“Il principio salus rei publicae suprema lex esto” non può essere invocato al fine di sospendere le garanzie costituzionali di autonomia degli enti territoriali stabilite dalla Costituzione”.
Da questi principi ribaditi dalla Corte Costituzionale nelle sentenze n. 148/2012 e n. 151/2012 nonché dai contenuti delle più recenti pronunce n. 198/2012 e n. 199/2012 si riafferma il cardine del nostro ordinamento costituzionale.
I provvedimenti dei Governi che si sono succeduti negli ultimi due anni, in nome dell’emergenza, hanno dettato disposizioni, con decretazione d’urgenza, spesso in palese conflitto con i principi costituzionali, con la conseguenza deleteria di determinare conflitti istituzionali e caos normativo.
Ma allora perché insistere con provvedimenti di dubbia efficacia, sempre a danno delle autonomie locali ed in contrasto con la Costituzione?
Alcuni esempi.
LA RIFORMA DELLE PROVINCE CONTENUTA NEI DECRETI “SALVA ITALIA” E “SPENDING REVIEW”.
Il Consiglio dei Ministri, venerdì 20 luglio, ha approvato la deliberazione con i criteri per la riduzione e l’accorpamento delle province, individuati nella dimensione territoriale e nella popolazione residente in ciascuna provincia”
In base ai criteri approvati, i nuovi enti dovranno avere almeno 350mila abitanti ed estendersi su una superficie territoriale non inferiore ai 2500 chilometri quadrati.
Secondo l’iter previsto dall’art. 17
a) Entro quaranta giorni i Consigli delle autonomie locali deliberano un piano di riduzioni e accorpamenti relativo alle province ubicate nel territorio della rispettiva regione;
b) Entro cinque giorni dall’adozione, la delibera è trasmessa al Governo;
c) Nei dieci giorni successivi il Governo acquisisce il parere di ciascuna Regione interessata.
Dopo aver delineato quest’iter, l’art. 17 comma 4 chiude: “entro venti giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione del D. L. 95/2012, con atto legislativo di iniziativa governativa sono soppresse o accorpate le province sulla base delle deliberazioni e intese sopra indicate. Se a tale data tali deliberazioni in una o più regioni non risultano assunte, il provvedimento legislativo è assunto previo parere della Conferenza unificata, che si esprime entro dieci giorni esclusivamente in ordine alla riduzione ed all’accorpamento delle province ubicate nei territori delle regioni medesime”.
Ma l’art. 133 della Costituzione prevede: “Il mutamento delle circoscrizioni provinciali e la istituzione di nuove Province nell’ambito di una Regione sono stabilite con leggi della Repubblica, su iniziative dei Comuni, sentita la stessa Regione”.
La Costituzione dunque prevede un iter preciso:
1) L’iniziativa dei Comuni
2) Il parere della Regione
3) Una legge dello Stato.
Va rilevato che la deliberazione è intervenuta prima della conclusione dell’iter parlamentare, in totale mancanza di considerazione delle decisioni del Parlamento, che avrebbe tutto il diritto di stabilire principi diversi da estensione e popolazione.
E se in sede di conversione il Parlamento modifica l’art. 17?
Oppure il Governo ha già deciso di porre la questione di fiducia – perché bisogna dare risposte immediate ai mercati – e impedire al Parlamento ogni modifica?
Viene da chiedersi inoltre che natura giuridica abbia la “deliberazione del Consiglio dei Ministri” adottata il 20 luglio e che grado di vincolatività essa abbia per i Consigli delle Autonomie Locali.
Tale “deliberazione” potrebbe avere la natura prevista dall’art. 2, comma 3, lett. d), della Legge 400/1988 “Disciplina dell’attività di Governo e ordinamento della Presidenza del Consiglio dei ministri” che prevede, fra le attribuzioni del Consiglio dei Ministri, che “Sono sottoposti alla deliberazione del Consiglio dei ministri (…) d) gli atti di indirizzo e di coordinamento dell’attività amministrativa delle regioni e, nel rispetto delle disposizioni statutarie, delle regioni a statuto speciale e delle province autonome di Trento e Bolzano; gli atti di sua competenza previsti dall’articolo 127 della Costituzione e dagli statuti regionali e delle province autonome di Trento e Bolzano, salvo quanto stabilito dagli statuti speciali per la regione siciliana e per la regione Valle d’Aosta”.
Ma, come abbiamo visto, l’art. 133 della Costituzione attribuisce ai Comuni l’iniziativa per la modifica delle circoscrizioni provinciali, senza alcun potere di indirizzo del Governo.
Inoltre, che valenza giuridica è da attribuire alle deliberazioni dei CAL, Consigli delle Autonomie Locali, peraltro mai istituiti in alcune Regioni, quali il Veneto?
Tali deliberazioni ed il successivo parere della Regione sono vincolati dai criteri fissati dalla deliberazione del Consiglio dei Ministri?
Ed a loro volta, se difformi, vincolano il Governo?
Ultimato quest’iter, o comunque, secondo l’art. 17, comma 4, “entro venti giorni dall’entrata in vigore della legge di conversione del D. L. 95/2012, con atto legislativo di iniziativa governativa sono soppresse o accorpate le province sulla base delle deliberazioni e intese sopra indicate”.
La previsione “sulla base delle deliberazioni e intese…” sembrerebbe far pensare che il Governo non dovrebbe discostarsi da quanto proposto dai CAL e dalle Regioni.
Ma cosa si intende per “atto legislativo di iniziativa governativa”?
Un disegno di legge di iniziativa governativa?
Un decreto legge?
Oppure una delega legislativa attribuita dal governo a se stesso tramite decreto d’urgenza?
Ma sappiamo che l’art. 15, comma 2, della Legge 400/1988 dispone:
“Il Governo non può, mediante decreto-legge:
a) conferire deleghe legislative ai sensi dell’articolo 76 della Costituzione;
b) provvedere nelle materie indicate nell’articolo 72, quarto comma, della Costituzione;
(…)”
E abbiamo visto che l’art. 133 prevede la riserva di “legge dello Stato” per la modifica delle circoscrizioni provinciali.
I dubbi di legittimità costituzionale sono talmente tanti che davvero non si comprende perché il Governo insista ad intervenire sull’assetto costituzionale della Repubblica con la decretazione d’urgenza.
Eppure, pochi mesi fa, quest’iter, anche in modo formalmente più aderente alla Costituzione, era già stato previsto con decreto legge e poi ritirato per le obiezioni di incostituzionalità segnalate fra gli altri dagli stessi tecnici del Quirinale.
Va ricordato infatti che l’art. 15 del Decreto Legge 13 agosto 2011 n. 138 aveva già previsto la soppressione delle Province diverse da quelle la cui popolazione rilevata al censimento generale della popolazione del 2011 sia superiore a 300.000 abitanti o la cui superficie complessiva sia superiore a 3.000 chilometri quadrati.
La soppressione avrebbe dovuto decorrere dalla data di scadenza del mandato amministrativo provinciale.
Entro lo stesso termine, i Comuni del territorio della circoscrizione delle Province soppresse avrebbero dovuto esercitare l’iniziativa di cui all’articolo 133 della Costituzione, al fine di essere aggregati ad un’altra provincia all’interno del territorio regionale, nel rispetto del principio di continuità territoriale.
In assenza dell’iniziativa dei Comuni, le funzioni esercitate dalle province soppresse sarebbero state trasferite alle Regioni, che avrebbero potuto attribuirle, anche in parte, ai Comuni già facenti parte delle circoscrizioni delle Province soppresse oppure attribuirle alle Province limitrofe a quelle soppresse, delimitando l’area di competenza di ciascuna di queste ultime.
In tal caso, era previsto che con decreto del Ministro dell’Interno, andavano trasferiti alla Regione personale, beni, strumenti operativi e risorse finanziarie adeguati.
La norma poneva infine il divieto di istituire Province in Regioni con popolazione inferiore a 500.000 abitanti.
La Legge 14 settembre 2011 n. 148, di conversione del D. L. 138/2011, ha soppresso le previsioni dell’art. 15 sulla base delle obiezioni di carattere costituzionale sollevate da più parti.
Cosa è cambiato da allora nelle considerazioni dei tecnici del Governo e del Quirinale?
Eppure nel D. L. 138/2011 vi era, almeno in parte, un riferimento espresso al procedimento costituzionale di cui all’art. 133 del tutto ignorato dal D. L. 95/2012!
Non va infine dimenticato che è stata fissata per il 6 novembre prossimo, in udienza pubblica, la trattazione dei ricorsi presentati alla Corte Costituzionale da sei Regioni – Piemonte, Lombardia, Veneto, Molise, Lazio e Campania – per la dichiarazione di illegittimità costituzionale dell’art. 23 commi 14-21del D. L. 201/2011 convertito in Legge 214/2011 “salva Italia”.
Le decisioni della Corte Costituzionale potrebbero mettere in discussione l’intero impianto normativo voluto dal Governo Monti.
LE PROVINCE DELLE REGIONI A STATUTO SPECIALE
L’art. 17, comma 5, del D. L. 95/2012 prevede “Le Regioni a statuto speciale, entro sei mesi dalla data di entrata in vigore del presente decreto, adeguano i propri ordinamenti ai principi di cui al presente articolo, che costituiscono principi dell’ordinamento giuridico della Repubblica nonché principi fondamentali di coordinamento della finanza pubblica”.
Ma la Corte Costituzionale, con la sentenza n. 198/2012, depositata il 20 luglio, ha ribadito un principio di diritto la cui immanenza nei rapporti tra Stato e Regioni a statuto speciale non viene messa in discussione neanche in tempi di crisi finanziaria. Viene infatti affermato che “La disciplina relativa agli organi delle Regioni a statuto speciale e ai loro componenti è contenuta nei rispettivi statuti. Questi, adottati con legge costituzionale, ne garantiscono le particolari condizioni di autonomia, secondo quanto disposto dall’art. 116 Cost. L’adeguamento da parte delle Regioni a statuto speciale e delle Province autonome ai parametri di cui all’art. 14, comma 1, del decreto-legge n. 138 del 2011 richiede, quindi, la modifica di fonti di rango costituzionale. A tali fonti una legge ordinaria non può porre limiti e condizioni…”.
L’art. 14 dello Statuto speciale della Regione Siciliana approvato con R.D.L. 15 maggio 1946, n. 455, convertito in legge costituzionale 26 febbraio 1948 n. 2, attribuisce alla Regione la competenza esclusiva sul “regime degli enti locali e delle circoscrizioni relative”.
E l’art. 15 aggiunge: 1. Le circoscrizioni provinciali e gli organi ed enti pubblici che ne derivano sono soppressi nell’ambito della Regione siciliana. 2. L’ordinamento degli enti locali si basa nella Regione stessa sui Comuni e sui liberi Consorzi comunali, dotati della più ampia autonomia amministrativa e finanziaria. 3. Nel quadro di tali principi generali spetta alla Regione la legislazione esclusiva e l’esecuzione diretta in materia di circoscrizione, ordinamento e controllo degli enti locali”.
E la legge regionale n. 9/86 all’art. 3, comma 1, prevede: “L’amministrazione locale territoriale nella Regione siciliana è articolata, ai sensi dell’art. 15 dello Statuto regionale, in comuni ed in liberi consorzi di comuni denominati <>”.
Con la stessa Legge Regionale sono previste le funzioni delle “province regionali”, gli organi, le modalità di elezione, gli assetti finanziari e patrimoniali.
La Regione Sardegna ha competenza legislativa esclusiva sull’ordinamento degli enti locali e delle relative circoscrizioni, come previsto dall’art. 2 dello Statuto.
L’art. 43 dello Statuto della Regione Sardegna approvato con legge costituzionale 26 febbraio 1948, n. 3 prevede “Le province di Cagliari, Nuoro e Sassari conservano l’attuale struttura di enti territoriali. Con legge regionale possono essere modificate le circoscrizioni e le funzioni delle province, in conformità alla volontà delle popolazioni di ciascuna delle province interessate espressa con referendum”.
Le province di Cagliari, Nuoro e Sassari pertanto hanno riconoscimento statutario.
Per le modifiche allo Statuto si applica il procedimento stabilito dalla Costituzione per le leggi costituzionali.
L’iniziativa di modificazione può essere esercitata anche dal Consiglio regionale o da almeno ventimila elettori (art. 54).
Come pensa il Governo di fissare, con decreto legge, un termine di sei mesi per modifiche di carattere costituzionale o per imporre decisioni di competenza esclusiva regionale?
Nel rispetto della Costituzione, al contrario, il Governo avrebbe dovuto impugnare la legge regionale n. 11/2012 che prevede la soppressione delle otto province all’esito dei referendum svoltisi il 6 maggio 2012, per conflitto con l’art. 43 dello Statuto almeno limitatamente alle province di Cagliari, Nuoro e Sassari.
GLI ORGANI DELLE PROVINCE ACCORPATE/SOPPRESSE
Nulla dice il D. L. 95/2012 sugli organi delle Province interessate dal processo di “Soppressione e razionalizzazione”.
Le Province, che non hanno i requisiti previsti dal Consiglio dei Ministri, ad ultimazione dell’iter previsto dall’art. 17, dovranno essere accorpate fra loro.
Da quali organi saranno amministrate le nuove Province?
Se la scadenza naturale dei mandati elettorali degli attuali organi scade nel 2014 o in alcuni casi anche nel 2016, cosa accade?
L’art. 23 del D. L. 201/2011, come modificato dalla legge di conversione 214/2011, prevede “Gli organi provinciali che devono essere rinnovati successivamente al 31 dicembre 2012 restano in carica fino alla scadenza naturale”.
E’ necessario allora che la legge che individuerà le nuove Province tenga conto di tale previsione prevedendo, ad esempio, come norma transitoria, che l’accorpamento sarà effettivo solo alla scadenza naturale degli organi in carica delle due o più Amministrazioni interessate.
E se le scadenze non coincidono?
Bisognerebbe attendere comunque l’ultima scadenza.
Il processo di accorpamento dovrebbe comunque essere preceduto da un congruo periodo transitorio durante il quale ad esempio si preveda lo svolgimento obbligatorio in forma associata delle funzioni tra le amministrazioni da accorpare almeno sino alla scadenza naturale delle attuali amministrazioni democraticamente elette.
Rispetto a qualunque ipotizzata estinzione anticipata degli organi oggi in carica nelle Province va fatto sempre riferimento alle pronunce chiarissima della Corte Costituzionale, ad esempio nella sentenza n. 40/2003, riferita alle province della Regione Sardegna.
Secondo la giurisprudenza costituzionale, tra i principi che si ricavano dalla stessa Costituzione vi è certamente quello per cui la durata in carica degli organi elettivi locali, fissata dalla legge, non è liberamente disponibile nei casi concreti.
Secondo la Corte, vi è un diritto degli enti elettivi e dei loro rappresentanti eletti al compimento del mandato conferito nelle elezioni, come aspetto essenziale della stessa struttura rappresentativa degli enti, che coinvolge anche i rispettivi corpi elettorali.
Un’abbreviazione di tale mandato può bensì verificarsi, nei casi previsti dalla legge, per l’impossibilità di funzionamento degli organi o per il venir meno dei presupposti di “governabilità” che la legge stabilisce (cfr. ad es. gli artt. 53 e 141, comma 1, lettere b e c, del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali approvato con il d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267), ovvero in ipotesi di gravi violazioni o di gravi situazioni di pericolo per la sicurezza pubblica che la legge sanzioni con lo scioglimento delle assemblee (cfr. ad es. l’art. 141, comma 1, lettera a, e l’art. 143 del citato testo unico).
Tuttavia, secondo la Corte Costituzionale, le ipotesi eccezionali di abbreviazione del mandato elettivo debbono essere preventivamente stabilite in via generale dal legislatore.
Tra di esse non è escluso che possa ricorrere anche il sopravvenire di modifiche territoriali che incidano significativamente sulla componente personale dell’ente, su cui si basa l’elezione: come, ad esempio, prevede per il caso degli organi comunali l’art. 8, quarto comma, lettera a, del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (non compreso nell’abrogazione espressa disposta dall’art. 274, comma 1, lettera e, del testo unico n. 267 del 2000), secondo cui si procede alla rinnovazione integrale del consiglio comunale quando, per effetto di una modificazione territoriale, si sia verificata una variazione di almeno un quarto della popolazione del Comune.
Ma, ancora una volta, una siffatta ipotesi dovrebbe essere prevista e disciplinata in via generale dalla legge, ovviamente sulla base di presupposti non irragionevoli.
In ogni caso, non può essere una legge provvedimento, disancorata da presupposti prestabiliti in via legislativa, a disporre della durata degli organi eletti.
Ora, nella legislazione statale sulle Province l’ipotesi di una abbreviazione del mandato degli organi provinciali a seguito di variazioni territoriali non è contemplata (l’art. 8, quarto comma, lettera a, del d.P.R. n. 570 del 1960 si riferisce infatti ai soli consigli comunali): gli unici casi di scioglimento anticipato sono quelli previsti dai citati articoli 53, 141 e 143 del testo unico approvato con il d.lgs. n. 267 del 2000.
Tant’è che in tutti i provvedimenti legislativi con cui sono state istituite nuove Province fuori del territorio delle Regioni speciali, e in particolare in occasione della istituzione di otto nuove Province attuata ai sensi dell’art. 63 della legge 8 giugno 1990, n. 142, si è invariabilmente previsto che l’elezione dei nuovi consigli avesse luogo nel successivo turno generale delle consultazioni amministrative (pur mancando, all’epoca, ancora un triennio a tale data), cioè alla scadenza naturale dei consigli preesistenti, salva l’ipotesi di scioglimento anticipato di questi ultimi per altra causa (cfr. l’art. 3, comma 2, dei decreti legislativi 6 marzo 1992, nn. 248, 249, 250, 251, 252, 253, 254, e del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 277).
LE FUNZIONI
Il comma 6 dell’art. 17 prevede “Sono trasferite ai comuni le funzioni amministrative conferite alle province con legge dello Stato e rientranti nelle materie di competenza legislativa esclusiva dello Stato ai sensi dell’articolo 117, comma secondo, della Costituzione”.
E il comma 7 aggiunge: “Tali funzioni amministrative sono individuate con decreto del Presidente del Consiglio dei ministri, da adottare entro sessanta giorni, previa intesa con la Conferenza Stato–Città ed autonomie locali”.
Come già avvenuto con l’art. 23 del decreto “salva Italia” si ravvisa una violazione degli articoli 1, 5 e 114 della Costituzione poiché, con lo svuotamento delle funzioni, il Governo lede l’autonomia delle Province che, nel diritto costituzionale italiano, sono qualificate come enti esponenziali di una comunità territoriale che si organizza democraticamente, secondo l’art. 1, con organi elettivi di diretta emanazione del corpo elettorale e in base al principio fondamentale dell’art. 5 della Costituzione “la Repubblica, una e indivisibile riconosce e promuove le autonomie locali”, il legislatore non può quindi abolirle, limitarle, diminuirne l’autonomia politica o incidere sul carattere democratico dell’ente, se non nelle forme e con i modi previsti dalla stessa Costituzione.
La Costituzione individua le Province come un ente territoriale e autonomo (art. 114, comma 1 e 2) e fa rifermento espresso ad esse nell’art. 117, comma 2, lett. p, prevedendo che la legge statale possa disciplinare 3 oggetti: la legislazione elettorale, gli organi di governo e le funzioni fondamentali.
Allo stesso modo, l’art. 118, comma 2, statuisce che le Province siano titolari di funzioni proprie e di funzioni conferite dalla legge statale e da quella regionale.
Il sistema costituzionale dispone che le Province siano enti titolari di funzioni proprie, e cioè di quelle funzioni storicamente e in atto svolte dalle Province sulla base della legislazione esistente alla data dell’entrata in vigore della legge costituzionale n. 3 del 2001 e per le quali la garanzia discende direttamente dalla previsione costituzionale, senza che sia dato alla legge statale (e, tanto meno, a quella regionale) la possibilità di incidere su quei poteri.
La Costituzione vuole che il legislatore statale individui le funzioni fondamentali delle Province e questo compito è stato assolto, sia pure a titolo provvisorio, dall’art. 21, comma 4, della legge n. 42 del 2009 e adesso con il comma 10 che le riduce sostanzialmente “all’esito delle procedura di accorpamento”.
Ma soffermandoci sul comma 7 è da chiedersi: il D.P.C.M. che deve individuare le funzioni amministrative ha valore dispositivo o ricognitivo?
L’efficacia del trasferimento delle funzioni è già attuale con la disposizione del comma 6?
Al contrario se il D.P.C.M. ha valore costitutivo del trasferimento, nel senso che l’efficacia del trasferimento discende dal decreto stesso, si appalesa un’evidente violazione dell’art. 118 che sancisce la riserva di legge, statale o regionale, per l’attribuzione delle funzioni amministrative a Comuni e Province non ammettendo possibile un provvedimento amministrativo quale il D.P.C.M.
LE CITTA’ METROPOLITANE
L’art. 18, comma 4, del D. L. 95/2012, per le Città metropolitane, stabilisce che, “in sede di prima applicazione è di diritto sindaco metropolitano il sindaco del comune capoluogo”.
Ciò in violazione dei principi costituzionali di democraticità degli enti territoriali locali e di autogoverno, oltre che di uguaglianza dei cittadini e del loro voto ex artt. 1, 3, 48, 49, 114 e 117 Cost.; i cittadini dei Comuni compresi nella Provincia soppressa per far posto alla città metropolitana si troveranno, ope legis, ad essere amministrati dal Sindaco del Comune capoluogo che diviene automaticamente Sindaco metropolitano, cioè presidente della città metropolitana, con tutte le funzioni della Provincia soppressa integrate da quelle indicate al comma 7 dell’art. 18.
Questa disposizione incostituzionale può addirittura valere anche per le consigliature successive alla luce di quanto sancito dall’art. 18 comma 4, che rimette allo statuto della città metropolitana, fra le varie ipotesi, anche quella che il sindaco metropolitano sia sempre di diritto il sindaco del comune capoluogo.
Inoltre, in violazione della riserva di legge in materia di sistema elettorale delle Città Metropolitane di cui agli artt. 48 e 117 Cost.. l’art. 18 comma demanda allo Statuto della Città Metropolitana la scelta del metodo di elezione del Sindaco metropolitano, che può prevedere anche l’elezione a suffragio universale.
CONCLUSIONI
In conclusione, dopo questo breve excursus, risultano molto evidenti le criticità di un percorso normativo immaginato dal Governo, di dubbia efficacia e in palese contrasto con i principi costituzionali.
La questione cruciale è che il tema dell’autonomia non può essere declassato a semplice problema di risorse: l’attuazione del titolo V della Costituzione, avviato dalla recente legge sul federalismo fiscale, esige che si proceda tramite un ampio dibattito parlamentare e un confronto con gli enti locali.
Quando si affronta il problema dei costi della politica è necessario considerare tutti i suoi aspetti e fare chiarezza evitando distorsioni demagogiche.
Non è accettabile che vengano continuamente presi di mira le spese connesse con l’esistenza di una rete di poteri istituzionali decentrati – i Comuni e le Province – che sono espressione delle peculiarità storiche dei territori e l’essenza stessa della democrazia e al contrario non emerge alcuna volontà di procedere alla revisione della legislazione per la soppressione effettiva di tutte le strutture, gli enti o gli uffici, lontani dai cittadini, non conosciuti e difficilmente controllabili.
Ma l’Italia non è ancora oggi una “Repubblica, una e indivisibile, che riconosce e promuove le autonomie locali; attua nei servizi che dipendono dallo Stato il più ampio decentramento amministrativo; adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”?
Se si ritiene legittimo sopprimere con decreto legge organi democraticamente eletti, cosa impedisce che il prossimo provvedimento possa riguardare i Comuni?
E se si ritiene che sia conforme alla Costituzione che uno degli Enti costitutivi della Repubblica, quali sono le Province ai sensi dell’art. 114 della Costituzione al pari di Comuni, Regioni e Stato, possa essere amministrato da organi non espressione diretta della volontà popolare, cosa impedirà domani di stabilire lo stesso per i Comuni?
Tornando alle Province, è chiaro che una riforma era necessaria, ma è una riforma che deve partire dall’assetto generale e dalle competenze.
Il vero problema del nostro paese è che non viene mai definito esattamente “chi fa cosa”.
Per la stessa competenza è presente una miriade di enti. Sfido chiunque a dire quanti enti pubblici intermedi di varia natura (con piccole competenze) insistono a livello regionale, interprovinciale o comunale. Le finanziarie degli ultimi anni hanno tutte proclamato la soppressione di questi fantomatici “enti inutili”, ma non si è riusciti a sopprimerne neanche uno!
La riforma delle Province, così come pensata, è insensata perché fatta senza prendere in seria considerazione cosa fanno le Province oggi. Si tratta di norme, che lungi dal consentire risparmi – come indicato espressamente dalle relazioni tecniche della Camera e del Senato, che non hanno ritenuto di potere quantificare alcuna cifra dai risultati delle misure stesse – produce notevoli costi aggiuntivi per lo Stato e per la Pubblica amministrazione, ingenera caos nel sistema delle autonomie e conseguenze pesanti per lo sviluppo dei territori e sta già producendo effetti devastanti sulle economie locali, poiché produce il blocco degli investimenti programmati e in corso delle Province.
Occorrerebbe piuttosto finalmente procedere al riordino dell’organizzazione delle istituzioni, in modo da razionalizzarne funzioni e costi, però in modo organico e complessivo, attraverso una revisione costituzionale del nostro ordinamento e non certo con decretazione d’urgenza
Si continuano a richiamare gli obblighi assunti dal nostro Paese verso l’Europa ma nessuno ricorda che in ambito comunitario, l’Italia ha assunto precisi obblighi derivanti dalla formale Ratifica della convenzione europea relativa alla Carta europea dell’autonomia locale, firmata a Strasburgo il 15 ottobre 1985, ratificata da 45 Paesi, cui è stata data esecuzione in Italia con Legge 30 dicembre 1989 n. 439 nella consapevolezza “del fatto che la difesa ed il rafforzamento dell’autonomia locale nei vari Paesi europei rappresenti un importante contributo alla edificazione di un’Europa fondata sui principi della democrazia e del decentramento del potere” e che “ciò presuppone l’esistenza di collettività locali dotate di organi decisionali democraticamente costituiti, che beneficino di una vasta autonomia per quanto riguarda le loro competenze, le modalità di esercizio delle stesse, ed i mezzi necessari all’espletamento dei loro compiti istituzionali”.
La Carta impone agli Stati contraenti l’applicazione di regole che garantiscano l’indipendenza politica, amministrativa e finanziaria delle comunità locali. Essa prevede che il principio delle autonomie locali debba fondarsi su una base legale, di preferenza di rango costituzionale. Le autorità locali devono essere elette a suffragio universale.
Tra l’altro, tali autorità devono essere in grado di regolamentare e gestire gli affari pubblici, negli ambiti individuati dalla legge, sotto la propria responsabilità e nell’interesse della popolazione locale. Di conseguenza, la Carta prevede che l’esercizio della responsabilità pubblica deve essere affidato, di preferenza, alle autorità più vicine ai cittadini, dovendo essere riservate alla competenza delle autorità di livello superiore solo quelle responsabilità che non possono essere assunte efficacemente ai livelli inferiori.
A tali fini, la Carta indica i principi volti alla protezione dei limiti territoriali delle autorità locali, le strutture ed i mezzi amministrativi adeguati per la realizzazione dei compiti delle stesse amministrazioni, le condizioni per l’esercizio delle responsabilità a livello locale, il controllo amministrativo degli atti delle autorità locali, le fonti finanziarie delle autorità locali e la protezione legale delle autonomie locali.
Per questo riteniamo dunque che bisogna ripartire dal basso, per questo continuiamo a chiedere la tutela delle autonomie locali, per questo occorre che i cittadini abbiano la sensazione di una politica vicina ai bisogni ed alle aspettative, che sappia dare risposte immediate e che sia soggetta al controllo diretto e immediato del cittadino elettore.
Per questo continuiamo a ritenere del tutto insensato tagliare le rappresentanze politiche locali.
E riteniamo che il nostro ordinamento costituzionale non tollera e non prevede che si possa intervenire con decretazione d’urgenza sull’assetto della Repubblica, sulle funzioni e sulla rappresentanza democratica, ma impone un percorso organico e condiviso di riforme.