OSSERVAZIONI ALLA SENTENZA DEL TRIBUNALE DI TARANTO SEZIONE CIVILE N. 508/2017
Il caso Taranto.
Avv. Michele CODA
La pronunzia oggetto delle presenti note rappresenta un arresto di non poco momento sia per la questione giuridica affrontata e risolta, sia per gli effetti nella collettività jonica, tuttora lesa dalla commissione di reati contro l’ambiente, quanto alle rubriche processuali ma di fatto contro la salute e contro gli intessi generali della collettività.
La individuazione del soggetto danneggiato dal pregiudizio ambientale e, pertanto legittimato a proporre la relativa azione giudiziaria è stata oggetto di una continua evoluzione giurisprudenziale e seppure la sentenza in esame esattamente riconosce il diritto al risarcimento del danno in favore dell’attrice del giudizio in conseguenza del passaggio in giudicato della sentenza penale che aveva condannato, nei giudizi di merito, gli imputati al risarcimento del danno da liquidarsi in separata sede, appare utile ripercorrere, seppur brevemente l’analisi delle norme e della giurisprudenza, prevalentemente penale, sul punto.
Inizialmente si negava la possibilità di costituirsi parte civile nel processo penale e alle associazioni riconosciute ex L. 348/1986 ed abilitate ad intervenire nei giudizio di danno ambientale: si riteneva infatti, che l’esercizio dell’azione civile nel processo penale fosse riservata solo allo Stato, mentre alle associazioni era riconosciuto un “potere di stimolo e supporto con esclusione di qualsiasi funzione surrogatoria o di supplenza.” (cfr: Cass. Pen. Sez IV 17.12.1988 n. 12659).
Quanto alle varie posizioni di volta indicate dalla giurisprudenza può essere la lettura di altra decisione della Suprema Corte: la sentenza della III^ Sez. Penale n° 33887 del 9.10.2006.
Codesta sentenza in estrema sintesi individua le facoltà di volta in volta riconosciute alle associazioni ambientaliste ed i relativi riferimenti normativi che possono così sintetizzarsi:
a) diritto di intervento analogo a quello della persona offesa dal reato, ai sensi degli artt. 91 ss., c.p.p, e perciò subordinato al consenso di questa (normalmente l’ente territoriale);
b) diritto di costituirsi parte civile nel processo penale, ma non anche di ricevere il risarcimento del danno, quand’anche questo venga accertato, spettando alle associazioni, in questo caso, soltanto il ristoro delle spese processuali;
c) diritto, ma solo per le associazioni riconosciute ex artt. 13 e 18, L. n° 349/1986, di esercitare in sede giudiziaria le azioni risarcitorie per danno ambientale spettanti agli enti territoriali, surrogandosi agli stessi in caso di loro inerzia: tuttavia, ove la domanda sia accolta, il risarcimento dev’essere liquidato a tali enti, mentre all’associazione dev’essere riconosciuta soltanto la rifusione delle spese giudiziali, secondo quanto previsto dall’art. 9, D.L.vo n° 267/2000;
d) diritto di tutte le associazioni, anche di quelle non formalmente riconosciute dal Ministero dell’Ambiente, di agire in giudizio per ottenere il risarcimento, iure proprio, del loro interesse statutario all’ambiente, purchè esse siano qualificate da un sufficiente radicamento nell’ambito territoriale di riferimento: è tale collegamento col territorio, infatti, che distingue tra soggetti portatori di interessi diffusi, non azionabili né risarcibili, ed enti esponenziali di interessi legittimi collettivi, suscettibili di tutela giurisdizionale anche risarcitoria, dopo la svolta operata dalle Sezioni Unite Civili della Corte di cassazione con la sentenza n° 500 del 22 luglio 1999.
L’argomento fondantesi su quel giudicato delle Sezioni Unite civili, ha segnato un’autentica rivoluzione in materia.
Muovendo da esso, la giurisprudenza ha evidenziato “che il danno ambientale presenta, oltre a quella pubblica, una dimensione personale e sociale quale lesione del diritto fondamentale all’ambiente salubre di ogni uomo e delle formazioni sociali in cui si sviluppa la personalità; il danno in oggetto, in quanto lesivo di un bene di rilevanza costituzionale, quanto meno indiretta, reca una offesa alla persona umana nella sua sfera individuale e sociale. Tale rilievo porta alla conclusione che la legittimazione a costituirsi parte civile per danno ambientale non spetta solo ai soggetti pubblici, in nome dell’ambiente come interesse pubblico, ma anche alle persone singole o associate in nome dell’ambiente come diritto fondamentale di ogni uomo. Di conseguenza la legittimazione in oggetto spetta anche alle associazioni ecologiche quando hanno subito dal reato una lesione di un diritto di natura patrimoniale (ad esempio, per i costi sostenuti nello svolgimento della attività dirette ad impedire pregiudizio al territorio o per la propaganda) o non patrimoniale (ad esempio, attinente alla personalità del sodalizio per il discredito derivante dal mancato raggiungimento dei fini istituzionali che potrebbe indurre gli associati a privare l’ente del loro sostegno personale e finanziario).
Non sono legittimati a costituirsi parte civile gli enti e le associazioni quando l’interesse perseguito sia quello genericamente inteso all’ambiente o, comunque, un interesse che, per essere caratterizzato da un mero collegamento con l’interesse pubblico, resta diffuso e, come tale, non proprio del sodalizio e non risarcibile.
Quando, invece, l’interesse alla tutela dell’ambiente non rimane una categoria astratta, ma si concretizza in una realtà storica di cui il sodalizio ha fatto il proprio scopo, esso cessa di essere comune alla generalità dei consociati.
In questo caso, possono costituirsi parte civile le associazioni che sono centri di tutela e di imputazione dell’interesse collettivo all’ambiente che, in tale modo, cessa di essere diffuso e diviene soggettivizzato e personificato.
Perché una associazione si possa considerare ente esponenziale della collettività, in cui si trova il bene oggetto della protezione, necessita che abbia come fine statutario essenziale la tutela dell’ambiente che diviene la ragione dell’ente, sia radicata sul territorio anche attraverso sedi locali, sia rappresentativa di un gruppo significativo di consociati, abbia dato prova di continuità della sua azione e rilevanza del suo contributo a difesa del territorio”.
Il novum normativo del D.L.vo n° 152/2006, contenente il nuovo c.d. “ T.U. ambiente”. ha pure predisposto una ristrutturazione della materia del risarcimento del danno ambientale.
In base all’art. 311, co. 1, infatti, “il Ministro dell’ambiente… agisce, anche esercitando l’azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale”.
Di qui, sembrerebbe la legittimazione del Ministro, unica ed esclusiva, a costituirsi parte civile in caso di danni ambientali, e per la conseguente reiezione di domande domande risarcitorie proposte da associazioni ambientaliste; ma tale approdo ermeneutico, però, non può essere condiviso.
Occorre evidenziare, infatti, che la legittimazione esclusiva del Ministro riguarda il “danno ambientale”: quello, ossia, che consiste in “qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima”, stando all’espressa definizione offerta dal medesimo Testo Unico all’art. 300, co. 1 (ovvero in qualsiasi alterazione, deterioramento o distruzione in tutto o in parte dell’ambiente, secondo la nozione di cui al successivo art. 311, co. 2).
Nulla toglie, però, che il medesimo fatto produttivo di codesto “danno ambientale” possa ad un tempo ledere ulteriori e differenti situazioni giuridiche soggettive, diritti soggettivi od interessi legittimi che siano, di cui siano titolari altri soggetti, anche privati ai quali non può certo essere negato il diritto di agire in giudizio a tutela degli stessi.
Tale aspetto, peraltro, è stato ben presente anche a legislatore: infatti, all’art. 313, co. 7, ult. parte del T.U. afferma che : “Resta in ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi”.
Quindi una cosa è il “danno ambientale” stricto sensu, per il cui risarcimento, in forma specifica o per equivalente, è legittimato ad agire soltanto il Ministro; altro sono i diritti soggettivi (proprietà, salute, iniziativa economica privata, e così via) e gli interessi collettivi legittimi (principalmente, appunto, quello alla salubrità ambientale di una determinata area territoriale) che possono risultare lesi dal medesimo fatto produttivo del danno ambientale.
Per queste situazioni giuridiche soggettive, dunque, come già avveniva prima del Testo Unico del 2006, sono legittimati ad agire in giudizio ed ad ottenere il risarcimento del danno i loro titolari, pur se si tratti di soggetti privati, ed in particolare – di associazioni ambientaliste rappresentative della collettività dell’area territoriale interessata.
La sentenza in esame ha affrontato una serie di questioni, essenzialmente in rito ma anche in merito tra le quali meritano di essere segnalate quelle che, ad avviso dello scrivente hanno portata generale e non circoscritta alla questione.
Tra queste si evidenzia la questione relativa al rapporto tra giudicato penale e risarcimento del danno: al riguardo merita di essere indicata una recente pronunzia della Suprena Corte che ha ritenuto che: “qualora il procedimento penale, nel quale le parti civili si sono costituite proponendo domanda di condanna al risarcimento del danno od alle restituzioni, sia stato definito in primo grado con accertamento di penale responsabilità dell’imputato e condanna dello stesso in solido con il responsabile civile al risarcimento dei danni da liquidarsi in separato giudizio, ed il Giudice penale d’appello abbia poi pronunciato sentenza di non doversi procedere perché il reato nelle more si è estinto per amnistia o prescrizione, comunque statuendo ex art. 578 cod. proc. pen. anche sugli interessi civili confermando la condanna generica al risarcimento dei danni, nel successivo giudizio proposto avanti il Giudice civile per la liquidazione del danno non trovano applicazione gli artt. 651 e 652 cod. proc. pen. concernenti i limiti di efficacia del giudicato relativo alla responsabilità penale nei giudizi civili, in quanto non soltanto la pronuncia di non luogo a procedere viene ad escludere lo stesso accertamento dell’illecito penale, ma in quanto le norme predette presuppongono che il Giudice penale non abbia pronunciato sugli interessi civili (non essendosi costituiti i danneggiati parti civili nel processo penale e non avendo svolto in tale sede l’azione civile di condanna). Diversamente, la pronuncia che accogliendo le domande delle parti civili dispone la condanna generica al risarcimento danni, pur se adottata nelle forme del processo penale, implica sempre l’accertamento della responsabilità civile dell’imputato (e del responsabile civile), e costituisce autonomo capo della sentenza penale suscettibile di passaggio in giudicato ove non specificamente impugnato dai soggetti legittimati ai sensi degli artt. 574, 575 e 576 cod. proc. pen., con la conseguenza che, una volta divenuto irrevocabile il capo della sentenza penale relativo all’accertamento di responsabilità per il danno, rimane precluso al Giudice civile, adito successivamente ai fini della liquidazione del “quantum“, procedere ad una nuova valutazione nell’”an” della responsabilità civile, potendo invece tale Giudice accertare, senza alcun ulteriore vincolo, se il fatto (potenzialmente) dannoso attribuito alla responsabilità dell’imputato abbia determinato o meno, in base alla verifica del nesso derivazione causale previsto dall’art. 1223 c.c., le conseguenze pregiudizievoli allegate dai danneggiati”.
Altro aspetto da segnalare è quello relativo alla liquidazione del danno, sia quello patrimoniale che quello non patrimoniale.
Quanto al primo, appare ovvio ritenere il danno nel duplice aspetto del danno emergente (diminuzione del patrimonio del danneggiato) e del lucro cessante (mancato guadagno), ma nella vicenda in esame nulla è stato liquidato a tale titolo. Altra questione è quella relativa al danno non patrimoniale liquidato nella decisione per equivalente e con criterio equitativo ex art. 1226 c.c.
E’ opinione dello scrivente che, ferma la correttezza del criterio di liquidazione astrattamente assunto dal Tribunale, la motivazione sul punto sia stata piuttosto carente
E noto che per poter risarcire un danno è necessario (in modo semplificato), provare che un danno deriva da un determinato evento, (al fine di individuare il soggetto responsabile del danno o tenuto a risarcire il danno), provare che un danno è stato subito o si è verificato, quantificare il danno, ma anche schematizzando, in questo modo, gli elementi necessari per ottenere il risarcimento del danno risulta evidente che è sempre difficile poter quantificare il danno nel suo preciso ammontare.
Vengono quindi in soccorso gli artt. 1226 e 2056 cc che forniscono al giudice la possibilità di quantificare il danno in modo equitativo conferendogli il potere di quantificare il danno in base ad una valutazione soggettiva, discrezionale ed approssimativa, ma equa).
Tale potere viene considerato, da un lato, come un potere che deriva (ed è espressione) del più generale potere di valutazione delle prove ex art. 115 cpc, dall’altro, non si è in presenza di una discrezionalità pura o incontrollata, ma di una discrezionalità correttiva od integrativa delle prove già raccolte.
Per poter risarcire un danno è necessario (in modo semplificato), provare che un danno deriva da un determinato evento, (al fine di individuare il soggetto responsabile del danno o tenuto a risarcire il danno), provare che un danno è stato subito o si è verificato, quantificare il danno. Anche schematizzando, in questo modo, gli elementi necessari per ottenere il risarcimento del danno risulta evidente che è sempre difficile poter quantificare il danno nel suo preciso ammontare.
In molti casi l’entità di un danno che abbiamo subito non può essere determinata con esattezza. Quando ci si trova in una situazione del genere, il giudice chiamato a dirimere la controversia procede alla liquidazione in via equitativa. Ma cosa significa esattamente?
La Cassazione si è più volte espressa in merito all’obbligo di motivazione gravante sul giudice circa la quantificazione del danno, ad esempio con sentenza n°4377 del 07 marzo 2016, si è precisato che il giudice può ricorrere alla liquidazione equitativa dando contezza delle motivazioni che lo hanno portato a quella specifica quantificazione del danno; la determinazione dell’importo non può sbiadirsi in un responso oracolare, né svilirsi a un frettoloso calcolo ragionieristico del tutto sganciato dalle specificità del caso concreto.
Con altra decisione: la n. 2327 del 31 gennaio 2018, si è affermato che in tema di liquidazione equitativa del danno, al fine di evitare che la relativa decisione si presenti come arbitraria e sottratta ad ogni controllo, è necessario che il giudice indichi, almeno sommariamente e nell’ambito dell’ampio potere discrezionale che gli è proprio, i criteri seguiti per determinare l’entità del danno e gli elementi su cui ha basato la sua decisione in ordine al “quantum”.
Il criterio di liquidazione adottato dal Tribunale è consistito nel disvalore subito dal- la attrice Legambiente nel corso di due manifestazioni pubbliche durante le quali sarebbe stato contestato l’operato della associazione.
E tuttavia la motivazione del quantum liquidato non consente, ad avviso dello scrivente, che possa costituire criterio univoco di liquidazione da potersi applicare nei casi simili che sicuramente saranno sottoposti al giudizio del Tribunale jonico.
La giurisprudenza di legittimità ha infatti affermato che: “. . .nella liquidazione equitativa del danno per evitare che la relativa decisione – ancorchè fondata su valutazioni discrezionali – sia arbitraria e sottratta a qualsiasi controllo, è necessario che il giudice indichi, almeno sommariamente e sia pure con l’elasticità propria dell’istituto e nell’ambito dell’ampio potere discrezionale che lo caratterizza, i criteri che egli ha seguito per determinare l’entità del danno. (Cass. 3 luglio 1996, n. 6082; Cass. 9.5.2001, limitato a n. 6426).
Inoltre si è detto che l’adozione della regola equitativa di cui all’art. 1226 c.c., deve garantire non solo una adeguata valutazione delle circostanze del caso concreto, ma anche l’uniformità di giudizio a fronte di casi analoghi, essendo intollerabile e non rispondente ad equità che danni identici possano essere liquidati in misura di- versa sol perchè esaminati da differenti Uffici giudiziali” (così in parte motiva: Cass.20 febbraio 2015 n. n. 3374) .Tale ultimo aspetto dovrà essere maggiormente approfondito da coloro che dovranno, purtroppo, ancora affrontare vicende come quella ora esa- minata .
* Contributo programmato nel CORSO DI FORMAZIONE DI ALTA SPECIALIZZAZIONE IN DIRITTO AMBIENTALE – Organizzato dall’Anf Taranto. (Gli altri contributi sono in lavorazione editoriale e saranno pubblicati prossimamente).