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di Luca Palladini. Lo specialista non poteva essere all’oscuro dei problemi psicologici della propria paziente e della sua conseguente posizione di inferiorità e di debolezza. Pertanto, è giusto riconoscere alla donna il risarcimento dei danni scaturenti dai rapporti che ella è stata costretta a patire. Lo ha specificato la terza sezione civile della Corte di Cassazione con la sentenza n. 1600, depositata il 23 gennaio 2013.
Una donna afflitta da un grave disturbo psicologico di tipo compulsivo decide di rivolgersi ad uno specialista il quale, poi, verrà giudicato dai magistrati di merito quale responsabile del reato di violenza sessuale nei suoi confronti.
Se per «difetto di querela» non è stato toccato il piano penale, relativo alla contestazione del delitto ex art. 609-bis, in quello civile – attinente alla richiesta risarcitoria intrapresa dalla donna – risulta essere chiara la linea di pensiero adottata dai giudici di primo e secondo grado: la donna si trovava «in stato di inferiorità psichica» e, conseguentemente, i rapporti sessuali tra l’abusatore medico e la paziente non potevano essere considerati ordinari.
Contrastando sia la perizia sia i fatti storici, l’uomo decide di ricorrere in Cassazione; la donna era consenziente ed, inoltre, il disturbo psichico di cui era affetta non è stato determinante nelle sua scelte sessuali: questa la difesa del medico.
Ma, nel rigettare completamente il ricorso di quest’ultimo, il S.C. segue il medesimo ragionamento dei giudici dei gradi precedenti. Nessun dubbio, invero, può sussistere sulla fattispecie di reato in esame, essendo lampante «la sussistenza dell’abuso della condizione di inferiorità» da parte dello specialista rispetto alla donna. Il medico, infatti, «non poteva ignorare il problema del transfert e della sua intensità in pazienti compulsivi ed era in grado di valutare la situazione di vulnerabilità» in cui si trovava la donna e «la conseguente condizione di dipendenza che veniva ad instaurarsi»; di conseguenza, questi ha violato e sfruttato l’inferiorità psicologica della paziente «per conseguire l’accesso ad una attività sessuale che altrimenti gli sarebbe stata preclusa». I magistrati, inoltre, hanno confermato l’inosservanza dell’art. 28 del Codice deontologico, evidenziando come il divieto di avere rapporti coi pazienti sia collegato non solo alla professionalità del medico ed alla eticità del suo contegno, ma anche alla sacralità della «dignità del paziente».
Attraverso la sentenza in discussione la Suprema Corte, dunque, conferma la condanna a carico dello specialista che, quindi, dovrà risarcire il danno subìto dalla donna anche tenendo conto del «disturbo post-traumatico da stress» valutato come conseguenza della (triste) vicenda.

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