La vicenda del Covid 19, meglio noto come coronavirus, al di là delle conseguenze economico-sociali che avrà su tutti noi, porta in evidenza il tema del telelavoro nella PA e quanto questo possa essere, non solo risolutivo in situazioni di emergenza, ma anche un’ottima strategia per una reale svolta nella Pubblica Amministazione.
Due anni fa ebbi personalmente la possibilità di toccare con mano la questione quando, affetto da una patologia alla gamba che mi costringeva ad un riposo forzato, scoprii che non potevo effettuare il mio lavoro da casa. Il datore di lavoro mi disse che non eravamo “attrezzati” per porre in essere tale procedura; i problemi, mi venne spiegato erano diversi: non era possibile effettuare il collegamento da casa mia ai server dell’amministrazione ove risiedono tutti i dati e i documenti che predispongo; era, inoltre, impossibile effettuare la protocollazione degli atti amministrativi che di volta in volta ponevo in essere; non era possibile effettuare le timbrature per la verifica della mia “presenza in servizio”.
Tutte le spiegazioni mi sono sembrate fondate ciò nonostante conclusi che era assurdo che un dipendente “nel pieno delle sue capacità” dovesse essere costretto a casa, generando disservizi verso la PA e i cittadini, per via della sua malattia.
Le tecnologie informatiche, computer potentissimi e altissime velocità di trasferimento dei dati, hanno oramai raggiunto livelli impensabili solo pochi anni fa eppure non riusciamo a superare barriere che non sono quindi tecnologiche ma di carattere amministrativo/burocratiche. Evidentemente le barriere non solo fisiche ma anche e soprattutto mentali.
Eppure anche il nostro Paese prevede lo Smart Working il quale viene definito, sul sito del Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali, come un metodo per “conciliare, innovare e competere. Sono questi i tre diversi obiettivi, apparentemente antitetici, dello smart working che si configura come un nuovo approccio all’organizzazione aziendale, in cui le esigenze individuali del lavoratore si contemperano, in maniera complementare, con quella dell’azienda”.
In pratica dovremmo addirittura aver superato il vecchio e desueto “telelavoro” per aver abbracciato un approccio maggiormente flessibile ed ampio di lavoro da casa, anche se la norma preferisce usare il termine “lavoro agile”.
A tal proposito il 1 giugno 2017 il Presidente del Consiglio dei Ministri ha emanato una Direttiva rubricata “Indirizzi per l’attuazione dei commi 1 e 2, dell’articolo 14, della legge 7 agosto 2015, n. 124 e linee guida contenenti regole inerenti all’organizzazione del lavoro finalizzate a promuovere la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro dei dipendenti”[1] .
Nel paragrafo dedicato all’organizzazione del lavoro si precisa che una delle sfide dell’introduzione dello smart working nelle pubbliche amministrazioni è il cambiamento della cultura organizzativa. A ben vedere, le nuove tecnologie di produzione ti tipo digitale consentono di superare il concetto della “timbratura del cartellino” e della “presenza fisica” in ufficio e quindi di una prestazione lavorativa svolta al di fuori della propria sede e in un orario di lavoro definiti. Molte attività lavorative possono essere svolte al di fuori della propria sede lavorativa ed in orari non necessariamente prestabiliti.
Il documento, già vecchio di due anni e mezzo, procede oltre soffermandosi sul concetto di visione manageriale che la Pubblica Amministrazione dovrebbe assumere per poter essere al passo coi tempi. La realtà purtroppo racconta uno scenario diverso anche se eccezioni sono presenti sul nostro territorio.
Il ForumPA[2], che affronta il tema ci dice che Il percorso verso lo smart working nelle amministrazioni è ancora all’inizio: solo nell’8% delle amministrazioni (dati dell’Osservatorio Smart Working del Politecnico di Milano) lo attua.
Anche se la percentuale è in crescita, rispetto al 5% del 2017, c’è ancora molto da fare, anche e soprattutto dal punto di vista culturale. Sempre secondo l’Osservatorio Smart Working, infatti, sono ancora tante e sono in aumento (38% contro il 20% dello scorso anno) le PA incerte sull’introduzione dello smart working. Diminuiscono invece le PA che dicono di volerlo introdurre (36% contro il 48% del 2017) e, a onor del vero, anche quelle completamente disinteressate (7% contro il 12% del 2017). La PA deve quindi accedere ancora alle opportunità realmente avanzate offerte dallo smart working.
Per favorire la diffusione dello smart working emerge come centrale il tema della comunicazione, sia interna (ingaggiare le persone creando interesse e mostrando i vantaggi di questo approccio) che esterna, attraverso la diffusione e la conoscenza delle buone pratiche realizzate.
Altro fattore da non sottovalutare è la “sburocratizzazione”: eccedere con regole e procedure, rischia di bloccare il processo e l’entrata a regime di questa pratica.
Fondamentale, infine, un lavoro culturale sulla dirigenza e fare rete, tra le diverse amministrazioni e tra mondo pubblico e privato nei territori.
Sono ora disponibili (luglio 2019) anche i primi dati sullo stato di avanzamento del Lavoro agile nella PA, diffusi nell’ambito del progetto “Lavoro agile per il futuro della PA – Pratiche innovative per la conciliazione dei tempi di vita e di lavoro“, finanziato dai Fondi Strutturali europei e in particolare dal Programma Operativo Nazionale (PON) Governance e Capacità Istituzionale 2014-2020, di cui di cui il Dipartimento Pari Opportunità è beneficiario e il Dipartimento della Funzione Pubblica, Organismo Intermedio.
I dati parlano di: un 28% di amministrazioni già oltre la prima sperimentazione, quindi in una fase di sviluppo dei progetti di lavoro agile; un 31% con sperimentazioni in corso; un 41% in fase di avvio delle sperimentazioni.
Del resto anche la media europea[3] non è esaltante. E’ vero che si parla di un 17% di lavoratori a distanza però per il 10% si tratta di un’attività occasionale, che si alterna a quella tradizionale in ufficio. Solo il 3% lavora da casa, per il resto si tratta di smart-working su base regolare. Nel resto del mondo ci sono situazioni molto diverse: in Giappone viene incoraggiato il lavoro da casa per ridurre gli spazi negli uffici. Nelle grandi città brasiliane si è considerato il telelavoro per risparmiare ai lavoratori tempi di spostamento che sono lunghissimi, possono arrivare anche a un’ora e mezzo in città gigantesche come San Paolo. Negli Stati Uniti la percentuale di telelavoro e smartworking è arrivata al 37%. Anche la partecipazione di uomini e donne è differente, e dipende dal Paese. Ci sono Paesi con percentuali di genere molto simili come la Germania e l’Ungheria. Altri come il Regno Unito, la Francia o la Svezia dove invece il telelavoro è molto più diffuso tra gli uomini che tra le donne.
Mi auguro che la vicenda del coronavirus faccia tornare il tema dello smart working di attualità anche perché le aziende private hanno dimostrato, chiudendo luoghi di lavoro e autorizzando i propri dipendenti di lavorare da casa, maggiore adattabilità rispetto alla PA.
Quante amministrazioni hanno adottato un simile provvedimento in questa situazione di emergenza?
[1] La Direttiva e Linee Guida sono disponibili al seguente link: http://www.funzionepubblica.gov.it/lavoro-agile-linee-guida;
[2] Michela Stentella, manager ForumPA in un articolo del 14 febbraio scorso.
[3] Indagine EUROFOND sulla smart working consultabile all’indirizzo: https://www.eurofound.europa.eu/it/publications/report/2017/working-anytime-anywhere-the-effects-on-the-world-of-work.