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Processo penale – riqualificazione giuridica del fatto. – QUOTIDIANO LEGALE
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Processo penale – riqualificazione giuridica del fatto.

Corte Costituzionale

CORTE COSTITUZIONALE   28 aprile – 14 maggio 2021 SENTENZA N. 98

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Processo penale - Dibattimento - Riqualificazione giuridica del fatto
  - Facolta' dell'imputato, allorquando sia invitato  dal  giudice  a
  instaurare il contraddittorio sulla riqualificazione, di richiedere
  il  giudizio  abbreviato  relativamente   al   fatto   diversamente
  qualificato  -  Omessa  previsione  -  Denunciata   disparita'   di
  trattamento e violazione del diritto di difesa  -  Inammissibilita'
  delle questioni. 
- Codice di procedura penale, art. 521. 
- Costituzione, artt. 3, 24 e 111. 

(GU n.20 del 19-5-2021 )

  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giancarlo CORAGGIO; 
Giudici :Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria  de  PRETIS,  Nicolo'
  ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
  Giovanni  AMOROSO,  Francesco  VIGANO',  Stefano  PETITTI,   Angelo
  BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita'  costituzionale  dell'art.  521  del
codice di procedura penale, promosso dal Tribunale ordinario di Torre
Annunziata, in composizione monocratica, nel  procedimento  penale  a
carico di E. L., con ordinanza del 9 giugno 2020, iscritta al n.  168
del registro ordinanze 2020 e  pubblicata  nella  Gazzetta  Ufficiale
della Repubblica n. 49, prima serie speciale, dell'anno 2020. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 14  aprile  2021  il  Giudice
relatore Francesco Vigano'; 
    deliberato nella camera di consiglio del 28 aprile 2021. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 9 giugno 2020, il  Tribunale  ordinario  di
Torre Annunziata, in composizione monocratica, ha sollevato questioni
di legittimita' costituzionale dell'art. 521 del codice di  procedura
penale, «nella parte in cui non prevede  la  facolta'  dell'imputato,
allorquando sia invitato dal giudice del dibattimento  ad  instaurare
il contraddittorio sulla riqualificazione  giuridica  del  fatto,  di
richiedere  al  giudice  del  dibattimento  il  giudizio   abbreviato
relativamente al fatto diversamente qualificato dal giudice in  esito
al  giudizio»,  in  riferimento  agli  artt.  3,  24  e   111   della
Costituzione. 
    1.1.-  Il  rimettente  sta  procedendo  con  rito  immediato  nei
confronti di un imputato rinviato a giudizio per il delitto  di  atti
persecutori di cui all'art. 612-bis del codice penale,  aggravato  ai
sensi del secondo comma. All'imputato e'  contestato  di  avere,  con
reiterate condotte di minacce e molestie,  cagionato  «alla  compagna
[...] un perdurante e grave stato di ansia e  paura»,  «ingenerandole
un fondato motivo [recte: timore] per la propria incolumita' al punto
di costringerla, altresi', ad alterare le abitudini di  vita»,  e  in
particolare a non uscire piu' di casa per timore di incontrarlo  e  a
cambiare il proprio numero  di  telefono.  Nel  capo  di  imputazione
vengono quindi piu' analiticamente descritti i contestati episodi  di
minacce e molestie, queste ultime concretatesi anche in insulti e  in
atti di aggressione fisica, taluni dei quali  produttivi  di  lesioni
personali integranti altresi', nell'ipotesi accusatoria,  il  delitto
di lesioni personali di cui all'art.  582  cod.  pen.,  aggravato  ai
sensi dell'art. 585 in relazione agli artt. 576, numero 5.1), e  577,
numero 1), cod. pen. 
    Chiusa l'istruttoria dibattimentale,  e  prima  di  ritirarsi  in
camera   di   consiglio,   il   rimettente   -    sulla    base    di
«un'interpretazione costituzionalmente e convenzionalmente  orientata
dell'art. 521 comma 1 c.p.p.» - aveva invitato le parti «a instaurare
il  contraddittorio  in  ordine  ad   un'eventuale   riqualificazione
giuridica del fatto contestato al capo 1) nell'ipotesi incriminatrice
di cui all'art. 572 c.p., reato, tra l'altro, piu' grave di quello di
cui  all'art.  612-bis  c.p.,  contestato  nel  decreto  di  giudizio
immediato». 
    L'imputato aveva chiesto, a questo punto, la  restituzione  degli
atti al pubblico ministero ai sensi  dell'art.  521,  comma  2,  cod.
proc. pen., in modo  da  essere  rimesso  in  termini  per  formulare
richiesta di rito  abbreviato;  in  subordine,  ove  il  fatto  fosse
ritenuto il medesimo gia' oggetto di contestazione, aveva chiesto  di
essere comunque giudicato nelle forme del rito abbreviato. 
    Ritiene il rimettente che il fatto provato  in  dibattimento  sia
effettivamente il medesimo contestato dalla pubblica accusa,  ma  che
esso debba ricondursi all'alveo  «della  diversa  e  ben  piu'  grave
ipotesi incriminatrice»  dei  maltrattamenti  in  famiglia  ai  sensi
dell'art. 572 cod. pen., anziche' a  quello  degli  atti  persecutori
aggravati ex art. 612-bis, secondo comma, cod. pen. 
    Osserva in  proposito  il  giudice  che,  secondo  quanto  emerso
nell'istruttoria, l'imputato avrebbe commesso i  fatti  contestatigli
in costanza della relazione sentimentale intercorsa  con  la  persona
offesa tra l'agosto e il novembre 2019, e che  -  pur  non  essendovi
stata convivenza tra i due -  la  loro  reciproca  relazione  sarebbe
stata «seria, consolidata e fondata sulla condivisione dei rispettivi
affetti»; circostanza questa attestata, tra l'altro, dal fatto che la
persona offesa avrebbe «stretto un intenso rapporto affettivo con  la
madre  e  la  sorella  dell'imputato»,  che  con   lui   convivevano,
preparando spesso la cena  per  tutti  i  familiari  del  compagno  e
fermandosi a dormire a casa loro durante il fine settimana. 
    La circostanza che i fatti contestati si inserissero  nel  quadro
di una stabile relazione affettiva in corso evocherebbe, allora,  «un
fatto ascrivibile a pieno titolo alla ratio applicativa del reato  di
cui all'art. 572 c.p., molto piu' che nel terreno dello stalking  che
lascia ipotizzare la presenza di  una  vittima  che  fugge  e  di  un
carnefice che insegue». 
    A tale conclusione  non  osterebbe,  secondo  il  rimettente,  la
previsione da parte del legislatore di una specifica  aggravante  per
il delitto di atti  persecutori,  consistente  nell'essere  stato  il
fatto commesso, tra l'altro, da persona che e' o e' stata  legata  da
relazione affettiva alla persona offesa. In effetti, l'art. 572  cod.
pen. si presterebbe ad una «interpretazione estensiva»  in  grado  di
attrarre nel suo ambito applicativo le condotte maltrattanti compiute
in un «contesto affettivo  protetto»,  caratterizzato  come  tale  da
«legami affettivi forti e stabili, tali  da  rendere  particolarmente
difficoltoso per colui che patisce i maltrattamenti sottrarsi ad essi
e particolarmente agevole per colui che li perpetua proseguire». «Dal
punto di vista della vittima» - osserva il rimettente - «la  reazione
e'  inibita  perche'  profondo  e'  il   sentimento   di   dipendenza
psicologica, irrinunciabile il progetto di vita  intrapreso,  pesante
il  senso  di  subordinazione  o  insuperabile   il   condizionamento
materiale  ed  economico:  la  vittima  ritiene  comunque  di   dover
accettare o di non poter o saper rompere il rapporto.  Dal  punto  di
vista dell'autore, il  legame  affettivo  -  sebbene  sfibrato  dalle
mortificazioni -, in uno con la soggezione psicologica della vittima,
la sua dipendenza morale, il  suo  affetto,  il  suo  condizionamento
materiale ed  economico,  il  suo  rispetto  del  valore  stesso  del
rapporto,  sono  gli  elementi  che   consentono   la   reiterazione,
l'abitualita' dei suoi comportamenti di  negazione  e  mortificazione
dell'impegno di stabilita', assistenza reciproca e fedelta'». 
    In presenza di una relazione  siffatta,  dovrebbe  dunque  essere
ravvisata l'ipotesi della "convivenza" che caratterizza il delitto di
maltrattamenti   in   famiglia.   Conseguentemente,    le    condotte
maltrattanti compiute in tale contesto - che  cagionino  in  concreto
«uno svilimento della sfera morale ed emotiva della vittima»,  idoneo
a  paralizzarne  le  reazioni  -  verrebbero   sottratte   all'ambito
applicativo del meno grave delitto di cui all'art.  612-bis,  secondo
comma, cod. pen. Cio' in  conformita'  all'insegnamento  di  numerose
pronunce   della   Corte   di   cassazione,    puntualmente    citate
nell'ordinanza di rimessione, che  valorizzano  «ben  piu'  del  dato
formale della condivisione continuativa  di  spazi  fisici,  il  dato
sostanziale della condivisione di  progetti  di  vita»  (sono  citate
Corte di cassazione, sezione  sesta  penale,  sentenza  7  febbraio-9
maggio 2019, n. 19922; sezione seconda penale, sentenza 23  gennaio-8
marzo 2019, n. 10222; sezione  sesta  penale,  sentenza  18  marzo-15
luglio 2014, n. 31121; sezione quinta penale,  sentenza  17  marzo-30
giugno 2010, n. 24688; sezione  terza  penale,  sentenza  3  luglio-3
ottobre 1997, n. 8953; sezione sesta  penale,  sentenza  18  dicembre
1970-20 febbraio 1971, n. 1587). 
    Una tale interpretazione sarebbe, anzi, l'unica  compatibile  con
l'art. 3 Cost., dal momento che sarebbe  «irragionevole  tutelare  la
vittima di mortificazioni abituali allorquando sia legata da  vincoli
fondati sul matrimonio, anche in quei casi in  cui  il  rapporto  sia
ormai sgretolato e indebolito nella sua capacita' di condizionare  la
vittima», e «non  tutelare,  invece,  la  vittima  di  mortificazioni
abituali che avvengono in contesti affettivi non suggellati da scelte
formali, ma caratterizzati comunque  dalla  attuale  condivisione  di
spazi e progetti di vita che condizionano fortemente la capacita'  di
reagire  della  vittima».  Del  resto,  le  altre  ipotesi   previste
dall'art. 572 cod. pen. (sottoposizione ad  autorita'  o  affidamento
per ragioni di educazione,  istruzione,  cura,  vigilanza,  custodia,
ovvero esercizio di una professione o  di  un'arte)  prescinderebbero
tutte dall'elemento della convivenza. 
    Dal momento che, dunque, nel caso di specie i fatti descritti nel
capo di imputazione - produttivi di gravi sofferenze e umiliazione in
capo alla persona offesa - sarebbero stati commessi nel quadro di una
relazione  affettiva  stabile,  riconducibile  al   paradigma   della
"convivenza",  essi  dovrebbero  essere   riqualificati,   ai   sensi
dell'art.  521,  primo  comma,  cod.  proc.  pen.,  come   integranti
l'ipotesi   delittuosa   di   maltrattamenti    in    famiglia;    e,
correlativamente, la richiesta dell'imputato di essere giudicato  con
rito abbreviato dovrebbe essere rigettata, in quanto tardiva. 
    Tuttavia, il giudice dubita  della  compatibilita'  dello  stesso
art. 521, primo comma, cod. proc. pen. con i parametri costituzionali
sopra indicati, giusta l'assenza di una  disposizione  di  legge  che
attribuisca all'imputato - allorche' sia invitato  ad  instaurare  un
contraddittorio sulla possibile riqualificazione giuridica del  fatto
- il diritto di richiedere al  giudice  del  dibattimento  di  essere
giudicato con rito abbreviato, a fronte di tale nuova situazione. 
    1.2.- Quanto alla  non  manifesta  infondatezza  delle  questioni
prospettate,  il  rimettente  osserva  anzitutto  che  e'  gia'  oggi
possibile una interpretazione costituzionalmente e  convenzionalmente
orientata dell'art. 521, primo comma,  cod.  proc.  pen.,  nel  senso
cioe'  che  tale  disposizione  «imponga  al  giudice,  prima   della
deliberazione  della  sentenza,  di  instaurare  il   contraddittorio
argomentativo   e   probatorio   della   difesa   in   ordine    alla
riqualificazione  giuridica   del   fatto».   Tuttavia,   un   simile
adempimento non varrebbe a evitare  il  sacrificio  del  «diritto  di
difesa  nella  declinazione  di  diritto  alla  scelta   del   rito»,
nonostante esso costituisca una modalita', tra le piu'  qualificanti,
del diritto di difesa (sono citate, ex aliis, le sentenze n. 131  del
2019, n. 219 del 2004 e n. 70 del 1996), quest'ultimo «da  intendersi
sia come diritto al  riassestamento  della  strategia  difensiva  nel
dibattimento, sia come diritto alla rivisitazione  della  scelta  del
dibattimento». 
    I dubbi di illegittimita' costituzionale  sollevati,  precisa  il
rimettente, non concernerebbero tanto l'irragionevolezza ex se  della
distinzione tra quaestio facti e quaestio  iuris,  che  avrebbe  anzi
«una ratio costituzionale ben precisa, poiche' racconta la fisionomia
dei rapporti tra giudice terzo e accusatore:  padrone  del  fatto  e'
solo l'accusa  [...],  padrone  del  diritto  e'  solo  il  giudice».
Cionondimeno, l'attuale assetto normativo non si  porrebbe  in  linea
ne' con gli artt. 24 e 111 Cost., ne' con  l'art.  3  Cost.,  per  le
ragioni seguenti. 
    1.2.1.- Quanto agli artt. 24 e 111 Cost., il  rimettente  osserva
che la modifica in iure  dell'imputazione  dovrebbe  restituire  alla
difesa la possibilita' di rivisitare la propria strategia anche nella
scelta del rito, ben potendo  la  stessa  concludere  che  sui  fatti
contestati - alla luce del nuovo nomen proposto dal giudice - «non vi
siano i medesimi spazi per contraddire  nel  dibattimento  che  aveva
inizialmente    valutato,    allorquando    aveva,    sulla    scorta
dell'imputazione, operato la scelta del rito». 
    Di cio'  il  caso  concreto  all'esame  fornirebbe  dimostrazione
evidente: la difesa  dell'imputato  avrebbe,  in  effetti,  mirato  a
provare in dibattimento l'esistenza di una relazione intensa e solida
tra   imputato   e   persona   offesa,   al   fine   di    dimostrare
l'incompatibilita' di un tale legame con lo schema tipico del delitto
di  atti  persecutori;  e  si  sarebbe  poi  trovata  sorpresa  dalla
prospettazione  di  una  qualificazione  alternativa  -   quella   di
maltrattamenti in famiglia - che proprio nell'intensita' e  solidita'
del rapporto troverebbe decisivo fondamento. 
    Inoltre,  la  diversa  qualificazione  prospettata  dal   giudice
potrebbe  in  concreto   determinare   «anche   e   soprattutto   uno
stravolgimento nella risposta sanzionatoria»: fattore,  quest'ultimo,
che condizionerebbe in maniera determinante la scelta del rito. Anche
sotto questo profilo il caso di specie risulterebbe emblematico,  dal
momento che la nuova qualificazione  prospettata  comporta  una  pena
assai piu' gravosa di quella prevista per il delitto  originariamente
contestato. 
    Contro la possibilita'  di  una  restituzione  dell'imputato  nel
termine per la scelta del rito in seguito alla  prospettazione  della
possibile riqualificazione dell'imputazione da parte del giudice  non
potrebbe opporsi che essa frustrerebbe le esigenze deflattive sottese
ai riti alternativi. Una  simile  effetto  si  produrrebbe,  infatti,
anche nelle ipotesi in cui la restituzione del termine consegue,  per
effetto di numerose pronunce di questa Corte,  a  mutamenti  fattuali
dell'imputazione. La logica deflattiva propria  del  rito  abbreviato
dovrebbe cosi' essere ritenuta subvalente rispetto alla tutela  della
pienezza del diritto di  difesa  e  del  rispetto  del  principio  di
eguaglianza, che quelle pronunce hanno mirato ad assicurare. 
    Ne',  ancora,  alla  restituzione  nel  termine   auspicata   dal
rimettente potrebbe obiettarsi che la modifica della veste  giuridica
dell'imputazione  costituirebbe  un  rischio  del  dibattimento,  che
l'imputato si addossa allorche' opti  per  il  rito  ordinario.  Tale
argomento, osserva il rimettente,  e'  stato  spesso  invocato  anche
contro  l'ammissione  tardiva  della  difesa  alla  scelta  del  rito
alternativo in conseguenza di mutamenti fattuali dell'imputazione; ma
sarebbe stato gradualmente superato dalla  giurisprudenza  di  questa
Corte,  dapprima  con  riferimento  alle   contestazioni   cosiddette
"patologiche", riconducibili a un errore del  pubblico  ministero,  e
poi anche nelle ipotesi di contestazioni "fisiologiche", derivanti da
emergenze probatorie imprevedibili ex ante per il pubblico ministero. 
    Non  vi  sarebbe,  d'altra  parte,  alcuna  ragione  cogente  per
ritenere  che  il  mutamento  in  iure  dell'imputazione  sia  sempre
prevedibile  per  l'imputato;  ne'  si  comprenderebbe  «perche'   la
riqualificazione  dovrebbe  essere  prevedibile  nei  risultati   per
l'imputato, e non per il pubblico ministero -  che  infatti,  proprio
non prevedendola, ha commesso un errore a monte - e ricadere quindi a
carico del primo». Ritenere prevedibile il mutamento di  nomen  nella
direzione ipotizzata dal giudice - e in tutte le  altre  possibili  -
porrebbe anzi la difesa «in una sorta  di  paradosso:  il  difensore,
infatti, se argomentasse molto,  prevedendo  diligentemente  tutti  i
possibili  esiti  riqualificatori,  rischierebbe  di  suggerire  egli
stesso una via alla quale il giudice non aveva neppure pensato [...];
se mantenesse invece un profilo basso, argomentando nei limiti  della
fattispecie contestata [...], lascerebbe delle zone inesplorate  che,
se  pur  lo  conducessero  al  risultato  rispetto  alla  fattispecie
originaria, lo inchioderebbero su  una  delle  altre  possibili,  tra
l'altro con un'anomala inversione  dell'onere  della  prova,  perche'
finirebbe per essere condannato per non essersi difeso su  un'ipotesi
non argomentata dall'accusa». 
    La  mutatio  in  iure  dovrebbe  dunque  considerarsi  come   una
correzione, operata dal giudice, di un errore originario del pubblico
ministero:  e  dunque  parteciperebbe  della  stessa   natura   della
contestazione "patologica", trattandosi di un  «errore  di  selezione
della veste giuridica addebitabile all'accusa», che non potrebbe come
tale «risolversi  in  un  nocumento  delle  prerogative  proprie  del
diritto di difesa». 
    1.2.2.- Per cio' che concerne poi la censura riferita all'art.  3
Cost., il rimettente lamenta anzitutto l'ingiustificata disparita' di
trattamento esistente tra l'imputato destinatario sin  dal  principio
dell'imputazione corretta - il quale ha accesso al rito abbreviato  -
e l'imputato nei cui confronti invece  il  pubblico  ministero  abbia
compiuto  un  errore  nella  qualificazione  giuridica   del   fatto.
Quest'ultimo infatti, in seguito alla  riqualificazione  operata  dal
giudice, perderebbe la possibilita'  di  accedere  al  rito  premiale
rispetto al medesimo titolo di reato. 
    In secondo luogo,  anche  nell'ipotesi  di  riqualificazione  del
fatto da parte del giudice l'imputato potrebbe recuperare la facolta'
di accesso ai riti alternativi, per effetto di circostanze del  tutto
casuali e non prevedibili ex ante, in particolare allorche' il  reato
cosi' come riqualificato appartenga alla  competenza  di  un  giudice
superiore o al tribunale in composizione  collegiale.  In  tal  caso,
infatti,  il  giudice  dovrebbe  restituire   gli   atti   all'organo
dell'accusa, a norma dell'art. 521, comma 1, cod. proc. pen., per  un
nuovo  esercizio   dell'azione   penale;   cio'   che   consentirebbe
all'imputato di optare, a questo punto, per un rito alternativo,  con
conseguente irragionevole disparita' di trattamento rispetto a  tutte
le altre ipotesi. 
    In terzo luogo, la pur innegabile differenza tra quaestio facti e
quaestio  iuris  non  potrebbe   giustificare   la   difformita'   di
trattamento, quanto alla pena, tra imputati che subiscano, nel  corso
del procedimento, modifiche in fatto della contestazione e  modifiche
in diritto.  In  particolare,  non  sarebbe  chiara  la  ragione  che
consente di trattare  diversamente  l'imputato  che,  «a  fattispecie
incriminatrice ferma», si veda contestata una circostanza  aggravante
quale la recidiva - e che pertanto potra' accedere al rito abbreviato
in virtu' di tale modifica fattuale -, e l'imputato nei cui confronti
muti la sola qualificazione giuridica del fatto contestato - il quale
vedra' stravolta la propria prospettiva  sanzionatoria,  senza  poter
rivedere le proprie scelte in tema di rito. 
    Infine, occorrerebbe considerare che il mutamento del nomen iuris
del fatto contestato potrebbe essere dovuto a una iniziativa, assunta
durante il dibattimento, dallo stesso pubblico ministero, il quale  a
tal fine avrebbe a propria disposizione lo strumento  della  modifica
della imputazione ai sensi dell'art. 516 cod. proc. pen. In tal caso,
tuttavia, l'imputato verrebbe rimesso in termini per  la  scelta  del
rito alternativo, mentre laddove fosse il  giudice  ad  operare  tale
mutamento,  la  scelta  in  parola  sarebbe   ormai   preclusa.   Con
conseguente  ulteriore  profilo  di   irragionevole   disparita'   di
trattamento tra situazioni omogenee. 
    2.- E' intervenuto in giudizio il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, chiedendo che la questione  sia  dichiarata  inammissibile  ed
infondata. 
    L'Avvocatura  generale  dello  Stato  riconosce,  anzitutto,  che
l'interpretazione costituzionalmente  e  convenzionalmente  orientata
dell'art. 521, comma 1, cod. proc. pen. imporrebbe al giudice,  prima
della deliberazione della sentenza, di instaurare il  contraddittorio
con  le  parti,  in   primis   con   l'imputato,   in   ordine   alla
riqualificazione giuridica del  fatto.  Tale  interlocuzione  sarebbe
peraltro tesa unicamente a consentire  lo  svolgimento  di  ulteriori
argomenti  difensivi,  non  gia'  a  permettere   alla   difesa   una
rivalutazione delle scelte relative  al  rito  ormai  gia'  compiute,
secondo quanto gia' ritenuto da questa Corte con la sentenza  n.  103
del 2010, che aveva ritenuto non sindacabile la scelta  discrezionale
compiuta dal legislatore in ordine alla diversita' di disciplina  tra
immutatio iuris e facti, contenuta nel  primo  e  nel  secondo  comma
dell'art. 521 cod. proc. pen. 
    La soluzione auspicata dal rimettente, d'altra parte,  svilirebbe
la natura stessa del rito  abbreviato,  consentendo  all'imputato  di
accedere ai benefici da esso derivanti (e segnatamente alla riduzione
di un terzo della pena) anche all'esito  di  un  lungo  e  articolato
dibattimento, con conseguente frustrazione della funzione premiale  e
deflattiva del rito in parola. 
    Ne'  coglierebbero  nel  segno  i   parallelismi   invocati   dal
rimettente  tra  le  ipotesi  di  nuove  contestazioni  del  pubblico
ministero e la riqualificazione in iure dell'imputazione operata  dal
giudice, rispetto alla quale «l'imputato ha avuto la possibilita'  di
esperire in dibattimento ogni mezzo di  difesa  in  relazione  ad  un
fatto  contestato  che  e'  rimasto  immutato   nei   suoi   elementi
costitutivi». 
    Infine, la diversa qualificazione giuridica adottata dal  giudice
di primo grado potrebbe comunque essere oggetto di gravame  da  parte
dell'imputato. 
    Nessuna  violazione  del  diritto  di  difesa   potrebbe   dunque
profilarsi in riferimento alla  norma  censurata,  anche  in  ragione
della prevedibile diversa qualificazione giuridica di fatti tra  loro
affini, come - nel  caso  di  specie  -  gli  atti  persecutori  e  i
maltrattamenti in famiglia. 
    3.- L'imputato nel giudizio a quo non si e' costituito  avanti  a
questa Corte. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe, il Tribunale  ordinario
di  Torre  Annunziata,  in  composizione  monocratica,  ha  sollevato
questioni di legittimita' costituzionale dell'art. 521 del codice  di
procedura penale,  «nella  parte  in  cui  non  prevede  la  facolta'
dell'imputato, allorquando sia invitato dal giudice del  dibattimento
ad instaurare il contraddittorio sulla riqualificazione giuridica del
fatto,  di  richiedere  al  giudice  del  dibattimento  il   giudizio
abbreviato  relativamente  al  fatto  diversamente  qualificato   dal
giudice in esito al giudizio», in riferimento agli artt. 3, 24 e  111
della Costituzione. 
    2.- Le questioni sono inammissibili, per non essersi  l'ordinanza
di rimessione adeguatamente confrontata con  gli  argomenti  contrari
alla riqualificazione giuridica del fatto contestato nel  giudizio  a
quo,  riqualificazione  dalla  quale  dipende  la   rilevanza   delle
questioni prospettate. 
    2.1.- L'imputato e' chiamato a rispondere  del  delitto  di  atti
persecutori di cui all'art.  612-bis,  primo  e  secondo  comma,  del
codice penale. In esito al dibattimento,  il  rimettente  ritiene  di
dover  riqualificare  i  fatti  contestati  -  immutati  nella   loro
materialita'  -  nella  diversa   e   piu'   grave   fattispecie   di
maltrattamenti in famiglia, di cui  all'art.  572  cod.  pen.  Avendo
prospettato    alla    difesa    dell'imputato     tale     possibile
riqualificazione, e avendo il difensore chiesto - a  fronte  di  tale
modifica  in  iure  -  di  essere  ammesso  al  rito  abbreviato,  il
rimettente solleva le questioni di legittimita' costituzionale  sopra
indicate, aventi ad oggetto la disposizione del codice  di  procedura
penale - l'art. 521, comma 1 - che consente al  giudice  di  dare  al
fatto  una  definizione  giuridica  diversa   da   quella   enunciata
nell'imputazione, nella parte in cui non prevede la possibilita'  per
l'imputato di richiedere  il  giudizio  abbreviato  relativamente  al
fatto cosi' come diversamente qualificato. 
    La  riqualificazione  -   da   atti   persecutori   aggravati   a
maltrattamenti  in  famiglia  -  dei  fatti  contestati  all'imputato
costituisce   dunque   il   presupposto   logico    che    condiziona
l'applicazione nel giudizio  a  quo  della  disposizione,  della  cui
legittimita' costituzionale il giudice dubita. 
    2.2.-  Tale  riqualificazione  riposa  sul  rilievo,  svolto  con
ricchezza di argomenti dall'ordinanza di rimessione, che le  condotte
-  moleste,  minacciose,   ingiuriose   e   violente   -   contestate
all'imputato  siano  state  commesse  nel  quadro  di  una  relazione
affettiva stabile tra l'imputato  e  la  persona  offesa,  pur  nella
riconosciuta assenza di convivenza. 
    Secondo  quanto   riferisce   il   rimettente,   dall'istruttoria
dibattimentale e' emersa l'esistenza di un rapporto affettivo  tra  i
due, dipanatosi in un arco temporale di circa quattro mesi, nel corso
del quale - in particolare - la donna era solita frequentare la  casa
ove l'uomo viveva con la madre e la sorella, e nella quale lei stessa
talvolta si tratteneva. 
    Il pubblico ministero aveva qualificato  le  condotte  contestate
all'imputato come atti persecutori ai sensi  dell'art.  612-bis  cod.
pen.,  con  l'aggravante  prevista  dal   secondo   comma   di   tale
disposizione, che prevede l'aumento della pena quando  il  fatto  sia
commesso, tra l'altro, «da persona  che  e'  o  e'  stata  legata  da
relazione affettiva alla persona offesa». 
    Ritiene invece il rimettente che la  stabilita'  della  relazione
affettiva, desunta  in  particolare  dall'assidua  frequentazione  da
parte della persona offesa della famiglia dell'imputato,  imponga  di
riqualificare le condotte come maltrattamenti in  famiglia  ai  sensi
dell'art. 572, primo comma, cod.  pen.:  disposizione,  quest'ultima,
applicabile a chiunque «maltratta», per la parte che qui rileva, «una
persona della famiglia o comunque  convivente».  Cio'  in  quanto  il
sintagma «una persona [...] comunque convivente» andrebbe letto  come
riferito  a  un  «contesto  affettivo  protetto»,  caratterizzato  da
«legami affettivi forti e stabili, tali  da  rendere  particolarmente
difficoltoso per colui che patisce i maltrattamenti sottrarsi ad essi
e particolarmente agevole per colui che li perpetua  proseguire».  In
tale ipotesi, dunque, il piu'  grave  delitto  di  maltrattamenti  in
famiglia assorbirebbe l'ipotesi aggravata di atti persecutori di  cui
all'art. 612-bis, secondo comma, cod. pen., che  verrebbe  dunque  ad
abbracciare le sole ipotesi di relazioni affettive non caratterizzate
(o non piu' caratterizzate) da una «attuale condivisione di  spazi  e
progetti di vita che condizionano fortemente la capacita' di  reagire
della vittima». 
    Questa lettura troverebbe conforto,  osserva  il  rimettente,  in
varie pronunce della Corte di cassazione, che hanno  ricondotto  allo
spettro  applicativo  dell'art.  572   cod.   pen.   fatti   commessi
nell'ambito  di  relazioni  caratterizzate  dalla  «condivisione   di
progetti di vita», e hanno affermato il principio secondo cui  l'art.
572 cod. pen. «e' applicabile non solo ai  nuclei  familiari  fondati
sul matrimonio, ma a qualunque relazione  sentimentale  che,  per  la
consuetudine dei rapporti creati, implichi  l'insorgenza  di  vincoli
affettivi e aspettative di assistenza assimilabili  a  quelli  tipici
della famiglia o della convivenza  abituale».  Pertanto,  il  delitto
sarebbe configurabile «anche quando manchi una stabile  convivenza  e
sussista, con la vittima degli abusi, un rapporto familiare  di  mero
fatto, caratterizzato dalla messa in atto  di  un  progetto  di  vita
basato  sulla  reciproca  solidarieta'  ed  assistenza»   (Corte   di
cassazione, sezione sesta penale, sentenza 7 febbraio-9 maggio  2019,
n. 19922, nonche' -  nello  stesso  senso  -  sezione  sesta  penale,
sentenza 18 marzo-15 luglio 2014, n. 31121 e, pur escludendo nel caso
di specie il reato de quo, sezione sesta penale, sentenza 7 maggio-27
maggio 2013, n.  22915.  Si  vedano  altresi',  in  epoca  successiva
all'ordinanza  di  rimessione,  sezione  sesta  penale,  sentenza  21
ottobre-1° dicembre 2020, n. 34086, concernente una coppia  che,  pur
non convivendo, pagava congiuntamente un appartamento utilizzato come
base per incontri  clandestini;  sezione  sesta  penale,  sentenza  6
novembre 2019-11 febbraio 2020, n. 5457, relativa a  una  coppia  non
convivente, la cui relazione durava da appena due mesi). 
    2.3.- Tuttavia,  tale  orientamento  risale,  come  correttamente
osserva  il  rimettente,  ad  epoca  antecedente  alla   introduzione
dell'art. 612-bis cod. pen., e si e'  formato  in  larga  misura  con
riferimento a ipotesi concrete caratterizzate dal venir meno  di  una
preesistente convivenza (la sentenza n. 19922 del 2019  sopra  citata
concerneva, ad esempio, una coppia che  aveva  convissuto  per  circa
dieci anni; e parimenti concernono ex conviventi Corte di cassazione,
sezione sesta penale, sentenza 3 novembre-22 dicembre 2020, n. 37077;
sezione terza penale, sentenza 12 giugno-28 ottobre 2019,  n.  43701;
sezione sesta penale, sentenza 13 dicembre 2017-24 gennaio  2018,  n.
3356), specie quando dalla convivenza siano nati anche dei figli  (ex
aliis Corte di cassazione, sezione sesta penale, sentenza  6  ottobre
2020-4 febbraio 2021, n. 4424;  sezione  sesta  penale,  sentenza  28
settembre-20 novembre 2017, n. 52723; sezione sesta penale,  sentenza
20 aprile-22 maggio 2017, n. 25498). 
    Non a caso, una recente sentenza  della  Corte  di  cassazione  -
invero successiva all'ordinanza di rimessione - ha escluso il delitto
di maltrattamenti in famiglia in un'ipotesi  assai  simile  a  quella
oggetto  del  processo  a  quo,  caratterizzata  da   una   relazione
«instaurata da non molto tempo» e da  una  "coabitazione"  consistita
soltanto «nella permanenza anche per due  o  tre  giorni  consecutivi
nella casa dell'uomo, ove la donna si recava, talvolta anche  con  la
propria figlia» (Corte di cassazione, sezione terza penale,  sentenza
23 novembre 2020-25 gennaio 2021, n. 2911). 
    2.4.- La giurisprudenza di legittimita',  considerata  alla  luce
dei casi di volta di volta  esaminati,  fornisce  dunque  indicazioni
assai meno univoche di quanto  appaia  dall'ordinanza  di  rimessione
circa la possibilita' di sussumere entro la figura  legale  descritta
dall'art. 572 cod. pen., e non in quella  di  cui  all'art.  612-bis,
secondo comma, cod.  pen.,  condotte  abusive  poste  in  essere  nel
contesto di una relazione affettiva con le caratteristiche illustrate
nell'ordinanza  di  rimessione,  ove  si  da'  atto  in   particolare
dell'assenza  di  convivenza  (presente  o   passata)   tra   i   due
protagonisti della vicenda. 
    Ma, soprattutto, nel procedere alla qualificazione giuridica  dei
fatti accertati in giudizio il rimettente omette di confrontarsi  con
il canone ermeneutico rappresentato, in materia  di  diritto  penale,
dal divieto di analogia a sfavore del reo: canone affermato a livello
di  fonti  primarie   dall'art.   14   delle   Preleggi   nonche'   -
implicitamente  -  dall'art.  1  cod.  pen.,  e  fondato  a   livello
costituzionale sul principio di legalita' di cui all'art. 25, secondo
comma, Cost. (nullum crimen, nulla poena sine lege stricta) (sentenza
n. 447 del 1998). 
    Il  divieto  di  analogia  non  consente  di  riferire  la  norma
incriminatrice a  situazioni  non  ascrivibili  ad  alcuno  dei  suoi
possibili  significati  letterali,  e  costituisce  cosi'  un  limite
insuperabile rispetto alle opzioni interpretative a disposizione  del
giudice di fronte al testo  legislativo.  E  cio'  in  quanto,  nella
prospettiva culturale nel cui seno e' germogliato lo stesso principio
di legalita' in materia penale, e' il testo della legge - non gia' la
sua successiva interpretazione ad opera della  giurisprudenza  -  che
deve  fornire  al  consociato  un  chiaro   avvertimento   circa   le
conseguenze sanzionatorie delle  proprie  condotte;  sicche'  non  e'
tollerabile  che  la  sanzione  possa  colpirlo  per  fatti  che   il
linguaggio comune non consente di ricondurre al significato letterale
delle espressioni utilizzate dal legislatore. Cio' vale non solo  per
il nostro, ma anche per  altri  ordinamenti  ispirati  alla  medesima
prospettiva,  come   dimostra   la   giurisprudenza   del   Tribunale
costituzionale federale tedesco, secondo cui in  materia  penale  «il
possibile significato letterale della legge fissa il  limite  estremo
della sua legittima interpretazione da parte  del  giudice»  (BVerfGE
73, 206, (235); in senso conforme, piu' recentemente, BVerfGE 130,  1
(43); 126, 170 (197); 105, 135 (157); 92, 1 (12)). 
    Il divieto di applicazione analogica delle  norme  incriminatrici
da parte del giudice costituisce il naturale completamento  di  altri
corollari del  principio  di  legalita'  in  materia  penale  sancito
dall'art. 25, secondo comma, Cost., e in particolare della riserva di
legge e del  principio  di  determinatezza  della  legge  penale  (su
quest'ultimo profilo, si vedano in particolare le sentenze n. 96  del
1981 e n.  34  del  1995,  nonche',  con  riferimento  alle  sanzioni
amministrative di carattere punitivo, n.  121  del  2018):  corollari
posti a tutela sia del principio  "ordinamentale"  della  separazione
dei poteri, e della conseguente attribuzione al solo legislatore  del
compito di tracciare i confini tra condotte  penalmente  rilevanti  e
irrilevanti (ordinanza n. 24 del 2017), nonche' - evidentemente - tra
le  diverse  figure  di  reato;  sia  della  garanzia   "soggettiva",
riconosciuta  ad  ogni   consociato,   della   prevedibilita'   delle
conseguenze sanzionatorie delle proprie condotte, a tutela delle  sue
libere scelte d'azione (sentenza n. 364 del 1988). 
    E' evidente infatti che la ratio della riserva assoluta di  legge
in materia penale, che assegna alla sola legge  e  agli  atti  aventi
forza di legge il  compito  di  stabilire  quali  siano  le  condotte
costituenti  reato,  sul  presupposto  che  una  simile  decisione  -
destinata potenzialmente a ripercuotersi in  maniera  drammatica  sul
diritto «inviolabile» (art. 13 Cost.)  alla  liberta'  personale  dei
destinatari della norma penale - spetti  soltanto  ai  rappresentanti
eletti a suffragio  universale  dall'intera  collettivita'  nazionale
(sentenze n. 230 del 2012, n. 394  del  2006  e  n.  487  del  1989),
verrebbe nella sostanza svuotata ove ai giudici fosse  consentito  di
applicare pene al di la' dei casi espressamente previsti dalla legge. 
    Per altro verso, il divieto di applicazione analogica delle norme
incriminatrici da  parte  del  giudice  costituisce  l'ovvio  pendant
dell'imperativo costituzionale, rivolto al legislatore, di «formulare
norme  concettualmente  precise  sotto  il  profilo  semantico  della
chiarezza e dell'intellegibilita' dei termini impiegati» (sentenza n.
96 del 1981). Tale imperativo  mira  anch'esso  a  «evitare  che,  in
contrasto con il principio  della  divisione  dei  poteri  e  con  la
riserva assoluta di legge in materia penale,  il  giudice  assuma  un
ruolo creativo, individuando, in luogo del legislatore, i confini tra
il lecito e l'illecito» (sentenza n. 327 del  2008),  nonche'  quelli
tra le diverse fattispecie  di  reato;  ma,  al  tempo  stesso,  mira
altresi' ad assicurare al destinatario della  norma  «una  percezione
sufficientemente  chiara  ed  immediata»  dei  possibili  profili  di
illiceita' penale della propria condotta (cosi', ancora, la  sentenza
n. 327 del 2008, nonche' la  sentenza  n.  5  del  2004).  Tanto  che
proprio rispetto al mandato costituzionale  di  determinatezza  della
norma incriminatrice questa  Corte  ha  recentemente  rammentato  che
«l'ausilio interpretativo del giudice penale non e' che un  posterius
incaricato di scrutare nelle eventuali zone d'ombra, individuando  il
significato corretto della disposizione nell'arco delle sole  opzioni
che il testo autorizza e che la persona puo' raffigurarsi leggendolo»
(sentenza  n.  115  del  2018).  La  garanzia   soggettiva   che   la
determinatezza della legge penale  mira  ad  assicurare  sarebbe,  in
effetti,  anch'essa  svuotata,  laddove  al  giudice   penale   fosse
consentito assegnare al testo un significato ulteriore e distinto  da
quello che il consociato possa desumere dalla sua immediata lettura. 
    E dunque, il pur  comprensibile  intento,  sotteso  all'indirizzo
giurisprudenziale cui il rimettente aderisce, di assicurare una  piu'
intensa tutela penale a persone particolarmente vulnerabili,  vittime
di condotte abusive nell'ambito di rapporti affettivi dai quali  esse
hanno difficolta' a sottrarsi,  deve  necessariamente  misurarsi  con
l'interrogativo se  il  risultato  di  una  siffatta  interpretazione
teleologica sia compatibile con i significati letterali dei requisiti
alternativi  «persona  della  famiglia»  e  «persona  comunque  [...]
convivente» con l'autore del reato; requisiti che circoscrivono - per
quanto qui rileva - l'ambito delle relazioni nelle quali le  condotte
debbono  avere  luogo,  per  poter  essere   considerate   penalmente
rilevanti ai sensi dell'art. 572 cod. pen. 
    Il  divieto  di  analogia  in  malam  partem  impone,   piu'   in
particolare,  di  chiarire  se  davvero  possa  sostenersi   che   la
sussistenza di una relazione, come quella che risulta intercorsa  tra
imputato e persona offesa nel processo a quo, consenta di qualificare
quest'ultima  come  persona   (gia')   appartenente   alla   medesima
"famiglia" dell'imputato; o se, in alternativa, un rapporto affettivo
dipanatosi nell'arco di qualche mese e caratterizzato  da  permanenze
non continuative di un partner nell'abitazione dell'altro possa  gia'
considerarsi,  alla  stregua  dell'ordinario  significato  di  questa
espressione, come una ipotesi di "convivenza". 
    In difetto di una tale  dimostrazione,  l'applicazione  dell'art.
572 cod. pen. in casi siffatti - in luogo dell'art. 612-bis,  secondo
comma, cod. pen.,  che  pure  contempla  espressamente  l'ipotesi  di
condotte commesse a danno di persona «legata da relazione  affettiva»
all'agente -  apparirebbe  come  il  frutto  di  una  interpretazione
analogica  a  sfavore  del  reo  della  norma   incriminatrice:   una
interpretazione magari sostenibile dal punto di vista  teleologico  e
sistematico, sulla  base  delle  ragioni  ampiamente  illustrate  dal
rimettente, ma comunque preclusa dall'art. 25, secondo comma, Cost. 
    2.5.- Il  mancato  confronto  con  le  implicazioni  del  divieto
costituzionale di applicazione analogica della legge penale in  malam
partem in relazione al caso di  specie  comporta  dunque  una  lacuna
motivazionale sulla rilevanza delle  questioni  prospettate,  che  ne
determina l'inammissibilita' (da ultimo, sentenza n. 57 del 2021). 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara   inammissibili    le    questioni    di    legittimita'
costituzionale  dell'art.  521  del  codice  di   procedura   penale,
sollevate, in riferimento agli artt. 3, 24 e 111 della  Costituzione,
dal  Tribunale  ordinario  di  Torre  Annunziata,   in   composizione
monocratica, con l'ordinanza indicata in epigrafe. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 28 aprile 2021. 
 
                                F.to: 
                   Giancarlo CORAGGIO, Presidente 
                    Francesco VIGANO', Redattore 
             Roberto MILANA, Direttore della Cancelleria 
 
    Depositata in Cancelleria il 14 maggio 2021. 
 
                   Il Direttore della Cancelleria 
                        F.to: Roberto MILANA 
 
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