la disciplina delle incompatibilita' e  delle
autorizzazioni. 
    Le  piu'   recenti   modifiche   normative   avrebbero   pertanto
«ridisegnato la fisionomia giuridica ed economica degli incarichi  di
docenza della SNA, obbligando la Scuola ad un  sollecito  adeguamento
della loro organizzazione e gestione». I docenti ex SSEF non  possono
piu'   conservare   il   trattamento    economico    goduto    presso
l'amministrazione di appartenenza, perche' a loro viene attribuito il
trattamento economico e giuridico dei professori universitari, mentre
non possono far valere un'opzione per il tempo definito, che  non  e'
prevista  nell'ordinamento  della  SNA.  Essi   potrebbero   comunque
scegliere se continuare a svolgere l'attivita' di docenti SNA a tempo
pieno,  oppure   lasciare   l'insegnamento   per   continuare   nello
svolgimento della libera professione. 
    Tali  opzioni  sarebbero  frutto  di   una   ragionevole   scelta
discrezionale del legislatore,  che,  a  seguito  della  soppressione
della SSEF, ha deciso di rendere omogenei i trattamenti economici dei
docenti confluiti  nella  SNA,  determinando  tali  trattamenti,  «in
ragione dell'attivita' svolta», sulla  base  delle  retribuzioni  dei
docenti universitari a tempo pieno. 
    Ritiene  poi  l'Avvocatura  che  «[n]on  sussiste   lesione   del
legittimo affidamento del docente in ordine al trattamento  economico
piu' favorevole in godimento,  poiche'  i  rapporti  di  durata  sono
soggetti alle sopravvenienze  che  incidono  sull'originario  assetto
degli interessi stabiliti fra le parti». 
    Neppure risulterebbe violato il divieto di irretroattivita' della
legge,  poiche'  la   disposizione   oggetto   delle   questioni   di
legittimita' costituzionale - non facendo retroagire le riduzioni dei
compensi a una data anteriore all'entrata in  vigore  della  legge  -
«non dispone che per l'avvenire»,  con  cio'  escludendosi  che  essa
possa qualificarsi come retroattiva (vengono richiamate  le  sentenze
della Corte di giustizia dell'Unione europea  22  dicembre  2010,  in
causa C-120/08, Bavaria NV, punti 40 e 41, e  3  settembre  2015,  in
causa C-89/14, A2A s.p.a.,  punto  37).  In  altri  termini,  non  si
sarebbe  in  presenza   di   retroattivita'   allorche'   una   nuova
disposizione modifichi ex nunc gli effetti di un rapporto  sorto  nel
previgente regime. 
    In   questa   prospettiva,   l'Avvocatura   richiama    poi    la
giurisprudenza  costituzionale  secondo  cui,  da   una   parte,   il
legislatore puo' emanare norme retroattive, purche' cio' avvenga  per
tutelare principi,  diritti  e  beni  di  rilievo  costituzionale  e,
dall'altra parte, la disciplina dei rapporti di  durata  puo'  essere
modificata in senso sfavorevole, purche' non dia vita  a  regolamento
irrazionale (si citano le sentenze n. 310, n. 170 e n. 103 del 2013). 
    Sarebbe, dunque, a parere dell'Avvocatura, del tutto  ragionevole
la scelta del legislatore  di  rendere  omogeneo,  uniformandolo,  il
trattamento  giuridico  ed  economico  dei  docenti  della   SNA,   a
prescindere dalle provenienze di chi e' chiamato a svolgere la stessa
attivita', anche considerando che  la  figura  del  docente  a  tempo
definito assunto come tertium comparationis dal giudice a quo non  e'
contemplato dal regolamento SNA. 
    L'Avvocatura  ricorda  ancora  che  il  nuovo   regime   previsto
dall'art. 21 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, e' entrato  in
vigore il 26 giugno 2014,  ma  che,  secondo  quanto  previsto  dalla
disciplina transitoria di cui al d.P.C.m. 25 novembre 2015,  i  nuovi
trattamenti economici sono stati applicati a decorrere dal 1° gennaio
2016. 
    Infine,  per  quanto  riguarda  il   trattamento   pensionistico,
l'Avvocatura ritiene che l'art. 5, comma 2, del d.P.C.m. 25  novembre
2015 non inciderebbe sul passato ma disporrebbe «ex nunc  il  computo
dell'attivita' svolta prima dell'assunzione dell'incarico  presso  la
SNA come anzianita'  di  servizio,  lasciando  impregiudicato  quanto
maturato fino alla data di entrata in vigore della nuova normativa». 
    6.- Con le memorie depositate  il  17  settembre  2019  in  vista
dell'udienza, le parti - con l'eccezione di M. M., che ha ribadito le
conclusioni gia' formulate nell'atto di costituzione  in  giudizio  -
hanno richiesto alla Corte  costituzionale  di  dichiarare  in  primo
luogo non fondata la questione di legittimita'  costituzionale  sulla
base delle argomentazioni  sviluppate  nelle  memorie  stesse  e,  in
subordine, di pronunciarsi per l'accoglimento. 
    Richiamando un recente orientamento  della  Corte  costituzionale
(viene citata la sentenza n. 158 del  2019),  le  parti  sottolineano
come un erroneo presupposto  interpretativo  del  giudice  rimettente
potrebbe non determinare l'inammissibilita' della questione, bensi' -
nei casi in cui la Corte costituzionale ritenga che il giudice a  quo
abbia  consapevolmente  escluso  di  adottare   una   interpretazione
conforme a Costituzione - l'adozione di una pronuncia con la quale si
valuti, nel merito, «la praticabilita' di  un'ipotesi  interpretativa
diversa». 
    In tale prospettiva, le parti  assumono  che  sulla  disposizione
oggetto  della   questione   di   legittimita'   costituzionale   sia
praticabile    un'interpretazione    conforme     a     Costituzione,
immotivatamente disattesa dal rimettente, ma gia' praticata  dal  TAR
Lazio  con  le  sentenze  che  hanno  in  primo  grado   accolto   le
prospettazioni dei ricorrenti e dallo stesso Consiglio  di  Stato  in
alcune ordinanze cautelari (ex plurimis,  sono  citate  Consiglio  di
Stato, sezione quarta, ordinanze 11 marzo 2016, n. 892 e n. 893). 
    Gia' il tenore letterale  della  disposizione  censurata  farebbe
emergere una differenziazione  tra  il  trattamento  giuridico  e  il
trattamento economico previsto per i docenti della ex SSEF: il primo,
infatti,  sarebbe  «quello  "dei   professori   o   dei   ricercatori
universitari", che ai docenti trasferiti e' direttamente "applicato".
Il secondo, invece, e'  meramente  "rideterminato"  [...]  e  non  e'
affatto quello degli altri docenti della [SNA], al quale deve  essere
soltanto "omogeneo"». 
    L'utilizzo di due diverse  formule  («applicato»  il  trattamento
giuridico; «rideterminato» il trattamento economico)  testimonierebbe
la volonta' del legislatore di distinguere il  trattamento  giuridico
da quello economico, con la conseguenza che il primo sarebbe identico
a quello di riferimento, mentre il  secondo  sarebbe  necessariamente
«diverso  [...]  ancorche'  con  esso  logicamente  coerente»,   come
affermato dallo stesso Consiglio di Stato in sede consultiva nel gia'
citato parere n. 533 del 2015 e nel successivo parere adottato  nella
seduta del 9 luglio 2015, n.  2157,  reso  sullo  schema  di  decreto
modificato. 
    Sarebbe  pertanto  errato  il  presupposto  del  remittente,  che
«postula "una piana e coerente corrispondenza tra status giuridico  e
status economico" dei docenti universitari e dei  docenti  ex  SSEF»,
poiche' la norma  primaria  distinguerebbe  invece  i  due  status  e
imporrebbe procedure e contenuti diversi  per  la  determinazione  in
concreto del trattamento dei docenti ex SSEF. 
    Cio' premesso, il trattamento economico non potrebbe  che  essere
che quello «gia' in godimento dei docenti provenienti dalla soppressa
SSEF», in ragione di plurime ragioni:  in  primo  luogo,  l'art.  21,
comma 1, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, sancisce  che  «la
SNA "subentra nei  rapporti  di  lavoro  a  tempo  determinato  e  di
collaborazione coordinata e continuativa  o  di  progetto  in  essere
presso gli  organismi  soppressi,  che  cessano  alla  loro  naturale
scadenza"» e il subentro non potrebbe  determinare  variazioni  delle
condizioni  economiche  dei  rapporti,  regolati   dalla   disciplina
anteriore. In secondo luogo, l'art. 21  prevede  che  dall'attuazione
delle previsioni legislative non devono  derivare  nuovi  o  maggiori
oneri per la finanza pubblica,  il  che  avrebbe  senso  solo  se  il
processo   di   omogeneizzazione   consentisse   un   aumento   delle
retribuzioni dei docenti SNA. Ne' tale tesi potrebbe essere messa  in
discussione  dalla  necessita'  di  rendere  omogenei  i  trattamenti
economici dei docenti ex SSEF rispetto a quelli degli  altri  docenti
SNA, poiche'  l'omogeneizzazione  avrebbe  dovuto  essere  realizzata
attraverso un processo progressivo che non  doveva  pero'  portare  a
travolgere il trattamento originario goduto. 
    Per quanto attiene invece  al  trattamento  giuridico,  le  parti
sostengono  che  la  fonte  primaria  non  avrebbe  conferito  alcuna
potesta' di attuazione all'amministrazione rispetto al  regime  delle
incompatibilita'. D'altra parte, se l'art. 21, comma 4, del  d.l.  n.
90 del 2014, come convertito,  prevede  l'applicazione  dello  status
giuridico   dei   docenti   universitari,   la    previsione    delle
incompatibilita' determinerebbe una  contraddizione  logica,  poiche'
«tratto   caratterizzante   tale   status   e'   proprio   la   piena
compatibilita' fra docenza e attivita' libero-professionale». 
    Inoltre, andrebbe considerato che la docenza nella  SNA  si  pone
obiettivi  immediatamente  professionalizzanti,  che  possono  essere
garantiti  anche  dal  fatto  che  i   docenti   svolgono   attivita'
libero-professionali che sarebbero  invece  precluse  dal  regime  di
incompatibilita' (vengono a tal proposito citate le sentenze n.  1019
del  1988,  n.  126  del  1981  e  n.  103  del  1977   della   Corte
costituzionale). 
    Ancora, si evidenzia come i docenti SNA, a differenza dei docenti
universitari che vedono modulati i loro carichi didattici  a  seconda
che optino per il tempo  pieno  o  definito  (vengono  richiamate  le
sentenze n. 311 del 2010 e n. 305 del 1995), abbiano tutti i medesimi
doveri didattici, e dunque errerebbe la difesa erariale nel  ritenere
che l'obiettivo dei docenti ex SSEF sia quello di optare per il tempo
definito, essendo qui piuttosto in  discussione  la  possibilita'  di
consentire loro «di continuare a svolgere l'attivita' professionale a
parita' di impegno didattico con gli altri docenti». 
    Illustrata   cosi'   l'asserita   erroneita'   del    presupposto
interpretativo  adottato  dal  Consiglio  di  Stato,  le   parti   si
soffermano, «nella non creduta ipotesi che [la Corte  costituzionale]
ritenga    convincente    l'azzardo    interpretativo     prospettato
dall'ordinanza di rimessione», sulle censure  mosse  dal  rimettente,
condividendone il percorso argomentativo. 
    In aggiunta rispetto a quanto  gia'  evidenziato  negli  atti  di
costituzione in giudizio, le parti sottolineano, con riferimento alla
censura relativa  alla  impossibilita'  per  i  docenti  ex  SSEF  di
svolgere attivita' libero-professionale,  come  anche  l'esame  della
disciplina   precedentemente   in    vigore    fornirebbe    evidenza
dell'illegittimita' della disposizione censurata, posto che l'art.  7
del d.m.  n.  301  del  2000  avrebbe  consentito  «di  scegliere  se
esercitare  anche   l'attivita'   libero-professionale   [e   avrebbe
stabilito]  una  precisa   incompatibilita'   solo   laddove   poteva
sussistere   un   conflitto   di   interesse   tra   i   docenti    e
l'Amministrazione». 
    Quanto   poi    alla    ipotizzata    lesione    del    principio
dell'affidamento, le parti segnalano la  necessita'  di  uno  stretto
scrutinio di ragionevolezza, secondo  quanto  affermato  dalla  Corte
costituzionale nella recente sentenza n. 108 del  2019,  della  quale
vengono riportati ampi stralci; viene poi richiamata la  sentenza  n.
153 del 1985 con la quale la Corte costituzionale  avrebbe  affermato
che il divieto di reformatio in peius dei trattamenti per  lavoratori
transitati da un ente ai ruoli regionali costituirebbe  un  principio
generale elaborato e affermato dalla giurisprudenza. 
    A dire delle parti, non sussisterebbero nel presente caso  quelle
ragioni che  pure  hanno  condotto  in  altre  circostanze  la  Corte
costituzionale a comprimere  situazioni  giuridiche  consolidate:  la
lesione del  principio  dell'affidamento  dei  docenti  ex  SSEF  non
sarebbe infatti giustificato ne' da rilevanti ragioni  di  risparmio,
ne' da motivi  di  maggiore  efficienza  del  sistema  delle  Scuole.
Neppure  vi  sarebbero  «forme  di  moderazione  e  modulazione   del
sacrificio», ne' l'intervento riformatore avrebbe potuto ritenersi in
alcun modo prevedibile. 
    Quanto alla lesione dei diritti previdenziali, le parti segnalano
come, sotto questo profilo, sarebbe ancora piu' grave  la  violazione
del principio dell'affidamento dei docenti  ex  SSEF,  che  avrebbero
subito una drastica riduzione sia del trattamento pensionistico,  sia
dell'indennita' di buonuscita (vengono citate le sentenze n.  70  del
2015, n. 208 del 2014, n. 116 del 2013, n. 30 del 2004,  n.  243  del
1993, n. 822 del 1988 e n. 3 del 1966 della Corte costituzionale). 
    Con riferimento alla lesione dell'art. 97 Cost., le parti mettono
in luce come i principi di imparzialita' e di  buon  andamento  della
pubblica  amministrazione  siano  garantiti  anche  da  un   adeguato
trattamento economico che metta al riparo i dipendenti  pubblici  «da
tentazioni  di  partigianeria   derivanti   dalla   possibilita'   di
conseguire ingiusti arricchimenti»; il che sarebbe essenziale  quando
si  tratta  della  «delicata  responsabilita'  di   provvedere   alla
formazione   e   alla   professionalizzazione   di   altri   pubblici
dipendenti».  Il  peggioramento  retributivo  metterebbe  invece   in
pericolo  l'imparzialita'  e  il  buon   andamento   della   pubblica
amministrazione. 
    Da ultimo, l'assenza di una norma transitoria  determinerebbe  la
violazione del principio di gradualita' necessario ogni qualvolta  il
legislatore apporti reformationes in  peius  di  rapporti  di  durata
(vengono citate le sentenze n. 236 del 2009 e n. 413 del 2002). 
    7.- In data 17 settembre l'Avvocatura generale ha depositato otto
memorie, tutte di analogo tenore, con le quali insiste  affinche'  la
Corte  costituzionale  dichiari  la  manifesta   infondatezza   delle
questioni sollevate dal Consiglio di Stato. 
    Richiamate le argomentazioni svolte nell'atto  di  intervento,  e
illustrate sinteticamente le finalita' perseguite dal legislatore con
l'approvazione dell'art. 21 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito,
l'Avvocatura segnala come la disciplina del trattamento  economico  e
giuridico  dei  dipendenti  pubblici  sia  riservata  ad  una  «ampia
discrezionalita'» del legislatore statale e  che  nel  presente  caso
sarebbe difficile ritenere sussistente un «affidamento tutelabile del
personale  docente  confluito  dalla  SSEF  nella  SNA  rispetto   al
mantenimento di un trattamento  giuridico  ed  economico  disancorato
rispetto a quello dei docenti che svolgono analoghe funzioni». 
    Di conseguenza, non  apparirebbe  irragionevole  «la  scelta  del
Legislatore   di   rendere   tendenzialmente   omogeneo   lo   status
giuridico-retributivo di  tutti  i  docenti  che,  al  di  la'  delle
rispettive provenienze, sono chiamati a svolgere  presso  la  SNA  la
stessa attivita', anche in applicazione del principio di  parita'  di
trattamento che le amministrazioni pubbliche devono  osservare  nella
loro condotta». 
    Rispetto a  quanto  gia'  evidenziato  nell'atto  di  intervento,
l'Avvocatura segnala come i professori della ex SSEF, oltre  ad  aver
conservato il trattamento economico fondamentale in godimento  presso
l'amministrazione  di  provenienza,  abbiano  percepito  fino  al  31
dicembre 2015 un'ulteriore indennita'  di  docenza  stabilita  da  un
decreto rettorale della SSEF del 28 luglio 2004, pari a  sessantamila
euro  lordi.  Ancora,  nel  caso   di   docenti   provenienti   dalla
magistratura, erano riconosciuti in modo  automatico  gli  incrementi
stipendiali propri della carriera precedente. 
    Rispetto a questo «quadro  giuridico,  peculiare  e  di  assoluto
vantaggio, di cui beneficiava  il  personale  docente»  ex  SSEF,  il
giudice rimettente non avrebbe poi considerato  che  gia'  l'art.  1,
comma 458, della legge n.  147  del  2013,  ha  stabilito  che  «[a]i
pubblici dipendenti che abbiano ricoperto ruoli o incarichi, dopo che
siano cessati dal ruolo o dall'incarico,  e'  sempre  corrisposto  un
trattamento pari a quello attribuito al collega di pari anzianita'» e
che da tale norma discenderebbe, dunque, il venir  meno  del  diritto
per il pubblico dipendente di mantenere il trattamento economico piu'
favorevole goduto in precedenti posizioni lavorative. 
    Anche  la  giurisprudenza  costituzionale  avrebbe  costantemente
affermato la legittimita' costituzionale di interventi legislativi  -
quale  quello  censurato   dal   giudice   rimettente   -   volti   a
«razionalizzare e  uniformare  situazioni  ordinamentali  formalmente
distinte ma, in realta', caratterizzate da omogeneita'  di  funzioni»
(vengono citate le sentenze n. 63 del 1998, n. 455 del 1993 e n.  277
del 1991). 
    Con riferimento infine alla mancata  previsione  del  diritto  di
opzione per il rientro dei docenti ex SSEF presso le  amministrazioni
di appartenenza, l'Avvocatura segnala come  in  realta'  gia'  l'art.
4-septies del  decreto-legge  3  giugno  2008,  n.  97  (Disposizioni
urgenti in materia di monitoraggio e trasparenza  dei  meccanismi  di
allocazione della spesa pubblica, nonche' in  materia  fiscale  e  di
proroga di termini), convertito, con  modificazioni,  nella  legge  2
agosto 2008, n. 129, avesse previsto  una  simile  facolta'.  Secondo
l'Avvocatura, coloro che in quell'occasione non hanno esercitato tale
diritto, avrebbero «interrotto, in quel momento,  ogni  rapporto  con
l'Amministrazione di provenienza ed  [avrebbero]  ottenuto  un  nuovo
inquadramento». La possibilita'  di  ritornare  su  tale  scelta  non
sarebbe dunque «costituzionalmente necessitata». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con sette ordinanze e una sentenza non definitiva,  tutte  di
analogo tenore, il Consiglio di Stato, sezione quarta, solleva  -  in
riferimento agli artt. 3, 36,  38,  51  e  97  della  Costituzione  -
questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 21, comma  4,  del
decreto-legge  24  giugno  2014,  n.  90  (Misure  urgenti   per   la
semplificazione e la trasparenza amministrativa  e  per  l'efficienza
degli uffici giudiziari), convertito, con modificazioni, nella  legge
11 agosto 2014, n. 114. 
    Il comma 1 dell'art. 21- al fine  di  razionalizzare  il  sistema
delle scuole di formazione delle amministrazioni centrali, eliminando
la duplicazione degli organismi esistenti - detta la  disciplina  per
la    unificazione,    nell'ambito     della     Scuola     nazionale
dell'amministrazione (d'ora in poi: SNA), delle esistenti  scuole  di
formazione  per  la   pubblica   amministrazione,   prevedendone   la
soppressione. Per quel che qui particolarmente rileva, viene disposta
la soppressione anche della Scuola superiore  dell'economia  e  delle
finanze (d'ora in avanti: SSEF). 
    La posizione dei docenti  della  SSEF  e'  oggetto  di  specifica
disciplina da parte della norma  censurata.  Essa  stabilisce  che  i
docenti ordinari e i ricercatori dei ruoli a esaurimento  della  SSEF
siano «trasferiti»  alla  SNA.  Prevede  che  a  tali  docenti  venga
«applicato lo  stato  giuridico  dei  professori  o  dei  ricercatori
universitari» e che il loro trattamento economico sia  «rideterminato
con decreto del Presidente del Consiglio dei  ministri,  al  fine  di
renderlo omogeneo a quello degli altri docenti della [SNA]». Dispone,
infine, che quest'ultimo trattamento venga «determinato dallo  stesso
decreto del Presidente del Consiglio  dei  ministri  sulla  base  del
trattamento economico spettante, rispettivamente, ai professori o  ai
ricercatori   universitari   a   tempo   pieno   con   corrispondente
anzianita'». 
    In riferimento a tale disposizione,  le  ricordate  ordinanze  di
rimessione prospettano sei distinte censure. 
    Dubitano, in primo luogo, che il citato art. 21, comma  4,  violi
gli artt. 3 e 51 Cost., poiche' - nell'applicare ai docenti del ruolo
ad esaurimento della SSEF lo stato giuridico  dei  professori  e  dei
ricercatori  universitari  -   esso   non   terrebbe   conto   «della
diversificazione  delle  provenienze»  dei   docenti   in   questione
(trattandosi  originariamente   di   dirigenti   di   amministrazioni
pubbliche, magistrati ordinari, amministrativi e contabili,  avvocati
dello stato e consiglieri parlamentari), provenienze «conservate  pur
in costanza del rapporto con la SSEF». La disposizione, inoltre,  non
avrebbe  nemmeno  considerato  la  differenza  di  status  originario
esistente tra tali docenti e  quelli  delle  altre  scuole  confluite
nella SNA, e delle differenze sussistenti tra  diverse  categorie  di
docenti all'interno della stessa  SNA.  In  tal  modo,  la  norma  si
porrebbe in contrasto con il  principio  di  ragionevolezza,  perche'
determinerebbe un'unica forma di «"accesso" (nel  senso  di  nuova  e
diversa  configurazione  del  rapporto  di   impiego)   agli   uffici
pubblici», sulla base  di  un  trattamento  giuridico  unitario  «per
situazioni soggettive connotate da sensibili ed originarie differenze
strutturali». 
    Sostengono, altresi', sotto diverso  profilo,  la  lesione  degli
stessi artt. 3 e 51 Cost., perche' avendo determinato «il trattamento
economico da corrispondere in quello del professore a tempo  pieno  e
cosi' qualificando lo status giuridico in senso  corrispondente,  ivi
compreso il  regime  delle  incompatibilita'»,  la  disposizione  non
avrebbe previsto, per i soli docenti della ex  SSEF,  il  diritto  di
opzione tra il regime a tempo pieno e quello  a  tempo  definito.  Ne
deriverebbe che, pur equiparati ai professori universitari, i docenti
in questione costituirebbero l'unico esempio di appartenenti  a  tale
categoria ai quali non sarebbe riconosciuto il diritto di opzione  in
parola. 
    In terzo luogo, lamentano le ordinanze di rimessione  la  lesione
degli artt.  3  e  36  Cost.,  poiche',  nell'attribuire  ai  docenti
provenienti  dalla  SSEF   «il   trattamento   economico   spettante,
rispettivamente, ai professori o ai ricercatori universitari a  tempo
pieno  con  corrispondente  anzianita'»,  la  disposizione  censurata
determinerebbe, in modo irragionevole e non  sorretto  da  motivi  di
tutela  dell'interesse  pubblico,  «con  violazione   del   legittimo
affidamento  nella  certezza   delle   situazioni   giuridiche»,   un
livellamento  verso  il  basso  del   loro   trattamento   economico,
attraverso  una  reformatio  in  peius  di   quello   originariamente
corrisposto,  con  assimilazione  di  situazioni  diverse,  e  «senza
prevedere meccanismi di progressiva  omogeneizzazione»,  che  tengano
conto delle retribuzioni gia' percepite. 
    Vi sarebbe, in quarto luogo, una violazione degli artt. 3,  36  e
38 Cost., poiche' la disposizione censurata non prevedrebbe  che,  «a
docenti aventi qualifiche e provenienze diverse nell'ambito del  piu'
generale rapporto di lavoro con le  pubbliche  amministrazioni»,  sia
conservato  il  trattamento  previdenziale  attualmente  previsto,  o
comunque  questo  venga  autonomamente  considerato  e  valutato,   e
consentirebbe invece, attraverso il richiamo allo status giuridico ed
economico del professore universitario, l'applicazione ai docenti  ex
SSEF del trattamento previdenziale di quest'ultimo. 
    Una quinta censura asserisce la lesione degli artt. 3 e 97 Cost.,
in quanto, omettendo  di  considerare  la  diversita'  dei  ruoli  di
provenienza  dei  docenti  della  SSEF,  la  disposizione  in   esame
risulterebbe in contrasto con i  principi  di  imparzialita'  e  buon
andamento della pubblica amministrazione, «nei confronti di  soggetti
ad essa legati da rapporto di impiego». 
    Sarebbero infine violati gli artt. 3, 36, 38, 51 e 97  Cost.  per
non essere stata prevista una disciplina transitoria,  «che  consenta
una possibilita' di scelta,  non  immediata  ma  anche  temporalmente
definita, tra rientro nei  ruoli  di  originaria  provenienza  ovvero
permanenza nel (modificato) status di docente presso la SNA». 
    2.- I diversi giudizi nei  quali  sono  sollevate  le  illustrate
questioni di legittimita' costituzionale hanno ad oggetto  la  stessa
disposizione, censurata sempre con riferimento agli stessi parametri,
sotto identici  profili  e  con  identiche  argomentazioni.  Ponendo,
pertanto, le medesime questioni, essi  vanno  riuniti  e  decisi  con
un'unica pronuncia. 
    3.- E' utile, in via preliminare, un esame dell'evoluzione  della
disciplina relativa ai docenti della SSEF. Esso consente  infatti  di
meglio comprendere le censure sollevate e di collocarle correttamente
nel pertinente contesto normativo. 
    3.1.-  La  SSEF,  originariamente  denominata   Scuola   centrale
tributaria "Ezio Vanoni", venne istituita dalla legge 29 aprile 1957,
n. 310 (Istituzione della Scuola centrale tributaria "Ezio  Vanoni"),
con lo scopo di svolgere «corsi di istruzione teorico-pratica per  il
personale civile dell'Amministrazione finanziaria» (art. 1, comma 2).
Essa fu posta alle dipendenze del Ministro per le finanze.  L'art.  2
della legge citata attribuiva a successivi decreti del  Ministro  per
le finanze il compito di indicare le modalita' per  il  «conferimento
degli incarichi per l'insegnamento e per le esercitazioni». 
    Cosi', l'art. 11, comma  2,  del  decreto  del  Presidente  della
Repubblica 3 luglio 1962, n. 2039 (Approvazione  del  regolamento  di
esecuzione della legge 29  aprile  1957,  n.  310,  istitutiva  della
Scuola centrale  tributaria  "Ezio  Vanoni"),  demando'  allo  stesso
Ministro per le  finanze,  sentito  il  direttore  della  Scuola,  il
compito di conferire - con propri  decreti  -  «di  volta  in  volta,
previa   comunicazione   alla   Scuola   superiore   della   pubblica
Amministrazione,  gli  incarichi  per   l'insegnamento   e   per   le
esercitazioni»,  specificando  che  tali  incarichi  potevano  essere
conferiti anche a docenti stranieri. 
    All'inizio degli anni novanta del secolo  scorso,  la  Scuola  e'
stata oggetto di diversi interventi riformatori, che hanno  coinvolto
anche il relativo corpo docenti. 
    In particolare, l'art. 5, comma 3, della legge 29  ottobre  1991,
n. 358, recante «Norme per la ristrutturazione  del  Ministero  delle
finanze», previde che «[l]'insegnamento [fosse] affidato anche ad  un
corpo stabile di docenti nei limiti di un contingente  stabilito  con
decreto del Ministro delle finanze di concerto con  il  Ministro  del
tesoro. I professori universitari di ruolo, i magistrati ordinari  ed
amministrativi, gli avvocati dello Stato ed i dipendenti civili dello
Stato che sono chiamati a costituire il corpo dei professori  stabili
della Scuola sono collocati  nella  posizione  di  fuori  ruolo».  Si
stabiliva altresi', al comma 4 del citato art. 5, la possibilita'  di
conferire incarichi di insegnamento «anche ad esperti  di  specifiche
discipline». L'art. 12, comma 1, della stessa legge n. 358  del  1991
affidava poi alla fonte regolamentare il compito di  dare  attuazione
ai principi contenuti nella legge. 
    Intervenne quindi il decreto del Presidente  della  Repubblica  9
giugno   1992,   n.    336,    recante    «Regolamento    concernente
l'organizzazione della  Scuola  centrale  tributaria,  in  attuazione
degli articoli 5 e 12 della legge 29 ottobre 1991, n. 358». 
    L'art. 8  del  citato  d.P.R.  prevedeva  che  gli  incarichi  di
insegnamento  per  le  attivita'  didattiche  fossero  conferiti  dal
Ministro delle finanze, su proposta del rettore della Scuola. Accanto
a questa  tipologia  di  incarichi,  l'art.  9  dello  stesso  d.P.R.
introduceva  la  figura  dei  «docenti  stabili».  Tale  disposizione
consentiva, infatti, l'affidamento dell'insegnamento anche a  docenti
cosi' definiti, su proposta del rettore,  con  decreto  del  Ministro
delle finanze, di concerto con il  Ministro  del  tesoro.  I  docenti
stabili erano titolari di un incarico triennale  salvo  conferma.  Il
loro numero non poteva essere inferiore a quattro,  ne'  superiore  a
dieci. 
    Come si vede, la chiamata a  far  parte  del  corpo  stabile  dei
docenti  era  diretta  ed  era  effettuata,  previo  consenso   degli
interessati, su proposta del rettore, dal Ministro delle  finanze.  I
professori universitari di ruolo ordinari e associati,  i  magistrati
ordinari ed amministrativi, gli avvocati dello Stato e  i  dipendenti
civili dello Stato chiamati a far parte del corpo stabile dei docenti
venivano  collocati  nella  posizione  di  fuori   ruolo,   o   nella
corrispondente posizione prevista  dai  rispettivi  ordinamenti,  per
tutto  il  periodo  dell'incarico,  il  quale  era   computato   come
anzianita' di servizio ad ogni effetto, comprese le  progressioni  di
carriera ed economiche. 
    Veniva significativamente richiamato (dall'art. 9, comma  4,  del
d.P.R. n. 336 del 1992), per tali docenti, il regime  a  tempo  pieno
dei professori universitari  di  cui  all'art.  11  del  decreto  del
Presidente della Repubblica 11 luglio  1980,  n.  382  (Riordinamento
della docenza universitaria, relativa fascia  di  formazione  nonche'
sperimentazione   organizzativa   e    didattica),    e    successive
modificazioni,  il  che  implicava   l'impossibilita'   di   svolgere
attivita' libero-professionali. 
    Si  stabiliva,  infine,  che  ai  docenti  stabili  della  Scuola
competesse «il trattamento economico relativo alla loro qualifica»; e
che essi conservassero altresi' il diritto a percepire le  indennita'
erogate dalle amministrazioni di appartenenza. 
    In definitiva, giova  ribadirlo,  l'assunzione  dell'incarico  di
docente nella Scuola non avveniva a seguito  del  superamento  di  un
pubblico concorso, come per i docenti universitari. La chiamata a far
parte  del  corpo  stabile  dei  docenti  della  Scuola  era  infatti
«diretta», essendo effettuata dal Ministro delle finanze, su proposta
del rettore della Scuola e previo consenso dell'interessato. 
    3.2.- Il decreto del Presidente della Repubblica 31 luglio  1996,
n. 526 (Regolamento recante norme per il funzionamento  della  Scuola
centrale tributaria) opero'  un'ulteriore  riforma  della  Scuola  in
esame. Per quanto qui interessa, gli artt. 9 e 10 del  d.P.R.  citato
continuarono a prevedere la presenza di  «docenti  incaricati»  e  di
«professori stabili» (cosi' vennero ribattezzati i «docenti  stabili»
di cui al d.P.R. n. 336 del  1992).  I  professori  stabili  potevano
svolgere l'incarico di insegnamento per un triennio, salvo  conferma.
Essi, su proposta  del  rettore  della  Scuola,  venivano  «scelti  e
nominati dal Ministro delle finanze, con proprio decreto» nell'ambito
delle categorie gia' indicate nella legge n. 358 del 1991 (professori
universitari  di  ruolo,  magistrati  ordinari   ed   amministrativi,
avvocati dello Stato e dipendenti civili dello Stato), «fra quanti ne
[avessero] fatto richiesta  sulla  base  di  bando  pubblicato  nella
Gazzetta Ufficiale» (art. 10, comma 2, d.P.R. n. 526  del  1996).  Si
trattava dunque di una procedura «paraconcorsuale», come segnalava il
citato art.  10,  comma  2,  nell'escluderne  l'applicazione  per  le
procedure di conferma. 
    Quanto al trattamento economico, l'art. 10, comma 5,  del  d.P.R.
n. 526 del 1996, stabiliva che i  «professori  stabili  della  Scuola
conservano il  trattamento  economico  di  provenienza,  compreso  il
diritto a percepire le indennita' erogate  dalle  amministrazioni  di
appartenenza». Solo per i professori universitari, il d.P.R. in esame
prevedeva espressamente l'obbligo del fuori ruolo. 
    3.3.- A seguito  di  quanto  previsto  dall'art.  8  del  decreto
legislativo 30 luglio 1999, n. 287 (Riordino della  Scuola  superiore
della pubblica amministrazione e riqualificazione del personale delle
amministrazioni pubbliche, a norma dell'articolo 11  della  legge  15
marzo 1997, n. 59), che affidava ad un nuovo «regolamento di riforma»
il compito di  ridisciplinare  l'ordinamento  della  Scuola  centrale
tributaria secondo principi contenuti nello stesso d.lgs. n. 287  del
1999  e  validi  anche  per  la  Scuola  superiore   della   pubblica
amministrazione, e' stato poi emanato il decreto del  Ministro  delle
finanze 28 settembre 2000, n. 301 (Regolamento recante norme  per  il
riordino della Scuola Centrale Tributaria). 
    Tale  regolamento  interveniva,  ancora  una  volta   con   varie
innovazioni, sul corpo docenti della Scuola e, all'art. 5,  comma  1,
prevedeva che essa potesse avvalersi, oltre che di consulenti esterni
e di soggetti con professionalita' e competenze utili, «di  personale
docente di comprovata professionalita'  collocato,  ove  occorra,  in
posizione di fuori ruolo, comando o aspettativa», se  l'incarico  non
consentiva   il   normale   espletamento   delle   proprie   funzioni
nell'amministrazione di  appartenenza.  La  Scuola  poteva,  inoltre,
avvalersi di docenti incaricati, anche temporaneamente, di specifiche
attivita' di insegnamento. 
    L'art. 5, comma 2, stabiliva che il personale docente di  cui  al
comma 1 fosse, comunque, scelto tra professori o docenti universitari
in posizione di aspettativa senza assegni, magistrati e dirigenti  di
amministrazioni    pubbliche;    mentre    i    docenti    incaricati
temporaneamente potevano essere altresi' scelti tra esperti, italiani
o stranieri, di comprovata professionalita'. 
    Tutti gli incarichi dovevano essere affidati  dal  rettore  della
Scuola, sentito il consiglio  direttivo,  «salvo  gli  incarichi  non
temporanei di professori»,  i  quali,  secondo  costante  tradizione,
erano attribuiti con decreto del Ministro delle  finanze  (comma  3).
Ancora, si prevedeva che i professori della Scuola, in  posizione  di
comando, aspettativa o fuori ruolo, rimanessero equiparati,  ad  ogni
effetto giuridico, ma solo per il tempo dell'incarico, ai  professori
universitari  di  prima  fascia,  con  salvezza  delle  procedure  di
avanzamento  di  carriera  (comma  4).  In  ogni  caso,   il   numero
complessivo dei  professori  incaricati  non  temporanei  non  poteva
superare le trenta unita'. 
    L'art. 3, comma 3, del d.m. n. 301 del 2000 disponeva poi  che  i
professori incaricati non temporaneamente e collocati fuori ruolo, se
in  servizio  presso  amministrazioni  pubbliche,  conservassero   il
trattamento economico fondamentale, comunque definito, relativo  alla
qualifica  posseduta  presso   l'amministrazione   di   appartenenza,
incrementato da una indennita' di carica. 
    Importante  notare  -  a  conferma  della  circostanza   che   la
previsione in esame e' ricorrente nel regime  giuridico  dei  docenti
stabili della Scuola - che anche l'art. 7 del d.m. n. 301  del  2000,
nella sua versione originaria, a differenza di quanto asserito  dalle
parti nelle memorie depositate in vista dell'udienza,  conteneva  una
netta previsione  in  tema  di  incompatibilita',  statuendo  che  «i
professori incaricati non temporaneamente e  collocati  fuori  ruolo,
comando o aspettativa,  non  possono  svolgere,  pena  la  cessazione
immediata  dell'incarico,  attivita'  libero  professionale,  in  via
diretta o indiretta». Veniva invece subordinata  ad  una  valutazione
del rettore la compatibilita' con l'insegnamento nella  Scuola  dello
svolgimento di «altri incarichi». 
    In definitiva, nella sua versione originaria, il d.m. n. 301  del
2000  istituiva  una  categoria  di  docenti  a  tempo  indeterminato
(«professori  incaricati  non  temporanei»,  secondo  la  definizione
dell'art. 5, comma 5; di «professori incaricati non temporaneamente e
collocati fuori ruolo» ragionano anche l'art. 2, comma 6, e l'art. 7)
e una  categoria  di  docenti  incaricati  temporaneamente.  Tutti  i
docenti potevano essere scelti tra professori o docenti  universitari
in posizione di aspettativa senza assegni, magistrati e dirigenti  di
amministrazioni pubbliche. 
    In ogni caso,  giova  ribadirlo,  ai  professori  incaricati  non
temporaneamente, che conservavano  il  trattamento  economico  goduto
nell'amministrazione di provenienza, era espressamente interdetta del
tutto la possibilita' di svolgere attivita' libero-professionale. 
    3.4.- Il regolamento descritto venne modificato in  due  distinte
occasioni: prima dal decreto del Ministro delle finanze  22  novembre
2000, n. 359 (Regolamento recante modifiche al decreto  del  Ministro
delle finanze 28 settembre 2000,  n.  301,  concernente  il  riordino
della Scuola centrale  tributaria),  poi  dal  decreto  del  Ministro
dell'economia e delle finanze 29 marzo  2002,  n.  80  (Modifiche  al
regolamento ministeriale 28 settembre 2000, n.  301,  concernente  il
riordino della Scuola superiore dell'economia e delle finanze). 
    Con il d.m. n.  359  del  2000,  per  quanto  qui  rileva,  venne
modificato il comma  3  dell'art.  3,  del  d.m.  n.  301  del  2000,
prevedendosi l'attribuzione del trattamento economico fondamentale di
provenienza anche ai professori incaricati  non  temporaneamente  che
fossero stati «inquadrati a seguito di  opzione,  nel  ruolo  di  cui
all'articolo 5, comma 5», ovverosia dei  "professori  incaricati  non
temporanei". Conseguentemente, il comma 4 dell'art. 5  provvedeva  ad
equiparare ai professori universitari di  prima  fascia  non  solo  i
professori della scuola, in posizione di comando, aspettativa o fuori
ruolo, ma anche quelli definiti come «inquadrati». 
    Si tratta di  una  novita'  assai  significativa,  poiche'  nelle
ricordate disposizioni si ragiona, per la prima volta, di un  vero  e
proprio «ruolo», nel quale i docenti  in  questione  potevano  dunque
essere  «inquadrati»,  lasciando  l'amministrazione  di  appartenenza
mediante l'esercizio di un apposito diritto di opzione. 
    Perfino avendo esercitato l'opzione,  tuttavia,  conservavano  il
trattamento  economico  relativo  alla  qualifica  posseduta   presso
l'amministrazione di provenienza, ulteriormente incrementato (art. 3,
comma 3, del medesimo d.m., come modificato dal d.m. 80 del 2002)  da
un'indennita' di carica. 
    Ancora piu' significative - e all'epoca, assai  discusse  -  sono
state le modifiche apportate al d.m. n. 301 del 2000 dal d.m.  n.  80
del 2002. Al di la' del cambiamento di denominazione della  Scuola  -
che proprio in virtu' di tale decreto assume il nome, mantenuto  fino
alla sua soppressione, di «Scuola  superiore  dell'economia  e  delle
finanze» - rileva soprattutto l'intervento (art. 1, comma 1,  lettera
m) attraverso il quale questa fonte, di rango secondario, prevede che
i professori della SSEF (ai quali in tutte le previsioni del  decreto
che  li  contemplano  viene  aggiunta  la  qualifica  di  "ordinari")
«acquisiscono, ad ogni effetto, lo stato giuridico e le  funzioni  di
professori ordinari». 
    Attraverso una disposizione non di legge ma di regolamento,  essi
non sono piu' solo «equiparati» ai professori universitari  di  prima
fascia, come affermava in origine il d.m. n.  301  del  2000,  ma  di
quelli acquisiscono, appunto, il relativo status e le funzioni. 
    Queste previsioni  regolamentari  si  affiancano,  del  resto,  a
quanto previsto, a livello di fonte primaria, dall'art. 12, comma  3,
secondo  periodo,  della  legge  18  ottobre  2001,  n.  383   (Primi
interventi per il rilancio dell'economia) - la piu' discussa di tutte
le disposizioni ora in esame - secondo  cui  «[l]a  Scuola  superiore
dell'economia e delle finanze puo' stipulare apposite convenzioni con
universita' degli studi, nonche' avvalersi, previa autorizzazione, di
personale docente universitario, anche in posizione di aspettativa  o
fuori ruolo. I professori inquadrati nel ruolo di cui all'articolo 5,
comma 5, del decreto del Ministro delle finanze 28 settembre 2000, n.
301, partecipano alle procedure  di  trasferimento  e  mobilita'  tra
universita', con applicazione delle disposizioni in materia, anche di
incompatibilita', vigenti per i professori  ordinari,  conservando  i
diritti inerenti alla posizione di  provenienza,  anche  connessi  ad
esercizio di opzione». 
    Una disposizione di rango  primario,  come  si  vede,  consentiva
percio', incongruamente, trasferimenti dalla SSEF  alle  universita',
coinvolgendo a tal fine figure di docenti tra loro del tutto diverse,
per  modalita'  di  reclutamento  e  per   l'attivita'   di   docenza
esercitata. 
    Nella medesima direzione disponeva anche il d.m. n. 80  del  2002
che, introducendo il comma 4-bis all'art. 5 del d.m. n. 301 del 2000,
stabiliva che il trattamento economico dei professori della  SSEF,  i
quali partecipassero alle procedure di trasferimento tra  universita'
e mantenessero comunque  l'esercizio  di  funzioni  presso  la  SSEF,
poteva  essere  ripartito  tra  la  stessa  SSEF  e  le   universita'
interessate. 
    Tre  ulteriori  innovazioni  significative  si  rinvengono  nelle
pieghe del d.m. n. 80 del 2002. 
    In primo luogo, esso dispone una modifica all'art.  3,  comma  3,
del d.m. n. 301 del 2000, affinche' ai professori della  SSEF,  oltre
al  trattamento  economico  di  provenienza,  venga  riconosciuto  un
«ulteriore trattamento economico», e non piu',  solo,  una  specifica
«indennita' di carica». 
    Ancora,  viene  ampliato  il  novero  di  quanti  possono  essere
chiamati come docenti della SSEF,  includendovi  anche  gli  avvocati
dello Stato e i vincitori di concorso a professore  universitario  in
attesa di chiamata. In questa prospettiva,  e'  introdotto  un  comma
5-bis all'art. 5 del d.m. n. 301 del 2000, che istituisce un apposito
ruolo della SSEF in cui  inquadrare  i  predetti  ricercatori,  dando
seguito all'art. 19, comma 15, della legge 28 dicembre 2001, n.  448,
recante «Disposizioni  per  la  formazione  del  bilancio  annuale  e
pluriennale dello Stato (legge  finanziaria  2002)»,  che  attribuiva
alla SSEF la possibilita'  di  assegnare  incarichi  di  ricercatore,
previo superamento di apposite procedure selettive svolte secondo  la
vigente normativa in materia universitaria. 
    Infine, viene riformato il regime delle incompatibilita', poiche'
si cancella la preclusione  assoluta  di  svolgimento  dell'attivita'
libero-professionale originariamente prevista e si modifica l'art.  7
del d.m. n. 301 del 2000 nel senso che «[i]l rettore, i  responsabili
d'area  ed  i  professori   ordinari   assumono   il   regime   delle
incompatibilita'   dei   professori   universitari   ordinari».    La
preclusione  rimane  ferma  solo  con  riferimento   alle   attivita'
professionali svolte nel settore  fiscale,  nelle  materie  afferenti
alla  vigilanza  sul  credito,  sulle  assicurazioni  e  sul  mercato
mobiliare. 
    Come si vede, il d.m. n. 80 del 2002 introduce una disciplina  di
assoluto favore per i docenti in questione, sia quanto al trattamento
economico complessivamente attribuito, sia  quanto  al  regime  delle
incompatibilita',  sia,  infine,  quanto  alla  possibilita'  di   un
sostanziale inserimento nei ruoli universitari. 
    3.5.-  Tale  disciplina  provoco'  polemiche,  dovute  al  palese
aggiramento, che essa realizzava, dei principi  in  tema  di  accesso
alla docenza universitaria, consentito di fatto, nei casi di  specie,
a quanti erano diventati docenti per nomina  ministeriale  (carattere
costante, come si e' visto, di tutte le numerose discipline  via  via
succedutesi) e non gia' a  seguito  di  superamento  di  un  apposito
concorso. Sicche', la norma primaria che nel modo piu' evidente aveva
introdotto tale possibilita' - consentendo ai docenti in questione di
partecipare  alle  procedure  di  trasferimento   e   mobilita'   tra
universita' (l'art. 12, comma 3, della legge n. 383 del  2001)  -  fu
ben  presto  eliminata,  ad  opera  dell'art.   1,   comma   4,   del
decreto-legge 24 settembre 2002,  n.  209  (Disposizioni  urgenti  in
materia di razionalizzazione  della  base  imponibile,  di  contrasto
all'elusione fiscale, di crediti di imposta  per  le  assunzioni,  di
detassazione per l'autotrasporto, di adempimenti per i  concessionari
della  riscossione  e  di  imposta   di   bollo),   convertito,   con
modificazioni, nella legge 22 novembre 2002, n. 265. 
    Il gia' citato art. 5, comma 4-bis, del d.m. n. 301 del 2000,  di
rango regolamentare, che continuava a disporre in tal senso, anche se
ormai  senza  base  legale,  fu  definitivamente  abrogato  ad  opera
dell'art. 4-septies, comma 2, del decreto-legge 3 giugno 2008, n.  97
del  2008  (Disposizioni  urgenti  in  materia  di   monitoraggio   e
trasparenza dei  meccanismi  di  allocazione  della  spesa  pubblica,
nonche' in materia fiscale e di proroga di termini), convertito,  con
modificazioni, in legge 2 agosto 2008, n. 129. 
    E' proprio questo stesso art. 4-septies del d.l. n 97  del  2008,
come  convertito,  a  introdurre,  di  nuovo,  importanti   modifiche
all'ordinamento della SSEF e allo status dei relativi docenti. 
    Il secondo comma del citato articolo, infatti, sopprime il  ruolo
dei professori ordinari, introdotto, come si e' visto,  nel  d.m.  n.
301 del 2000 dal d.m. n. 80 del 2002. Vengono altresi'  eliminate  le
previsioni introdotte dalla legge n.  448  del  2001,  relative  alla
possibilita' di avvalersi di ricercatori, mentre si  dispone  che  la
SSEF possa «continuare ad avvalersi di personale  docente  collocato,
per un periodo non superiore a tre anni eventualmente rinnovabile, in
posizione di comando, aspettativa o fuori ruolo». 
    Ma e' soprattutto il quarto comma del  citato  art.  4-septies  a
disporre decisivamente. Esso prevede l'inserimento in appositi  ruoli
ad esaurimento dei professori ordinari inquadrati nel  ruolo  di  cui
all'articolo 5, comma 5, del ricordato d. m. 28  settembre  2000,  n.
301, nonche' dei ricercatori della SSEF  in  servizio  alla  data  di
entrata in vigore della legge di conversione del decreto-legge. 
    Di conseguenza, e' esplicitamente attribuito, a loro  favore,  un
diritto di opzione per il rientro nei ruoli delle amministrazioni  di
provenienza, prevedendosi che, qualora essi lo esercitino, le risorse
finanziarie  per   la   corresponsione   del   relativo   trattamento
retributivo   siano   trasferite   dalla   SSEF   all'amministrazione
interessata. 
    In definitiva, in vista del riordino complessivo delle scuole  di
formazione della pubblica amministrazione, il  ruolo  dei  professori
ordinari della SSEF viene soppresso, e  al  contempo  viene  per  gli
stessi istituito un ruolo ad  esaurimento,  di  cui  la  stessa  SSEF
poteva  avvalersi  per   i   successivi   tre   anni,   eventualmente
rinnovabili. 
    3.6.- L'art. 21 del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, il  cui
comma 4 contiene la disposizione censurata, rappresenta, a livello di
legislazione ordinaria, l'atto conclusivo della vicenda normativa  in
esame. Esso dispone, come ricordato, la soppressione della SSEF e  il
trasferimento alla SNA  dei  docenti  e  dei  ricercatori  inquadrati
nell'appena ricordato ruolo ad esaurimento. 
    Aggiunge la disposizione che  ad  essi  «e'  applicato  lo  stato
giuridico dei professori e dei ricercatori universitari». 
    Va  immediatamente  chiarito   che,   anche   alla   luce   della
ricostruzione fin qui operata, la disposizione, in questa parte,  non
determina affatto la  trasformazione  dei  docenti  in  questione  in
professori  universitari,  ne',  del  resto,  potrebbe   farlo.   Pur
risentendo di una certa ambiguita' che, su questo specifico  aspetto,
caratterizza l'intera evoluzione della normativa relativa allo  stato
giuridico dei docenti della SSEF, la disposizione  non  puo'  infatti
interpretarsi nel senso di voler istituire un - del tutto peculiare -
canale d'accesso alla docenza accademica. Cio' sarebbe  in  contrasto
con  i  vari  principi  costituzionali  che   reggono   l'istituzione
universitaria,  dall'accesso  per  concorso  (art.  97  Cost.),  alla
garanzia dell'autonomia universitaria (art. 33, ultimo comma, Cost.),
laddove, come si e' ampiamente  visto,  i  docenti  della  Scuola  in
questione sono invece tali per nomina ministeriale e la  stessa  SSEF
e' sempre stata un'istituzione alle  dipendenze  del  Ministro  delle
finanze (la dipendenza dal  potere  politico,  dopo  la  soppressione
della SSEF, continua oggi  a  caratterizzare  anche  la  SNA,  «posta
nell'ambito e sotto la vigilanza della Presidenza del  Consiglio  dei
Ministri», secondo quanto dispone l'art.  2,  comma  1,  del  decreto
legislativo 1 dicembre 2009, n. 178, recante «Riorganizzazione  della
Scuola superiore  della  pubblica  amministrazione  (SSPA),  a  norma
dell'articolo 24 della legge 18 giugno 2009, n. 69»). 
    La giurisprudenza costituzionale  ha  infatti  significativamente
evidenziato  che  il  principio  della  liberta'   dell'insegnamento,
caratteristico dell'ordinamento universitario, «non tollera ingerenze
di ordine  politico  o  comunque  ingerenze  estranee  alle  premesse
tecniche  e  scientifiche  dell'insegnamento»  e   che,   in   questa
prospettiva, l'attribuzione agli stessi professori  universitari  del
potere  di  scelta  dei  membri  delle   commissioni   di   concorso,
assicurando  «il  buon  andamento  dell'insegnamento  universitario»,
rappresenta «un progresso verso la  realizzazione  di  quell'ordinata
autonomia cui hanno  diritto  le  istituzioni  di  alta  cultura,  le
universita' e le accademie,  in  applicazione  dell'art.  33,  ultimo
comma della  Costituzione»  (sentenza  n.  143  del  1972;  in  senso
analogo, anche sentenze n. 68 del 2011 e  n.  20  del  1982,  nonche'
l'ordinanza n.  95  del  1980,  con  la  quale  questa  Corte  si  e'
autorimessa la questione di legittimita' costituzionale decisa con la
citata sentenza n. 20 del 1982). 
    Non e' privo di  rilievo,  del  resto,  che  tutte  le  parti  in
giudizio  (sia  pur  con   obbiettivi   opposti)   convengano   sulla
circostanza per  cui  la  docenza  presso  la  SNA  non  e'  di  tipo
universitario  e  non  ha  collegamenti  necessari  con  la   ricerca
accademica, presentando invece scopi  peculiari,  in  relazione  alla
preparazione professionale della classe dirigente  pubblica,  cui  la
scuola di formazione in questione mira. 
    Per tutte queste ragioni,  un'interpretazione  costituzionalmente
orientata del riferimento, contenuto  nella  disposizione  censurata,
all'applicazione ai professori in questione dello stato giuridico dei
docenti universitari, conduce a  ritenere  che  esso  sia  unicamente
servente  all'obbiettivo,  pure  perseguito  dalla  disposizione,  di
rideterminare il loro trattamento  economico,  rendendolo  «omogeneo»
(come appunto recita l'art. 21, comma 4, d.l. n. 90  del  2014,  come
convertito) a quello degli altri docenti della SNA,  all'atto  stesso
in cui tutti i docenti delle varie scuole di  formazione  vengono  in
essa trasferiti. 
    La determinazione  di  tale  trattamento  economico  -  conclude,
infatti, il  comma  4  dell'art.  21,  d.l.  n.  90  del  2014,  come
convertito - avviene sulla base del trattamento economico  spettante,
rispettivamente, ai professori o ai ricercatori universitari a  tempo
pieno  con  corrispondente  anzianita'.  Scelta,   del   resto,   non
irragionevole, in  quanto  indirizzatasi  verso  la  retribuzione  di
un'altra, soltanto similare, attivita', quella  appunto  dei  docenti
universitari. 
    3.7.- L'art. 21 del d.l. n. 90 del 2014, come  convertito,  trova
un significativo seguito, a livello  di  normazione  secondaria,  nel
decreto del Presidente del Consiglio dei ministri 25  novembre  2015,
n.  202,  contenente  il  «Regolamento  recante  determinazione   del
trattamento   economico   dei   docenti   della   Scuola    nazionale
dell'amministrazione (SNA)». 
    Come rende chiaro il titolo del decreto,  e  come  stabilisce  il
relativo art. 1, comma 1, esso contiene le regole specifiche  per  la
determinazione del trattamento economico dei docenti della SNA,  come
richiesto dalla fonte primaria.  Con  chiarezza  (art.  1,  comma  2,
lettera d), in  tale  determinazione  risultano  ricompresi  anche  i
docenti  della  soppressa  SSEF,  senza  alcuna  eccezione:   ed   e'
essenzialmente su tale ricomprensione, in effetti, che  si  appuntano
le censure delle ordinanze di rimessione. 
    All'art. 2, comma 1, del decreto in esame  si  stabilisce  dunque
che ai docenti a tempo pieno della  SNA,  «scelti  tra  dirigenti  di
amministrazioni  pubbliche,  magistrati  ordinari,  amministrativi  e
contabili, avvocati dello Stato e consiglieri  parlamentari,  nonche'
ai docenti a tempo indeterminato si applica il trattamento  economico
annuo lordo dei professori  universitari  di  prima  fascia  a  tempo
pieno». Al comma 4 si precisa che  questo  trattamento  economico  e'
correlato  all'espletamento  degli  obblighi  istituzionali  e  delle
attivita'  didattiche  e  scientifiche,  previsti  per  i  professori
universitari a tempo pieno e al relativo impegno didattico. 
    Ai  docenti  in  questione,  si  aggiunge  -   con   disposizione
sostanzialmente sempre presente, almeno fino al d.m. n. 80 del  2002,
come s'e' visto, nelle varie discipline  succedutesi  per  i  docenti
della  "precedente"  SSEF  -  «si   applica   la   disciplina   delle
incompatibilita' e delle autorizzazioni prevista per i professori e i
ricercatori universitari a tempo pieno». 
    L'art. 5, comma 2, del decreto n. 202 del 2015 precisa,  ai  fini
della determinazione del trattamento  economico,  che  i  periodi  di
servizio prestato nelle qualifiche di provenienza  vengono  computati
come anzianita' di servizio nel ruolo dei professori universitari  di
prima o seconda fascia a tempo pieno. Il  comma  4,  infine,  dispone
che, ai fini del  computo  dell'anzianita',  i  periodi  di  servizio
presso la Scuola «vengono valutati in applicazione  della  disciplina
generale relativa ai professori e ai ricercatori universitari». 
    4.- La ricostruzione del rapporto tra le due fonti di  disciplina
da ultimo descritte, quella primaria e quella regolamentare,  risulta
essenziale per la decisione delle questioni sollevate. Sul punto,  la
giurisprudenza amministrativa ha espresso opposti orientamenti. 
    Su ricorso  di  alcuni  docenti  della  ex  SSEF,  di  fronte  al
Tribunale amministrativo  per  il  Lazio  (ex  plurimis,  TAR  Lazio,
sezione prima, sentenze 15 settembre 2016, n. 9758; 4  gennaio  2017,
n. 88 e n. 89) le disposizioni regolamentari  sono  state  annullate,
perche' ritenute in contrasto con l'art. 21, comma 4, d.l. n. 90  del
2014, come convertito. 
    Secondo   questa   prima   prospettiva,   la   disposizione   del
decreto-legge non conterrebbe alcun riferimento preciso  in  tema  di
status  giuridico  dei  docenti  della  SNA  e  in  particolare   non
prevedrebbe l'introduzione di alcun regime di incompatibilita', tanto
meno di quello stabilito all'art. 6, comma 9, della legge 30 dicembre
2010, n. 240 (Norme in materia di organizzazione  delle  universita',
di personale accademico e reclutamento, nonche' delega al Governo per
incentivare la qualita' e l'efficienza del sistema universitario) per
i professori universitari a tempo pieno. Nel quadro della  disciplina
che ha condotto all'unificazione nella SNA  di  tutte  le  scuole  di
formazione della  pubblica  amministrazione,  la  fonte  primaria  si
sarebbe invece limitata a prevedere  l'inserimento  dei  docenti  del
ruolo ad esaurimento della ex SSEF nella neo-riformata SNA. In virtu'
di tale inserimento, l'art. 21, comma 4, citato,  avrebbe  unicamente
stabilito che lo stato giuridico dei docenti della SNA e' quello  dei
professori universitari, ma da cio' non  potrebbe  dedursi,  come  ha
invece fatto il d.P.C.m. n. 202 del 2015, l'implicita introduzione ex
lege - anche per i docenti SNA e percio' per gli  stessi  docenti  ex
SSEF  -  del  regime  di  incompatibilita'  proprio  dei   professori
universitari a tempo pieno. 
    Il Consiglio di Stato rimettente, investito dell'appello  avverso
le  decisioni  appena  ricordate,  esprime  invece  un   orientamento
interpretativo del tutto divergente, ritenendo che il regolamento  di
cui al d.P.C.m. 25 novembre 2015 costituisca  coerente  e  necessaria
applicazione e attuazione dell'art. 21 del d.l. n. 90 del 2014,  come
convertito. 
    Sostengono infatti le ordinanze di rimessione che  l'applicazione
a tutti i docenti della SNA, compresi  percio'  i  docenti  ex  SSEF,
dello  stato  giuridico  dei  professori  universitari,   lungi   dal
costituire una introduzione non consentita  al  d.P.C.m.,  troverebbe
fondamento proprio nella fonte primaria. A fronte di quest'ultima, il
regolamento   non   poteva   che   applicare    a    tali    docenti,
conseguentemente, l'intero stato giuridico previsto per i  professori
universitari, ivi compreso il regime delle incompatibilita'  e  delle
autorizzazioni   allo   svolgimento   di   incarichi   e    attivita'
libero-professionali. Assumono percio' le ordinanze di rimessione che
«la norma regolamentare (come e' tipico delle  norme  di  attuazione)
precisa l'applicazione di un regime giuridico che, laddove non  fosse
stato normativamente  specificato  dalla  fonte  secondaria,  avrebbe
dovuto comunque trovare applicazione in via interpretativa». 
    Non sarebbe del resto plausibile «"sganciare" (nel silenzio della
legge)  dallo  status  giuridico  di  una  determinata  categoria  di
pubblici  dipendenti»  i  plurimi   aspetti   che   propriamente   lo
definiscono.  Diversamente  opinando,  ricordano  le   ordinanze   di
rimessione, occorrerebbe affermare, in senso riduttivo, che applicare
lo status giuridico dei professori  o  dei  ricercatori  universitari
«altro non significherebbe che attribuire  ai  destinatari  solo  una
delle "qualifiche" previste da quell'ordinamento», a prescindere  dal
complesso dei diritti e dei doveri che ogni  attribuzione  di  status
comporta. Ne  deriverebbe  l'incongrua  conseguenza  che,  mentre  si
attribuisce ai docenti ex SSEF lo status economico dei professori  di
prima fascia a tempo pieno, il loro status giuridico continuerebbe  a
essere  quello  delineato  dalla  previgente  normativa,   in   netto
contrasto con la finalita' di "omogeneizzazione" di  trattamento  dei
vari docenti della SNA, enunciata dal legislatore. 
    Presentandosi percio' la fonte regolamentare quale disciplina  di
stretta attuazione di quanto  disposto  dalla  fonte  primaria  -  ed
avendo il Consiglio di  Stato  espressamente  escluso  che  la  prima
«"debordi" dai limiti ad essa imposta» dalla seconda -, ne  consegue,
per le ordinanze di rimessione, la determinante  importanza  assunta,
per  l'esito  delle  cause,  della   decisione   sulla   legittimita'
costituzionale dell'art. 21, comma 4, del d.l. n. 90 del  2014,  come
convertito. 
    Cosi' interpretata la disciplina censurata, secondo  una  lettura
che  fonda  altresi'  la  rilevanza  delle  questioni  sollevate,  le
ordinanze  di  rimessione  sostengono  che  proprio  tale  disciplina
primaria sia all'origine dei vizi lamentati dalla difesa dei  docenti
ex SSEF. Ed enunciano percio', con riferimento all'art. 21, comma  4,
del d.l. n. 90  del  2014,  come  convertito,  le  sei  questioni  di
legittimita' costituzionale prima descritte. 
    5.- Alla  luce  di  questo  percorso  interpretativo,  ugualmente
riprodotto in tutte le ordinanze di rimessione, non sono  fondate  le
eccezioni di inammissibilita' prospettate dalle parti, in particolare
nei propri iniziali atti di costituzione in giudizio. 
    Come viene riconosciuto,  del  resto,  in  alcune  delle  memorie
presentate dalle stesse parti in vista dell'udienza, non si versa, in
primo luogo, in un  caso  nel  quale  l'inammissibilita'  derivi  dal
mancato esperimento, da parte del giudice a  quo,  del  tentativo  di
un'interpretazione  costituzionalmente  conforme  della  disposizione
censurata. 
    Al contrario,  come  si  e'  visto,  in  tutte  le  ordinanze  di
rimessione il giudice a quo ha consapevolmente reputato che il tenore
di  tale  disposizione  imponga  una   particolare   interpretazione,
escludendone altre, eventualmente idonee a neutralizzare  i  vizi  di
legittimita' costituzionale derivanti dalla prima. 
    Nel caso di specie, le ordinanze di rimessione hanno, del  resto,
condotto un accurato esame delle alternative poste a disposizione dal
dibattito giurisprudenziale svoltosi  sulla  disposizione  censurata,
escludendo    consapevolmente    la    possibilita'    di     seguire
un'interpretazione alternativa di quest'ultima. E  la  giurisprudenza
di questa Corte e'  ormai  costante  nel  ritenere  che  la  verifica
dell'esistenza   e   della   legittimita'    delle    interpretazioni
alternative, che il  rimettente  abbia  ritenuto  di  non  poter  far
proprie, e' questione che attiene al merito del giudizio e  non  alla
sua ammissibilita' (sentenze n. 217, n. 158 e n. 78 del 2019,  n.  42
del 2017). 
    Sono  percio'  integrate  le  condizioni  per  ritenere  la   non
implausibilita' della ricostruzione imposta, con conseguente  rigetto
dell'eccezione. 
    In   secondo   luogo,   non   si   e'   affatto    in    presenza
dell'inammissibile richiesta a questa Corte di un avallo  su  di  una
particolare interpretazione dell'art. 21, comma 4, del d.l. n. 90 del
2014, come convertito. Le ordinanze di rimessione assumono con  piena
convinzione la circostanza che quella prospettata, «secondo i normali
canoni ermeneutici», sia l'unica esegesi corretta della disposizione.
E, proprio in virtu' degli esiti cui tale esegesi conduce,  ritengono
che  essa  esibisca   i   vizi   di   illegittimita'   costituzionale
prospettati. 
    Anche questa seconda eccezione va  percio'  rigettata,  potendosi
cosi' accedere alla verifica del merito delle censure prospettate. 
    6.- Venendo all'esame delle  singole  questioni  di  legittimita'
costituzionale, pare opportuno seguire lo stesso ordine logico  delle
ordinanze di rimessione, prendendo le mosse, in  primo  luogo,  dalla
censura secondo la quale - nell'applicare a tutti i docenti del ruolo
ad esaurimento della SSEF lo stato giuridico  dei  professori  e  dei
ricercatori universitari - il citato art. 21, comma 4, violerebbe gli
artt.  3  e   51   Cost.,   poiche'   non   terrebbe   conto   «della
diversificazione  delle  provenienze»  dei   docenti   in   questione
(dirigenti  di  amministrazioni   pubbliche,   magistrati   ordinari,
amministrativi  e  contabili,  avvocati  dello  Stato  e  consiglieri
parlamentari),  provenienze   che   sarebbero   state,   del   resto,
«conservate»  anche  in  costanza  del  rapporto  con  la  SSEF.   La
disposizione, inoltre, non avrebbe nemmeno considerato la  differenza
di status originario esistente tra tali docenti e quelli delle  altre
scuole confluite nella SNA, e nemmeno  avrebbe  tenuto  in  conto  la
stessa  diversita'  delle  categorie  dei  docenti   gia'   esistenti
all'interno della SNA. 
    In tal modo, si sostiene nelle ordinanze di rimessione, la  norma
si porrebbe in contrasto con il principio di ragionevolezza,  perche'
determinerebbe un'unica forma  di  "accesso"  agli  uffici  pubblici,
sulla base di  un  trattamento  giuridico  unitario  «per  situazioni
soggettive  connotate   da   sensibili   ed   originarie   differenze
strutturali». 
    La questione non e' fondata. 
    Per  come  e'  formulata  la  censura  -  a   prescindere   dalla
correttezza della qualificazione in termini di «"accesso" agli uffici
pubblici» di una peculiare vicenda modificativa di un  rapporto  gia'
instaurato  alle  dipendenze  della  pubblica  amministrazione  -  le
ordinanze di rimessione si dolgono, anzitutto, della circostanza  che
il legislatore, una volta deciso il trasferimento presso la  SNA  dei
docenti  del  ruolo  ad  esaurimento  della  soppressa  SSEF,   abbia
attribuito  loro  un  unico  status  giuridico,  quello  dei  docenti
universitari, anziche' tener conto della diversita' delle  rispettive
provenienze   originarie   (magistratura   ordinaria,   contabile   o
amministrativa, pubblica amministrazione centrale, eccetera). 
    Tale assunto si appalesa del tutto incongruo, in  virtu'  di  una
serie di dati normativi. 
    In primo luogo,  come  si  e'  ampiamente  visto,  i  docenti  in
questione, mediante l'esercizio di un diritto  di  opzione  (previsto
dal d.m. n. 359 del 2000), hanno abbandonato  le  amministrazioni  di
provenienza,  accettando  di  essere   inquadrati   nel   ruolo   dei
«professori incaricati non temporanei» della SSEF, istituito dal d.m.
n. 301 del 2000 (artt. 3, comma 3, e 5, comma  5),  a  seguito  delle
modifiche ad esso apportate dal d.m. n. 359  del  2000.  Circostanza,
questa, riconosciuta anche da alcune delle parti, che negli  atti  di
costituzione in giudizio asseriscono proprio che i docenti ex SSEF, a
differenza degli altri docenti  SNA,  sono  ormai  «docenti  a  tempo
indeterminato inseriti nel  ruolo  ad  esaurimento»  della  soppressa
SSEF. 
    Ben vero che la disciplina recata da alcuni dei ricordati decreti
ministeriali di quel periodo (in particolare dal d.m. n. 80 del 2002)
si presentava di  particolare  favore,  poiche'  consentiva  loro  di
conservare il trattamento economico relativo alla qualifica posseduta
presso l'amministrazione di provenienza, incrementato (art. 3,  comma
3, del d.m. n. 301 del 2000, come modificato dal d.m. n. 80 del 2002)
da un ulteriore trattamento economico. E ben vero che tale  favor  si
manifestava, altresi', nella prevista «salvezza  delle  procedure  di
avanzamento in carriera nelle amministrazioni di  provenienza»  (art.
5, comma 4, del citato d.m. n. 301 del 2000). 
    Ma - in disparte ogni valutazione su una disciplina che, oltre al
diritto a mantenere il trattamento  economico  di  un'amministrazione
che si e' lasciata, attribuiva anche quello di vedersi  garantite  le
procedure di avanzamento in carriera in quelle stesse amministrazioni
- non puo' certo sostenersi che, ad  ogni  successiva  trasformazione
della condizione di quei docenti e dell'organizzazione della SSEF, il
legislatore   debba   necessariamente    tener    conto,    a    pena
d'illegittimita' costituzionale, di ogni trascorsa peculiarita' dello
status giuridico di quei soggetti. 
    In secondo luogo, va ricordato che  un  diritto  di  opzione,  da
esercitarsi in senso  inverso,  cioe'  in  vista  del  rientro  nelle
amministrazioni di provenienza, fu previsto, ma a quanto risulta  non
esercitato da alcuno dei ricorrenti, dall'art. 4-septies del d.l.  n.
97  del  2008,  come  convertito,  in   occasione   della   creazione
dell'apposito ruolo  ad  esaurimento  per  i  professori  della  SSEF
inquadrati nella Scuola ai sensi dell'art. 5, comma 5,  del  d.m.  n.
301 del 2000. 
    Sicche', l'esercizio della prima  possibilita'  di  opzione  (per
ottenere l'inquadramento nella SSEF), e il  mancato  esercizio  della
seconda (in vista del rientro nelle amministrazioni di  provenienza),
danno ampiamente conto  delle  ragioni  per  cui  il  legislatore  ha
unitariamente considerato i docenti del ruolo  ad  esaurimento  della
SSEF, in quanto tali, a prescindere  dalle  appartenenze  originarie,
non solo ormai lontane nel tempo, ma rescisse per scelta volontaria e
non  ricostituite  quando  la  disciplina  normativa  ne  ha  fornito
occasione. 
    La chiara  condizione  giuridica  dei  docenti  in  questione  ha
insomma consentito al legislatore - non certo irragionevolmente (art.
3 Cost.), ne' in  violazione  dell'eguale  diritto  di  accesso  agli
uffici pubblici (art. 51 Cost.) - di considerarli, senza distinzioni,
allo scopo di attribuire loro un unico status giuridico. 
    D'altro canto - in relazione all'ulteriore  profilo  di  censura,
relativo alla mancata considerazione delle differenze sussistenti tra
i docenti ex SSEF e gli altri docenti afferenti alla SNA - e' agevole
osservare come la stessa ratio della disposizione censurata  richiede
il superamento delle varie  distinzioni  di  status  presenti  tra  i
docenti delle diverse scuole di formazione (e tra gli stessi  docenti
della medesima  scuola),  esigendo,  a  conclusione  del  complessivo
riassetto,  una  ragionevole  omogeneizzazione   tra   le   posizioni
giuridiche di tutti i docenti confluiti nella SNA. 
    In effetti, l'art. 21, comma 1, del d.l. n.  90  del  2014,  come
convertito,   indica,   tra   le   proprie   finalita',   quella   di
«razionalizzare  il  sistema  delle  scuole   di   formazione   delle
amministrazioni  centrali»,   nonche'   quella   di   eliminare   «la
duplicazione degli organismi esistenti». E  risulterebbe  paradossale
che la definitiva istituzione di un'unica scuola di formazione per la
pubblica  amministrazione  centrale,  perseguita  nel   segno   della
semplificazione e della razionalizzazione, debba, tutt'al  contrario,
risolversi nella rinnovata,  puntuale,  registrazione  di  differenze
(originarie o sopravvenute che siano), con il rischio, oltretutto, di
riprodurre, all'interno stesso della  nuova  disciplina  dei  docenti
della SNA, irragionevoli disparita' di status e di trattamento. 
    7.- Con una seconda censura, lamentano le ordinanze di rimessione
la lesione degli stessi artt. 3 e 51  Cost.,  perche'  -  pur  avendo
l'art. 21, comma 4,  del  d.l.  n.  90  del  2014,  come  convertito,
determinato «il trattamento economico da corrispondere in quello  del
professore a tempo pieno e cosi' qualificando lo status giuridico  in
senso corrispondente, ivi compreso il regime delle  incompatibilita'»
- la disposizione non avrebbe previsto, per i soli docenti  della  ex
SSEF, il diritto di opzione tra il regime a tempo pieno  e  quello  a
tempo  definito.  Ne  deriverebbe  che,  pur  possedendo  lo   status
giuridico  dei  professori  universitari,  i  docenti  in   questione
costituirebbero l'unico esempio di appartenenti a tale  categoria  ai
quali non sarebbe riconosciuto il diritto di opzione in parola. 
    Anche tale questione non e' fondata. 
    In primo luogo, come risulta  dalla  descritta  evoluzione  della
disciplina relativa alla condizione giuridica dei docenti della  SSEF
(supra, punto 3 del Considerato  in  diritto),  e  come  si  e'  gia'
evidenziato enunciando l'interpretazione costituzionalmente orientata
della  disposizione  censurata,  quest'ultima,  nella  parte  in  cui
stabilisce l'applicazione, ai docenti ex SSEF, dello stato  giuridico
dei professori o dei ricercatori universitari, non puo' essere intesa
nel senso che e' istituito un, del tutto peculiare, canale  d'accesso
ai ruoli della docenza universitaria. Essa deve invece intendersi  in
senso  unicamente  servente  all'obbiettivo   di   rideterminare   il
trattamento  economico  di  quei  docenti,  attribuendosi   loro   la
retribuzione dei professori di prima fascia a tempo pieno, in modo da
renderlo «omogeneo», come si esprime la disposizione, a quello  degli
altri docenti della SNA. 
    Ne deriva, gia' sotto  questo  profilo,  l'incongruita'  di  ogni
rivendicato riferimento alla  condizione  giuridica  complessiva  dei
docenti universitari, compreso il diritto di esercitare l'opzione tra
regime d'impegno a tempo pieno e quello a tempo definito. 
    In  secondo  luogo,  per  i  docenti  stabilmente  incaricati  di
attivita' di insegnamento nella SSEF e' costante, come s'e' detto, la
presenza   di   previsioni   che    hanno    variamente    introdotto
incompatibilita' con le attivita' libero-professionali. 
    Gia'  l'art.  9  del   d.P.R   n.   336   del   1992   richiamava
significativamente il regime d'impegno a tempo pieno  dei  professori
universitari di cui all'art.  11  del  d.P.R.  n.  382  del  1980,  e
successive modificazioni; in seguito, l'art. 7 del d.m.  n.  301  del
2000, nella sua versione originaria, conteneva una  netta  previsione
in tema di incompatibilita', statuendo che «i  professori  incaricati
non temporaneamente e collocati fuori ruolo, comando  o  aspettativa,
non possono svolgere, pena  la  cessazione  immediata  dell'incarico,
attivita' libero professionale, in via diretta o  indiretta».  Veniva
invece subordinata ad una valutazione del rettore  la  compatibilita'
con  l'insegnamento  nella  Scuola  dello   svolgimento   di   «altri
incarichi». 
    Con le modifiche recate dal d.m. n. 80 del 2002 si e' prevista la
acquisizione «ad ogni effetto» dello stato giuridico e delle funzioni
dei «professori  ordinari»,  con  il  beneficio  di  una  sostanziale
attenuazione del regime delle incompatibilita',  poiche'  l'attivita'
professionale risulta in generale consentita, tranne che nel  settore
fiscale e nelle materie afferenti alla vigilanza sul  credito,  sulle
assicurazioni e sul mercato mobiliare. 
    Nell'ambito   del   lavoro   alle   dipendenze   della   pubblica
amministrazione, cui tutti i docenti della rinnovata SNA appartengono
a pieno titolo, compresi  i  docenti  ex  SSEF,  vige,  tuttavia,  il
principio generale di esclusivita' del  rapporto  di  impiego,  quale
desumibile  dalla  disciplina  dettata  dall'art.  53   del   decreto
legislativo 30 marzo 2001, n. 165  (Norme  generali  sull'ordinamento
del lavoro alle dipendenze delle amministrazioni pubbliche). 
    Come chiarito dalla  giurisprudenza  di  legittimita'  (Corte  di
cassazione, sezione lavoro, sentenza 12  dicembre  2018,  n.  32156),
infatti, la norma dettata dal richiamato art.  53,  al  comma  1,  ha
sancito una vera e propria estensione a tutti i dipendenti  pubblici,
contrattualizzati e non, del regime delle  incompatibilita'  previsto
dal decreto del Presidente della Repubblica 10  gennaio  1957,  n.  3
(Testo  unico  delle  disposizioni  concernenti  lo   statuto   degli
impiegati civili dello Stato) agli artt. 60 e seguenti, salvo deroghe
espresse. Dunque, il citato art. 53 ha disposto,  con  riferimento  a
tutti    i    pubblici    dipendenti,    il    generale     principio
dell'incompatibilita', il che rende non possibile lo  svolgimento  di
attivita' professionali concomitanti e concorrenti, salvo eccezioni a
tale regola generale, che devono pero' essere previste  espressamente
dalla legge. 
    L'obbligo di esclusivita', desumibile dal richiamato art. 53, ha,
del resto,  particolare  rilievo  nel  rapporto  di  lavoro  pubblico
perche' trova il suo fondamento  costituzionale  nell'art.  98  Cost.
(cosi', sentenza n. 566 del 1989). Tale disposizione  costituzionale,
nel prevedere che «i pubblici impiegati sono  al  servizio  esclusivo
della  Nazione»,  rafforza  il  principio  di  imparzialita'  di  cui
all'art.   97   Cost.,   sottraendo   il   dipendente   pubblico   ai
condizionamenti  che  potrebbero  derivare  dall'esercizio  di  altre
attivita' (cosi', da ultimo, Corte  di  cassazione,  sezione  lavoro,
sentenza 6 febbraio 2019, n. 3467). 
    E' quindi del tutto naturale che anche ai  docenti  ex  SSEF,  in
quanto ormai componenti della SNA come  gli  altri,  si  applichi  la
relativa disciplina delle incompatibilita', ai  sensi  dell'art.  21,
comma 4, del d.l. n. 90 del 2014, come attuato dall'art. 2, commi 2 e
4, del d.P.C.m. 25 novembre 2015. 
    Anziche' diretta  conseguenza  della  (inesistente)  acquisizione
dello status  di  docenti  universitari,  la  scelta  legislativa  di
riferirsi alla retribuzione  dei  professori  universitari  di  prima
fascia a tempo pieno per determinare  il  trattamento  economico  dei
docenti  della  SNA,  e  percio'  anche  dei  docenti  ex  SSEF,  e',
piuttosto,  il  risultato  di  un  equilibrato   contemperamento   di
interessi. Da una parte, la volonta'  di  individuare,  anche  per  i
docenti ex SSEF,  il  trattamento  economico  piu'  vantaggioso,  tra
quelli possibili una volta operata la unificazione delle varie scuole
nella SNA, tramite il riferimento a quella che  -  nell'ambito  della
docenza universitaria - risulta la piu' elevata qualifica possibile a
fini retributivi; dall'altra, l'obiettivo di uniformare la condizione
giuridica dei docenti ex SSEF a quella di tutti gli altri docenti che
afferiscono alla SNA, tramite la previsione di  incompatibilita'  con
l'attivita' libero-professionale. 
    Anzi, a ben vedere, proprio la scelta contraria - consentire solo
ai docenti ex  SSEF,  in  omaggio  ad  una  trascorsa  condizione  di
privilegio,  lo  svolgimento  dell'attivita'  libero-professionale  -
arrecherebbe un vulnus alle esigenze organizzative della SNA, e anche
alla parita' di trattamento tra tutti i  docenti  in  servizio  nella
stessa SNA. 
    Il  ragionamento  dei  giudici  rimettenti   va   in   definitiva
rovesciato: se i docenti ex SSEF trasferiti alla SNA, oltre a  godere
dello stipendio dei professori universitari di prima fascia  a  tempo
pieno, potessero  anche  svolgere  attivita'  libero-professionale  -
attraverso l'esercizio del diritto di opzione del quale le  ordinanze
di rimessione  lamentano  l'assenza  -  essi  allora  costituirebbero
realmente, senza alcuna giustificazione plausibile, una categoria del
tutto a se' stante nell'ambito  dell'impiego  alle  dipendenze  della
pubblica amministrazione. 
    8.- Con la terza censura e' lamentata la lesione degli artt. 3  e
36 Cost., poiche', nell'attribuire ai docenti provenienti dalla  SSEF
«il trattamento economico spettante, rispettivamente, ai professori o
ai  ricercatori  universitari  a  tempo  pieno   con   corrispondente
anzianita'»,  la  disposizione  censurata  determinerebbe,  in   modo
irragionevole e non  sorretto  da  motivi  di  tutela  dell'interesse
pubblico, «con violazione del legittimo  affidamento  nella  certezza
delle situazioni giuridiche», un livellamento verso il basso del loro
trattamento economico, attraverso una reformatio in peius  di  quello
originariamente corrisposto, con assimilazione di situazioni diverse,
e «senza prevedere meccanismi di progressiva  omogeneizzazione»,  che
tengano conto delle retribuzioni gia' percepite. 
    La questione non e' fondata. 
    In primo luogo, del tutto inconferente  e'  l'evocazione  di  una
lesione dell'art. 36  Cost.,  motivata  con  la  circostanza  che  ai
docenti ex SSEF e' attribuito il trattamento  economico  dei  docenti
universitari di prima fascia a tempo  pieno,  a  meno  di  non  voler
proiettare un dubbio  di  legittimita'  costituzionale  sulla  stessa
congruita' della retribuzione di tutti i docenti universitari. 
    In secondo luogo, e' agevole osservare che  quella  censurata  e'
scelta non irragionevole, innanzitutto  perche'  volta  a  realizzare
l'omogeneita' di trattamento interna ai docenti della SNA, che e' tra
i dichiarati obbiettivi del legislatore. Da tale punto di vista,  non
puo' dirsi - come pure fanno alcune delle parti private costituite in
giudizio -  che  la  scelta  di  un  simile,  specifico,  trattamento
economico non rispetti la lettera dell'art. 21, comma 4, del d.l.  n.
90 del 2014, come convertito, che richiede appunto "omogeneita'"  tra
il trattamento economico da attribuirsi ai docenti ex SSEF  e  quello
spettante a tutti gli altri docenti della SNA. 
    Se infatti e' vero che il criterio dell'omogeneita' non impone di
per se' che il trattamento economico sia determinato in un  ammontare
esattamente  corrispondente  a  quello   percepito   dai   professori
universitari, e' altrettanto vero che neppure esclude una tale esatta
corrispondenza. La disciplina complessiva in  esame  e',  quindi,  il
risultato della integrazione della fonte primaria ad opera di  quella
regolamentare, e la giurisprudenza di questa Corte stabilisce che  e'
possibile il sindacato di  costituzionalita'  sulla  fonte  primaria,
quando  questa  diventa  in  concreto   applicabile   attraverso   le
specificazioni  formulate  in  quella  secondaria,  che  della  prima
costituisce il completamento (da ultimo sentenze n. 3  del  2019,  n.
224 e n. 200 del 2018). 
    Attribuendo anche ai docenti ex SSEF, nell'ambito della rinnovata
disciplina relativa alla condizione di tutti i docenti della SNA,  il
trattamento dei professori  universitari  di  prima  fascia  a  tempo
pieno, tale disciplina non puo' inoltre ritenersi  irragionevole,  in
quanto espressiva della volonta' legislativa di attribuire a tutti  i
docenti a tempo pieno della SNA (pur con le giustificabili  eccezioni
previste all'art. 2, commi 2 e 3, del d.P.C.m. 25 novembre 2015),  al
piu' alto livello possibile, il medesimo  trattamento  economico.  Al
tempo stesso, la  scelta  in  questione  e'  indicativa  anche  della
volonta' di tenere in giusto conto, nei  termini  e  nei  limiti  del
possibile, il pregresso, piu' elevato, trattamento retributivo goduto
dai docenti ex SSEF. 
    Non  ha  percio'  fondamento  la  censura  di  asserita   lesione
dell'affidamento che i docenti in questione avrebbero  riposto  nella
conservazione delle proprie pregresse retribuzioni, ne'  puo'  essere
sostenuta la  violazione  in  loro  danno  del  principio  (di  rango
primario) di irriducibilita'  della  retribuzione,  a  seguito  della
reformatio in peius di quella originariamente corrisposta. 
    Va innanzitutto detto che il legislatore, nel caso ora in  esame,
non ha operato alcun intervento di  carattere  retroattivo  in  senso
proprio  sulle  retribuzioni  in  parola.  Ha  realizzato  invece  un
intervento  normativo  incidente  sulla  retribuzione  corrente   dei
docenti ex SSEF, cioe' su un rapporto di durata. Ben vero che,  nella
giurisprudenza di questa Corte, il valore del  legittimo  affidamento
riposto nella sicurezza giuridica e la fiducia nella  permanenza  nel
tempo  di  un  determinato  assetto  regolatorio  trovano   copertura
costituzionale nell'art. 3 Cost., e sono  principi  connaturati  allo
Stato   di   diritto,    in    quanto    declinazioni    "soggettive"
dell'indispensabile coerenza di un  ordinamento  giuridico,  e  della
certezza del diritto che esso deve assicurare. Tuttavia,  in  base  a
principi  costantemente  ribaditi,  tutto  questo  non  puo'   essere
affermato  in  termini  assoluti  e   inderogabili,   poiche'   anche
l'affidamento e' soggetto al normale bilanciamento proprio di tutti i
principi e diritti costituzionali (da  ultimo  sentenza  n.  108  del
2019); con la conseguenza che non e'  interdetto  al  legislatore  di
emanare disposizioni che  modifichino  in  senso  sfavorevole  per  i
destinatari la disciplina di rapporti di  durata,  a  condizione  che
tali disposizioni  non  trasmodino  in  un  regolamento  irrazionale,
frustrando  del  tutto,  con  riguardo  alle  situazioni  sostanziali
fondate  su  discipline  precedenti,  l'affidamento  nella  sicurezza
giuridica (sentenze n. 149 e n. 16 del 2017, n. 203 del 2016). 
    Da questo punto di vista, nel  caso  in  esame,  la  disposizione
censurata provvede al contemperamento, nei limiti del possibile,  tra
due  esigenze  potenzialmente  contrapposte:  la  considerazione  del
pregresso trattamento economico dei docenti ex SSEF, e la  necessita'
di non determinare intollerabili disparita' retributive tra  tutti  i
docenti della rinnovata SNA.  E  non  puo'  certo  ritenersi  che  il
risultato  di  tale  contemperamento  trasmodi  in   un   regolamento
irrazionale. 
    Nella  medesima  prospettiva,  a   sostegno   dell'illegittimita'
costituzionale  della  disciplina  censurata   per   violazione   del
legittimo affidamento vantato  dai  docenti  ex  SSEF,  non  potrebbe
essere validamente richiamato il principio di  irriducibilita'  della
retribuzione. 
    Ben vero che, in forza dell'art. 31 del d.lgs. n. 165  del  2001,
un tale principio opera (sulla falsariga di quanto statuito dall'art.
2112 del Codice civile per i trasferimenti d'azienda nell'ambito  del
lavoro privato) anche nel pubblico impiego  contrattualizzato  -  nei
casi  di  trasferimento  o  conferimento  di  attivita',  svolte   da
pubbliche amministrazioni, enti pubblici o loro aziende o  strutture,
ad altri soggetti, pubblici o privati  -  qualunque  sia  la  vicenda
giuridica che un tale passaggio di personale abbia determinato. 
    Anche con riferimento a questo personale, tuttavia, il principio,
di  rango  legislativo  primario,  non  vale  in  assoluto,   essendo
derogabile ad opera di norme speciali dotate di pari rango di  quella
che lo prevede (appunto il citato art.  31  del  d.lgs.  n.  165  del
2001), purche' una tale disciplina speciale si fondi  su  ragionevoli
giustificazioni, quali, ad  esempio,  la  necessita'  di  evitare  la
creazione di disparita' retributive, a parita'  di  funzioni,  tra  i
dipendenti trasferiti e quelli gia' in servizio  nell'amministrazione
"ricevente"  (ad  esempio,  Corte  di  cassazione,  sezione   lavoro,
sentenza 30 maggio 2016, n. 11123). 
    Ora,  un  tale  orientamento  giurisprudenziale  -  relativo   al
personale  pubblico  contrattualizzato,   il   cui   trattamento   e'
essenzialmente disciplinato da contratti collettivi -  risulta  ancor
piu'  netto  con  riferimento  al  personale  non  contrattualizzato,
tuttora in regime di diritto  pubblico,  quale  e'  quello  coinvolto
dalla disciplina qui sospettata d'illegittimita' costituzionale.  Per
tale personale, il cui trattamento economico  e'  sempre  determinato
dalla legge,  la  giurisprudenza  amministrativa  (cosi'  TAR  Lazio,
sezione prima, sentenza 10 giugno 2017, n. 6874)  sottolinea  che  il
divieto della reformatio in  peius  della  retribuzione  -  che,  del
resto, veniva applicato soltanto  quando  l'impiegato  fosse  rimasto
alle dipendenze dello stesso ente e non anche quando fosse passato ad
altra amministrazione (Consiglio di Stato, sezione quinta, sentenza 5
settembre 2012, n. 4690) - e' stato espunto dalla disciplina generale
sul pubblico impiego dall'art. 1, comma 458, della legge 27  dicembre
2013, n. 147, recante «Disposizioni per la  formazione  del  bilancio
annuale e pluriennale dello Stato (Legge  di  stabilita'  2014)».  In
mancanza di copertura costituzionale del principio di irriducibilita'
della retribuzione (sentenze n. 330 del 1999 e n. 219 del 1998), tale
disposizione ha infatti abrogato le norme (contenute negli artt.  202
del d.P.R. n. 3 del 1957 e 3, commi 57 e 58, della legge 24  dicembre
1993, n. 537, recante «Interventi correttivi  di  finanza  pubblica»)
che  prevedevano  -  in  caso  di   passaggio   del   dipendente   da
un'amministrazione ad un'altra -  la  corresponsione  di  un  assegno
personale (riassorbibile nei successivi incrementi  stipendiali)  per
consentire il mantenimento del trattamento  economico  in  godimento,
ove superiore a quello riconosciuto nella posizione di destinazione. 
    Applicando tali principi al caso in esame, ne risulta  pianamente
che l'art. 21, comma 4, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, non
lede l'art. 3 Cost., laddove prevede, in capo ai docenti ex SSEF,  in
virtu'  del  loro  trasferimento  alla  SNA,  una   riduzione   della
retribuzione  originaria,  poiche'   tale   riduzione   e'   sorretta
dall'adeguata   e   ragionevole   giustificazione   di   non   creare
sperequazioni retributive tra i docenti della stessa SNA,  a  parita'
di funzioni esercitate. 
    9.-  A  parziale  modifica  dell'ordine  logico   seguito   dalle
ordinanze di rimessione nella formulazione delle questioni sollevate,
va ora particolarmente considerata  la  censura  mossa  all'art.  21,
comma 4, del d.l. n. 90 del 2014, come convertito, in relazione  agli
artt. 3, 36,  38,  51  e  97  Cost.,  per  non  essere  prevista  una
disciplina transitoria che  consenta  ai  docenti  in  questione,  in
occasione della soppressione della SSEF, di scegliere tra il  rientro
nei ruoli di originaria provenienza e la permanenza «nel (modificato)
status di docente presso la SNA». 
    A sostegno della illegittimita' costituzionale in parte qua della
disposizione censurata, le ordinanze di rimessione invocano,  sia  le
osservazioni svolte in sede consultiva dal Consiglio  di  Stato  (che
aveva  effettivamente  suggerito   l'inserimento,   nell'ambito   del
d.P.C.m. 25 novembre 2015, di una disciplina  transitoria:  Consiglio
di Stato, sezione consultiva atti normativi, pareri n. 533,  adottato
nell'adunanza del 29 gennaio 2015 e n. 2157,  adottato  nell'adunanza
del 9 luglio 2015), sia la sentenza di questa Corte n. 166 del 2012. 
    Quest'ultima, in particolare, scrutino' gli artt.  1  e  2  della
legge 2 novembre 2003, n. 339 (Norme in materia  di  incompatibilita'
dell'esercizio della professione di avvocato), che introducevano, per
i dipendenti  pubblici  a  tempo  parziale  iscritti  all'albo  degli
avvocati,  la  incompatibilita'  tra  l'esercizio  della  professione
legale e il mantenimento dell'impiego pubblico. La sentenza nego' che
tali disposizioni violassero l'affidamento dei dipendenti pubblici in
questione, gia'  legittimamente  iscritti  all'albo  degli  avvocati.
Cio', in forza  della  predisposizione  di  un'articolata  disciplina
transitoria, che consentiva loro di scegliere,  nel  termine  di  tre
anni, se mantenere il rapporto di impiego  pubblico  a  tempo  pieno,
ovvero di esercitare la professione forense,  conservando  pero'  per
cinque anni successivi (in caso  di  ripensamento)  il  diritto  alla
riammissione al posto di provenienza. 
    Come si vede, si versava in una situazione differente  da  quella
qui in esame, poiche' si trattava allora di riconoscere, a chi avesse
optato per la libera professione, il diritto di rientrare,  entro  un
certo termine, alle dipendenze della pubblica amministrazione, mentre
nel caso di specie la richiesta opzione avverrebbe tra due  posizioni
egualmente "garantite", in  quanto  entrambe  alle  dipendenze  della
pubblica amministrazione,  laddove  una  delle  due  si  riveli  piu'
conveniente in seguito all'intervento della norma censurata. 
    Per parte sua, l'Avvocatura dello Stato, nelle memorie presentate
in vista dell'udienza, richiama, a favore del rigetto della  censura,
il mancato esercizio,  da  parte  dei  docenti  ex  SSEF,  del  (gia'
esaminato supra, punto 3.5.) diritto di opzione per  il  rientro  nei
ranghi delle amministrazioni di provenienza,  espressamente  previsto
dall'art. 4-septies del d.l. n.  97  del  2008,  in  occasione  della
creazione dello specifico ruolo ad esaurimento  dei  docenti  stabili
afferenti alla SSEF. Osserva l'Avvocatura che tale mancato  esercizio
avrebbe determinato l'interruzione definitiva di  ogni  rapporto  con
l'amministrazione originaria e un «nuovo inquadramento», appunto  nel
ruolo ad esaurimento ricordato. Conclude, per queste ragioni, che non
sarebbe  «costituzionalmente  necessitata»  la  previsione   di   una
reversibilita' della scelta compiuta «ad  ogni  successivo  mutamento
del trattamento giuridico-retributivo» dei docenti in questione. 
    Il legislatore non ha,  in  effetti,  ritenuto  di  prevedere,  a
favore dei docenti ex SSEF, alcuna specifica  disciplina  transitoria
(salve restando altre regole di rientro applicabili nella specie). 
    E,  in  disparte  il  rilievo  per  cui  una  simile   disciplina
transitoria  potrebbe  avere  i  contenuti  piu'  diversi  rientrando
nell'ambito delle scelte discrezionali del  legislatore,  va  escluso
che essa sia costituzionalmente necessaria, in relazione  a  soggetti
che, ormai da tempo, hanno assunto  la  sola  stabile  condizione  di
docenti inquadrati nel ruolo ad esaurimento della SSEF. 
    Le questioni devono pertanto essere dichiarate non fondate. 
    10.-  A  causa  della  sua  apodittica  formulazione,  va  invece
dichiarata inammissibile la censura che  lamenta  la  violazione,  da
parte  dell'art.  21,  comma  4,  del  d.l.  n.  90  del  2014,  come
convertito, degli artt. 3, 36 e 38 Cost. 
    Tutte le ordinanze di rimessione si limitano a sostenere  che  la
disposizione  non  prevedrebbe,  in  riferimento  a  «docenti  aventi
qualifiche  e  provenienze  diverse  nell'ambito  del  piu'  generale
rapporto di lavoro con le pubbliche amministrazioni»,  che  sia  loro
conservato il  trattamento  previdenziale  attualmente  previsto  (o,
comunque, che questo venga  autonomamente  considerato  e  valutato),
consentendo invece, attraverso il richiamo allo status  giuridico  ed
economico del professore universitario, l'applicazione «agli  stessi»
del trattamento previdenziale di quest'ultimo. 
    Mentre, come noto, non  puo'  farsi  ricorso,  per  il  principio
dell'autosufficienza dell'ordinanza di rimessione, alle  integrazioni
spese sul punto dalle parti private costituite (ordinanze n. 111  del
2019, n. 37 del 2018 e n. 209  del  2015),  va  sottolineato  che  le
ordinanze di rimessione non ricostruiscono in alcun  modo  il  quadro
normativo che, nell'ambito  del  sistema  previdenziale,  condurrebbe
alla produzione degli effetti lamentati, i quali  risultano,  in  tal
modo, apoditticamente ipotizzati ma  non  dimostrati.  Sarebbe  stato
anche necessario, al fine di prospettare correttamente la  violazione
dei  parametri  costituzionali  evocati,  operare   una   valutazione
specifica delle singole posizioni delle parti in giudizio, in ipotesi
diverse l'una dall'altra e  tra  loro  potenzialmente  variabili,  ad
esempio, quanto al regime di riferimento - contributivo,  retributivo
o misto - per il calcolo del trattamento previdenziale, o quanto alla
decorrenza del relativo  diritto,  oppure,  ancora,  in  ordine  alla
natura delle somme  spettanti  al  termine  del  rapporto  di  lavoro
(trattamento di fine servizio o trattamento di fine  rapporto).  Cio'
costituisce ulteriore causa d'inammissibilita' della censura. 
    11.-  Infine,  oscura  e  apodittica,  e  percio'  a  sua   volta
inammissibile, e' la censura che sottolinea  l'asserita  lesione,  da
parte della disposizione in esame, degli  artt.  3  e  97  Cost.,  in
quanto determinerebbe «una violazione dei principi di imparzialita' e
buon andamento da parte della Pubblica Amministrazione, nei confronti
di soggetti ad essa legati da rapporto di impiego,  come  conseguenza
della omessa considerazione  della  diversificazione  dei  rispettivi
ruoli di provenienza». 
    Non si comprende, in particolare, se quello ai diversi  ruoli  di
provenienza sia un riferimento ai  ruoli  originari  dei  docenti  ex
SSEF, oppure a quelli di tutti i docenti della SNA, sia gia' presenti
nella stessa SNA, sia futuri. 
    Per vero, le parti accennano, negli atti di costituzione, ad  una
possibile diminuzione della capacita' attrattiva  della  SNA,  dovuta
alla disposizione censurata, nei confronti di tutte le  varie  figure
professionali teoricamente nominabili quali docenti della Scuola, che
ha la  funzione  di  assicurare  una  formazione  il  piu'  possibile
qualificata agli appartenenti alla pubblica amministrazione. Anche ad
ammettere  che  tali  argomentazioni  possano   essere   oggetto   di
considerazione  -  costituendo  non  gia'  allargamento   del   thema
decidendum, ma semplice specificazione  di  profili  gia'  presentati
all'esame di questa Corte - esse  spostano  l'attenzione  su  aspetti
problematici  non  attuali,  prospettati  in  via  astratta   e   che
prescindono da un concreto collegamento con le  vicende  oggetto  dei
giudizi principali e, dunque,  privi  di  rilevanza  nei  processi  a
quibus (sentenza n. 84 del 2016; ordinanza n. 101 del 2019),  in  cui
e' in discussione la condizione di  docenti  ex  SSEF  effettivamente
trasferiti alla SNA. 
    Nelle memorie presentate in vista dell'udienza, le  stesse  parti
invece evidenziano, a fondamento di questa  stessa  censura,  come  i
principi  di  imparzialita'   e   buon   andamento   della   pubblica
amministrazione sarebbero garantiti anche da un adeguato  trattamento
economico, che metta al riparo i dipendenti pubblici  «da  tentazioni
di partigianeria derivanti dalla possibilita' di conseguire  ingiusti
arricchimenti». 
    Questa duplice prospettazione non fa che confermare il  carattere
oscuro - e  percio'  passibile  delle  piu'  varie  letture  -  della
censura, per come formulata nelle ordinanze di rimessione. 
    Anche se considerate alla luce delle argomentazioni di parte,  le
questioni restano inammissibili, e tali vanno pertanto dichiarate. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    riuniti i giudizi, 
    1)  dichiara   inammissibili   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 21, comma 4,  del  decreto-legge  24  giugno
2014, n. 90 (Misure urgenti per la semplificazione e  la  trasparenza
amministrativa  e  per   l'efficienza   degli   uffici   giudiziari),
convertito, con modificazioni, nella legge 11 agosto  2014,  n.  114,
sollevate,  in  riferimento  agli  artt.  3,  36,  38  e   97   della
Costituzione,  dal  Consiglio  di  Stato,  sezione  quarta,  con   le
ordinanze indicate in epigrafe; 
    2)  dichiara   non   fondate   le   questioni   di   legittimita'
costituzionale dell'art. 21, comma  4,  del  d.l.  n.  90  del  2014,
sollevate, in riferimento agli artt. 3, 36, 38, 51 e  97  Cost.,  dal
Consiglio di Stato, sezione quarta,  con  le  ordinanze  indicate  in
epigrafe. 
 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, l'8 ottobre 2019. 
 
                                F.to: 
                    Giorgio LATTANZI, Presidente 
                      Nicolo' ZANON, Redattore 
                     Roberto MILANA, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 21 novembre 2019. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA 
 

 

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