O.N.U.
CRISI INTERNAZIONALI, PARADOSSI E VISIONE STRATEGICA
Sergio Benedetto Sabetta
INTRODUZIONE
- Premessa
“Le luci stanno spegnendosi nell’intera Europa. Nell’arco della nostra vita non le rivedremo riaccese”. Queste parole – una tra le battute più famose in tutta la storia europea – furono pronunciate dal ministro degli Esteri britannico, Sir Edward Grey, mentre guardava le luci di Whitehall gradatamente estinguersi la sera di quel giorno del 1914 in cui Gran Bretagna e Germania scesero in guerra. All’epoca, pochi condividevano il giudizio di Grey su quel che stava avvenendo. I più pensavano che si trattasse di una guerra “per la civiltà”. Da un capo all’altro dell’Europa, gli uomini corsero alle caserme, e l’euforia patriottica esplose nelle città.
Soltanto dopo quattro anni di massacri, dopo il bolscevismo in Russia, dopo l’ascesa del fascismo, dopo la disintegrazione dell’economia europea durante la grande depressione, si cominciò a capire ciò che Grey aveva inteso dire” ( Introduzione, N. Stone).
Si deve considerare che negli anni che andarono tra il 1878 e il 1914 le istituzioni parlamentari furono adottate quasi ovunque, “talché il gioco politico si complicò: […] Le trasformazioni economiche si imposero massicce e veloci.
Le popolazioni raddoppiarono e triplicarono. Le famiglie, l’istruzione e gli atteggiamenti verso la religione subirono modificazioni profonde. Con sei Grandi Potenze europee a dettar legge nel mondo, anche gli affari internazionali divennero estremamente complessi” (Introduzione, N. Stone), tutto aveva avuto origine dal rapporto tecnologia e liberalismo, nella riforma delle istituzioni e la conseguente modifica del vecchio ordine, ma “le linee essenziali erano abbastanza chiare. Liberalismo significava Ragione” (6 – N. Stone). Dopo circa un secolo si stanno ripetendo alcuni eventi ripresentandosi tutte le potenzialità di possibili conflitti non controllati, dobbiamo considerare che nel caso “in cui le relazioni umane sono condizionate da un conflitto armato effettivo o possibile, agisce un’altra logica, completamente diversa. Essa viola spesso la logica lineare ordinaria, comportando la confluenza e addirittura il capovolgimento dei contrari, […]” (24 – Luttwak).
Come sottolinea Luttwak , “l’intero regno della strategia è pervaso da una logica paradossale tutta sua, in contrasto con la logica lineare ordinaria, [……] Nelle situazioni in cui il conflitto è semplicemente incidentale per scopi di produzione e di consumo, di commercio e di cultura, di relazioni sociali e di governo consensuale, con lotte e competizioni più o meno vincolate da leggi e usanze, si applica una logica lineare non contraddittoria, la cui essenza è contenuta in quello che riteniamo buon senso” (23 – Luttwak), anche se in molte occasioni della vita quotidiana sembra non sussistere subissato da altri , troppi stimoli, né si considera adeguatamente in molte occasioni la “memoria storica” delle società su cui si va ad intervenire.
L’attuale crisi in atto (Ucraina) nel ridefinire le aree di influenza, superando la presunta unitarietà della globalizzazione e manifestando la rinuncia degli U.S.A. a poliziotti del mondo, manifesta l’impotenza dell’O.N.U. quando la crisi investe gli stessi assetti di equilibrio nel Consiglio di Sicurezza, ossia il pilastro portante su cui alla fine della II Guerra Mondiale si è costituita l’organizzazione.
Nota
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E. N. Luttwak, Strategia, Rizzoli, 1989;
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N. Stone, La Grande Europa 1878 – 1919, Laterza, 1986:
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AA.VV.- La Russia cambia il mondo, Limes, 2/2022.
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Il problema del paradosso nella visione strategica
Secondo la logica lineare causale ad ogni azione segue a cascata un’ulteriore azione prevedibile, come ad ogni azione vi è la possibilità di una controreazione pari e contraria, Luttwak osserva che nella grande strategia il livello verticale militare viene ad interagire con le transazioni non militari tra Stati o altre organizzazioni politiche sovranazionali ed economiche proprie del livello orizzontale, viene a crearsi un continuo rapporto interattivo tra le varie organizzazioni che condiziona il risultato netto dei vari livelli militari.
La logica del paradosso emerge anche all’interno degli stessi Stati quando per una qualsiasi causa questo perde il monopolio dell’uso della forza e si creano conflitti non regolamentati, in questi casi la logica lineare perde efficacia, il compiere atti di buona volontà possono essere interpretati come segni di debolezza, vedasi la conferenza di Monaco del 1938, e favorire come effetto paradossale l’aggressione, finché non vengono eliminate le cause del conflitto la diplomazia collaborativa non ha successo e può essere controproducente.
Il considerare la logica lineare della cooperazione quale possibile vantaggio evidente per tutte le parti coinvolte nel contenzioso è in molti casi illogico, prevalendo una logica paradossale per cui il probabile uso della forza ne evita l’applicazione pratica.
L’inazione prepara la sconfitta nella futura azione che diventa inevitabile proprio a seguito dell’inazione quale speranza del prevalere del buon senso, se gli interessi nazionali si definiscono secondo una logica lineare dell’utile e del minore costo che si estende alla “sicurezza interna”, in ambito internazionale in presenza di conflitti, prevale la logica del paradosso dove la logica lineare può diventare di per sé fonte di debolezza con gravi conseguenze.
Su questioni limitate e ben definite, anche in presenza di più ampi conflitti, una diplomazia cooperativa secondo una logica lineare può avere ottimi risultati, senza per questo dovere risolvere il conflitto stesso, ad esempio il trattato di neutralità dell’Austria del 1955 e quello sul bando degli esperimenti atomici nell’atmosfera del 1962 (Luttwak).
Caso emblematico di paradosso strategico è quello che fu sviluppato in Europa con la dissuasione nucleare durante gli anni della Guerra Fredda, quando la Nato, a partire dal 1967, cambiò le due forme fino allora utilizzate di dissuasione mediante rappresaglia totale atomica e mediante rifiuto allo scontro, ossia cessione di spazio territoriale al fine di sfilacciare l’eventuale offensiva del Patto di Varsavia in corridoi tra centri abitati per preparare il ritorno offensivo. Entrambi furono considerati inaffidabili, in quanto il primo avrebbe portato alla risposta con l’annientamento totale dei due schieramenti, mentre il secondo l’abbandono degli alleati in prima linea e il conseguente sfaldamento dell’alleanza o al contrario un costoso rafforzamento dell’apparato militare, senza che questo tuttavia garantisse dalla tentazione di preparare un attacco di sorpresa con forti probabilità di successo.
Scriveva a riguardo Luttwak nel 1987 , “In realtà la Nato si basa su una combinazione di mezzi: forze di difesa frontali non nucleari inadeguate, un contingente di armi nucleari campali (anche queste destinate a una dissuasione mediante rifiuto), uno schieramento di forze nucleari di portata di teatro, anch’esso piuttosto vulnerabile, e le forze nucleari a grande gittata degli americani, effettivamente abbondanti e molto meno vulnerabili delle armi atomiche campali e di teatro, ma del cui impiego per la difesa dell’Europa non si può essere sicuri.
Quella che sembra una congerie di inadeguatezze è conforme alla logica del paradosso ed è proprio perché le difese frontali non nucleari non sono adeguate che diventa credibile l’uso di armi nucleari campali”(285-286, Strategia. Le logiche della guerra e della pace nel confronto tra le grandi potenze, Rizzoli, 1989, trad. Enzo Peru), in Italia rientrava in questa ipotesi il disciolto 1° GR.A.PE., “ADIGE” Elvas-BRIXEN della III° BRGT. Missili “Aquileia”, sembrerebbero problemi del ‘900 ma la storia proietta le sue ombre nel nuovo millennio come il caso Mitrokhin, la crisi siriana e l’attuale guerra in Ucraina.
Giuridicamente in molti conflitti si tende a non affrontare il problema alla radice ma si cerca di spalmarlo nello spazio, acquisendo per tale via ulteriore tempo, nella speranza che si venga a risolvere per esaurimento da solo o che eventi imprevisti modifichino il contesto entro cui il problema è nato e si è espanso, spazio in cambio di tempo, come alcuni hanno ipotizzato nell’attuale crisi del Mediterranea.
Il ruolo dell’O.N.U. nelle crisi internazionali
Gli organi intorno ai quali ruota l’attività di gestione delle crisi sono il Consiglio di Sicurezza, che ha competenza limitata al mantenimento della pace, ma in questo settore dispone di poteri assai ampi in particolare per quanto concerne le sanzioni e l’uso della forza contro gli Stati colpevoli di aggressione o minaccia alla pace.
Accanto al Consiglio vi è l’Assemblea generale, in cui tutti gli Stati sono rappresentati ed hanno uguale peso nelle votazioni, essa ha una sfera di competenza illimitata, potendosi occupare di qualsiasi questione che rientri nei fini statutari (art. 10), tuttavia in concreto i suoi poteri non sono affatto estesi, riducendosi al potere di effettuare studi, emanare raccomandazioni e promuovere accordi fra gli Stati membri.
Infine vi è il Segretario generale a cui fa capo un vasto apparato burocratico; nominato dall’Assemblea su proposta del Consiglio di Sicurezza, adempie le funzioni che gli sono affidate dallo stesso Consiglio, dall’Assemblea e dagli altri organi delle Nazioni Unite. Occorre premettere che a differenza delle Società delle Nazioni, nell’ambito della quale vigeva il principio dell’unanimità in omaggio alla regola mutuata dalla vecchia prassi delle conferenze internazionali posta a garanzia della sovranità statale, il sistema statutario accolto per le votazioni in seno agli organi delle Nazioni Unite è quello maggioritario.
Il sistema maggioritario, combinandosi con la regola per cui ad ogni Stato spetta un voto indipendentemente dalla sua importanza politica ed economica, è stato oggetto di proposte di temperamento a causa dell’ammissione all’ONU, a partire dagli anni ’60, di un rilevante numero di Stati di piccole dimensioni. Il mantenimento del principio maggioritario ha finito per introdurre come contemperamento la prassi del consensus, per cui vengono approvate senza una votazione formale quelle delibere il cui contenuto è stato preventivamente concordato fuori dalle riunioni ufficiali.
Gli Stati che avanzano riserve o si dissociano totalmente lo possono fare presente al Presidente dell’organo nel momento dell’approvazione, si deve comunque rilevare che questa pratica contribuisce a dare alle risoluzioni contenuti tanto più vaghi quanto più importanti sono le questioni sul tappeto, segno dell’incapacità delle maggioranze di prevalere sulle minoranze-
Un forte temperamento al principio maggioritario si ha in seno al Consiglio di sicurezza dove i membri permanenti possono esercitare il diritto di veto, si tratta di eccezione di non poco conto se si considera che il Consiglio è l’unico organo in grado di vincolare gli altri Stati-
L’art. 27 della Carta testualmente recita: “1. Ogni membro del Consiglio di Sicurezza dispone di un voto. 2. Le decisioni del Consiglio di Sicurezza su questioni di procedura sono prese con un voto favorevole di 9 membri. 3. Le decisioni del Consiglio di Sicurezza su ogni altra questione sono prese con un voto favorevole di 9 membri, nei quali siano compresi i voti dei membri permanenti; tuttavia nelle decisioni previste dal cap. VI e dal par. 3 dell’art. 52, un membro che sia parte di una controversia deve astenersi dal voto”.
Poiché il dovere di astensione non riguarda le delibere relative a misure coercitive contro gli Stati colpevoli di aggressione (cap. VII) e quelle relative all’espulsione dall’Organizzazione (art. 6), sussiste per tutte queste delibere il diritto di veto anche se chi ne è titolare è coinvolto in prima persona, ne consegue l’impossibilità per il Consiglio di agire con misure coercitive contro un membro permanente o di proporne l’espulsione.
A temperamento del diritto di veto si è introdotta la prassi della validità delle delibere prese con l’astensione di uno o più membri permanenti o con la non partecipazione al momento del voto, va notato che questi temperamenti appena descritti hanno consentito al Consiglio di operare ma la mancanza di adesione da parte di tutte le Grandi Potenze rende intrinsecamente deboli queste risoluzioni, senza dubbio si è rilevata una utopia la perfetta intesa tra i membri permanenti, ma è anche vero che nell’attuale struttura solo una tale intesa può garantirne il funzionamento.
Sul piano normativo, lo Statuto delle Nazioni Unite segna, rispetto al Covenant della Società delle Nazioni, due notevoli passi avanti: 1. è la maggiore portata dell’obbligo di non ricorrere alla violenza, 2. è la maggiore istituzionalizzazione dell’azione preventiva-repressiva della violazione di questo obbligo; spetterà comunque al Consiglio di Sicurezza la responsabilità principale del mantenimento della pace e della sicurezza internazionale.
Le competenze del Consiglio sono disciplinate nei cap. VI (art. 33 e segg.) e VII (art. 39 e segg.), il cap. VI tratta prevalentemente dell’esercizio della funzione conciliativa quando la controversia sia suscettibile di mettere in pericolo la pace e la sicurezza internazionale. Nel capitolo successivo si tratta delle azioni a tutela della pace quando questa risulti violata o comunque minacciata.
Accertata l’esistenza di una minaccia alla pace, di una sua violazione o di un atto di aggressione (art. 39), il Consiglio può decretare contro lo Stato aggressore misure sanzionatorie ma non implicanti l’uso della forza, come l’interruzione parziale o totale delle comunicazioni e delle relazioni economiche da parte degli altri Stati (art. 41), ma può intraprendere anche azioni armate (art. 42 e segg.), comunque prima di ricorrera ad una delle due forme esso può invitare gli Stati interessati a prendere quelle misure provvisorie atte a non aggravare la situazione (art. 40).
Il Consiglio di Sicurezza gode di un ampio potere discrezionale nel determinare se in un caso concreto si verifichi una minaccia o violazione della pace o addirittura un atto di aggressione, la discrezionalità più ampia si esercita soprattutto con riguardo all’ipotesi della “ minaccia della pace”: trattasi infatti di una ipotesi assai vaga ed elastica che non è necessariamente caratterizzata da operazioni militari implicanti l’uso della violenza bellica.
I comportamenti che possono dare adito alla minaccia riguardano sia la sfera esterna che la sfera interna dello Stato, dato che l’applicazione delle misure previste dal cap. VII non incontra il limite della “domestic Jurisdiction”, ossia di tutto ciò che ha attinenza con i classici “elementi” dello Stato, che sono i trattamenti dei “sudditi”, l’organizzazione di “Governo” e l’utilizzazione del “territorio”.
Il caso più interessante rimane comunque il ricorso all’art. 42 con tutto ciò che ne consegue, l’uso della forza può avvenire “contro” uno Stato o “all’interno” di uno Stato, quando la situazione interna sia tale da minacciare la pace e la sicurezza internazionale.
Il ricorso a misure violente è chiaramente concepito come una azione di polizia internazionale, che dovrebbe essere ai sensi dell’art. 43 sotto un comando internazionale facente capo allo stesso Consiglio di sicurezza. Il concentrare nell’Organizzazione, non solo il potere di decidere l’utilizzo della forza armata, ma anche la direzione delle operazioni militari, ha il preciso scopo di garantire l’obiettività e l’imparzialità dell’azione, nonché di controllare che questa sia mantenuta entro i limiti strettamente indispensabili al mantenimento della pace.
Consegue che le delibere con cui il Consiglio di sicurezza delega agli Stati membri l’uso della forza contro un determinato Paese, rimettendo nelle loro mani il controllo delle operazioni, non sono inquadrabili sotto gli auspici dell’art. 42 ma addirittura ne tradiscono la lettera e lo spirito e quindi sarebbero illegittime.
Purtroppo gli accordi internazionali che, ai sensi degli artt. 43, 44 e 45, gli Stati membri avrebbero dovuto stipulare con il Consiglio per la costituzione di forze armate internazionali non sono stati realizzati. Ugualmente dicasi per la costituzione di un Comitato di Stato maggiore, composto dai capi di Stato maggiore dei membri permanenti e posto sotto l’autorità del Consiglio (art. 46 e 47), questo ha fatto sì che il Consiglio sia venuto meno, paralizzato dai contrasti tra le superpotenze, ai suoi compiti di tutore dell’ordine internazionale. I deficit organizzativi sopra evidenziati non hanno reso del tutto impotente l’ONU ma è stato necessario trovare un nuovo punto di appoggio, costituito dalla delega del Consiglio al Segretario generale.
Per completare il discorso sui poteri delle Nazioni Unite in ambito di gestione delle crisi internazionali, è opportuno fare un rapido cenno ai poteri dell’Assemblea la quale può discutere qualsiasi questione di carattere generale e farne oggetto di raccomandazioni agli Stati o al Consiglio di sicurezza” oltre ad esercitare funzione conciliativa su controversie tra Stati per le quali non sia già intervenuto il Consiglio di sicurezza.
In passato si è discusso se all’Assemblea, oltre alle competenze ora ricordate, spettasse intraprendere azioni a tutela della pace mediante misure coercitive dl tipo di quelle adottabili dal Consiglio di sicurezza in base al cap. VII della Carta dell’ONU. L’argomento costituì oggetto di accanite dispute dottrinali tra gli anni ’50 e ’60, epoca in cui effettivamente l’Assemblea sotto la spinta degli Stati Uniti tese a sostituirsi al Consiglio di sicurezza nella funzione di mantenimento della pace, vista la paralisi di quest’organo per l’esercizio del diritto di veto, successivamente la spinta degli Stati Uniti è rientrata ed il tema è andato attenuandosi come conseguenza dell’enorme aumento del numero dei membri che ha reso l’Assemblea difficilmente controllabile.
L’art. 51 nel chiudere il cap. VII testualmente stabilisce: “Nessuna disposizione della presente Carta pregiudica il diritto naturale di autotutela individuale o collettiva, nel caso che abbia luogo un attacco armato contro un membro delle Nazioni Unite, fintantoché il Consiglio di sicurezza non abbia preso le misure necessarie per mantenere la pace e la sicurezza internazionale”, questo non legittima l’uso della forza in ogni caso ma solo in presenza di un attacco “già sferrato” e finché non interviene il Consiglio di sicurezza, se, tuttavia, il Consiglio resta paralizzato di fronte alla crisi in atto, la Carta e il diritto internazionale hanno esaurito la loro funzione.
Con tutti i limiti rilevati, in alcune gravi questioni internazionali le Nazioni Unite sono riuscite a fare sentire la loro presenza sviluppando le cosiddette peace –keeping operations, affidate ai caschi blu. L’intervento delle forze O.N.U. ha assunto carattere diverso a secondo delle circostanze, acquisendo funzioni di interposizione tra contendenti, presidi di zone armistiziali, gruppi di osservatori militari o forze di polizia internazionale, comunque sia, tali forze sono sempre originate da direttive del Consiglio di sicurezza o dell’Assemblea generale e rientrano nelle responsabilità operative del Segretario generale.
La 43° Assemblea Generale ha approvato una Dichiarazione sulla “Prevenzione ed eliminazione di controversie e situazioni, che possano minacciare la pace e la sicurezza internazionale, nonché il ruolo delle Nazioni Unite in questo campo” (Risoluzione 43/51 DEL 5/12/88), presentata dal Comitato per lo Statuto delle N.U., anche il Segretario generale nelle sue relazioni annuali ha più volte sollecitato una parziale riforma e rivitalizzazione degli organismi internazionali dell’O.N.U. ed è giunto a sollecitare la necessità della costituzione di apposite riserve di truppe specializzate e di risorse finanziarie.
Appare evidente che la struttura dell’ O.N.U. è stata impostata per risolvere conflitti tradizionali tra Stati, in cui vi è di fatto uno scontro simmetrico, con il nuovo millennio si sono manifestati potenziali scontri asimmetrici, dove a forze tradizionali si contrappongono organizzazioni a rete su territori non ben definiti, molto veloci nel riprodursi e spostare i centri di fuoco, capaci di acquisire risorse anche attraverso attività illegali, motivando le persone e creando collegamenti sfruttando tutte le potenzialità di una comunicazione diffusa e capillare, fuori dal controllo statale.
Il mondo virtuale internet è diventata la base operativa e il territorio in cui muoversi senza confini e barriere, con la possibilità di creare violente suggestioni irreali e sogni di riscatto, come in caso di conflitto tradizionale mezzo per la manipolazione dell’informazione centrata sull’espansione incontrollata ed esponenziale della stessa.