Di Giulia Gavagnin. Danno ambientale – Inquinamento della falda acquifera – risarcimento del danno – rinuncia dell’ente territoriale alla costituzione di parte civile – Azione popolare proposta da un singolo cittadino – Art. 9 del D. Lgs. n. 267/2000 – Ammissibilità.
In tema di risarcimento del danno, è ammissibile la costituzione di parte civile di un singolo cittadino regolarmente iscritto nelle liste elettorali del comune in luogo dell’ente territoriale, trattandosi di azione popolare prevista dall’art. 9 del D. Lgs. n. 267/2000 in materia di Enti Locali, anche nel caso in cui l’ente territoriale abbia deciso di non costituirsi.
Questa ordinanza ha una portata innovativa di non trascurabile entità, vista la pressoché totale assenza di precedenti specifici.
Nell’ambito di un procedimento per disastro colposo (previsto e punito dall’art. 449 c.p. in relazione agli art. 434 c.p. e 439 c.p.) dovuto allo sversamento accidentale di un importante quantitativo di idrocarburi in un’area abitata il giudice per l’udienza preliminare ha esaminato le richieste di costituzione di parte civile, accogliendole tutte.
Il giudice ha ammesso la domanda presentata da alcuni soci di un circolo di canottieri attiguo al luogo dell’incidente sul presupposto che il delitto contestato è plurioffensivo e che deve contemplare come danneggiati anche i singoli soggetti i quali, peraltro, secondo un indirizzo giurisprudenziale ormai divenuto minoritario , possono aver patito un danno da ansia e disagio. Ha poi ammesso le domande di un associazione del dopolavoro ferroviario posta nelle adiacenze della raffineria dalla quale è scaturito lo sversamento poiché nelle sue piscine sono state trovate tracce di idrocarburi e della locale Legambiente onlus, la quale avrebbe legittimamente lamentato sia un danno patrimoniale dovuto alla vanificazione degli sforzi economici e organizzativi profusi dall’associazione per la salvaguardia del bene-ambiente tutelato sia un danno non patrimoniale collegato alla delusione dei soci e alla lesione all’immagine dell’ente associativo dovuti alla frustrazione degli obiettivi suoi propri.
L’accoglimento di queste due richieste è, tutto sommato, conforme agli orientamenti giurisprudenziali degli ultimi anni.
Totalmente eccentrico rispetto agli indirizzi consolidati è, invece, l’accoglimento della richiesta di costituzione di parte civile da parte di un singolo cittadino iscritto nelle liste degli elettori del comune, sul presupposto della ‘rinuncia’ all’esercizio dell’azione civile nel processo penale da parte dell’ente. Il Comune, infatti, aveva stipulato d’intesa con i Ministeri competenti un accordo con la compagnia petrolifera finalizzato al ripristino dello stato dei luoghi e alla loro bonifica : questa azione aveva indotto il Comune stesso a rinunciare alla costituzione di parte civile, ritenendo compensati i danni dai benefici degli interventi programmati qualora portati a termine secondo previsioni. Il giudice ha ritenuto ammissibile la domanda del cittadino esercitata ai sensi dell’art. 9, comma 1, del D. Lgs. n. 267/2000 (già art. 7 della L. n. 142/1990), che attribuisce al cittadino la facoltà di esercitare in giudizio le azioni e i ricorsi che spettano al Comune e alla Provincia, asserendo che l’accordo intervenuto tra il Comune e i Ministeri “non travolge la facoltà del singolo cittadino, in quanto da un lato si basa su scelte amministrative discrezionali e in qualche modo “concordate” con la controparte e d’altro lato il rispristino dello stato dei luoghi non si sovrappone, essendo in senso proprio una spesa obbligata posta in capo al responsabile e non coincide interamente con il danno patrimoniale che può essere stato cagionato dalla lesione al territorio, bene essenziale dell’ente territoriale”.
La scelta è anche stata determinata da un’altra circostanza. Il giudice non ha ritenuto ostativa l’affermazione contenuta nella delibera comunale sulla volontà di non costituirsi parte civile per non aver subito danni patrimoniali diversi dal danno ambientale, di esclusiva pertinenza del Ministero dell’Ambiente. Si tratterebbe, infatti, da un lato di una valutazione meramente discrezionale, dall’altro di una previsione di massima approssimativa perché sarebbe stato possibile individuare ex ante danni diversi dal danno ambientale anche prima dell’inizio dell’istruttoria.
Sono tutte argomentazioni discutibili, se raffrontate con gli orientamenti giurisprudenziali e dottrinali in materia di azione popolare nella previsione di cui all’art. 9, commi 1 e 2 del D. Lgs. n. 267/2000.
L’azione popolare è un istituto di derivazione romanistica in base al quale chiunque può agire a difesa di un interesse pubblico . Il diritto romano concedeva al singolo cittadino la facoltà di istituire un processo contro chi era responsabile di un fatto lesivo nei confronti della collettività per acquisirne, in caso di esito vittorioso, l’importo della multa. Il cittadino, in sostanza, si sostituiva agli organi pubblici nella difesa degli interessi della collettività nei casi in cui questi non esperivano le legittime azioni di tutela e veniva gratificato economicamente (con l’importo della multa) per aver tutelato un interesse pubblico in caso di inerzia degli organi a ciò preposti . Si trattava, dunque, di un’azione avente carattere premiale nei confronti del cittadino che veniva, così, incoraggiato nella partecipazione alla vita pubblica.
L’aspetto premiale dell’azione popolare è andato perduto nel nostro ordinamento (addirittura, in caso di soccombenza, ai sensi dell’art. 9 del D. Lgs. n. 267/2000, le spese processuali sono poste a carico del ricorrente) ma, tuttavia, permangono alcune caratteristiche fondamentali dell’azione romanistica: legittimazione ad agire e interesse tutelato.
Infatti, può ricorrere il quivis e populo – anche in assenza di una lesione diretta subita dal ricorrente – a tutela di un interesse della collettività qualora vi sia inerzia degli organi pubblici .
Le azioni popolari si distinguono in suppletive e correttive. Le prime si hanno quando il ricorrente mira a difendere un diritto o un interesse legittimo che è nella disponibilità di un organo pubblico, come nel caso dell’art. 9 del D. Lgs. n. 267/2000: in questo caso, il cittadino si sostituisce all’organo inerte per la tutela di una posizione giuridica di vantaggio che spetterebbe a questo. L’azione correttiva, invece, viene proposta contro organi della pubblica amministrazione ritenuti responsabili di atti illegittimi o omissioni, come nel caso dell’art. 70 del D. Lgs. n. 267/2000 . La differenza tra le due azioni è soprattutto formale e risiede nella legittimazione passiva, giacché nel primo caso è un terzo mentre nell’altro sono organi dell’amministrazione .
Si tratta di figure tipizzate che richiedono, incontestabilmente, l’inerzia dell’organo competente per un duplice ordine di ragioni: a) perché si riferiscono ad un istituto antico, risalente nel tempo, che si è cristallizzato nella forma della sostituzione all’organo inerte; b) perché derogano ad un principio generale del nostro ordinamento secondo il quale solo il titolare del diritto e dell’interesse può attivare la tutela giurisdizionale. Per quest’ultimo motivo, le azioni popolari sono ammissibili solo nei casi espressamente previsti dalla legge : non è, infatti, tutelabile l’interesse generico al regolare funzionamento della Pubblica Amministrazione . In passato la dottrina aveva cercato di giustificare l’esistenza di un’azione popolare atipica a tutela di interessi diffusi da parte di gruppi organizzati, anche in forme elementari, qualora qualunque componente di questi gruppi si attivasse in modo sufficientemente articolato in loro rappresentanza. Oggi queste forme di tutela sono state disciplinate direttamente dal legislatore e l’azione popolare risulta confinata in un’elencazione tassativa.
Si tratta, pertanto, di un’azione sostitutiva e non correttiva riconducibile entro l’ambito delimitato delle esclusioni menzionate dall’art. 81 c.p.c. che presuppone l’inerzia dell’ente pubblico che sarebbe titolare del diritto da esercitare. Il presupposto dal quale partire è, pertanto, l’inerzia nel senso di mancato esercizio del diritto da parte del soggetto pubblico che ne sarebbe titolare; ciò significa, conseguentemente, che se detto soggetto ha espresso l’intenzione di non esercitare il diritto il cittadino non può promuovere l’azione in sua vece. Sul punto la giurisprudenza amministrativa è inequivoca laddove ha affermato che se l’ente ha espresso la volontà di non esercitare il proprio diritto la sostituzione nell’azione della cittadinanza elettrice causerebbe un vulnus del principio democratico rappresentativo, sicché l’azione popolare non è esperibile per una sorta di opposizione alla volontà espressa dall’Ente esponenziale degli interessi della collettività .
L’espressione della volontà dell’ente, infatti, annulla l’inerzia con contestuale elisione del potere del cittadino elettore di sostituirsi al soggetto legittimato all’azione per effetto dell’esercizio, da parte dell’ente, di un diritto di pari grado e cioè, quello di decidere se avvalersi o no della tutela giuridica che l’ordinamento gli conferisce.
L’inerzia non si consuma istantaneamente, con preclusione alla costituzione di parte civile fino al termine del processo. Al contrario, all’ente inerte è data in ogni momento la facoltà di esercitare l’azione civile nel processo penale, fino a potersi costituire anche nel giudizio d’appello in adesione all’azione popolare esercitata nel primo grado di giudizio da un elettore senza che detta costituzione si possa considerare tardiva . Questo intervento, tuttavia, presuppone che fino a quel momento l’ente non abbia espresso una volontà precisa in riferimento all’esercizio del diritto chè se, invece, ha manifestato l’intenzione di procedere attraverso diverse forme di tutela, quel diritto deve ritenersi esercitato in forma alternativa .
Per questi motivi sembra che il giudice estensore di questa ordinanza abbia esercitato oltremisura il proprio ingegno creativo, fino a voler ammettere ad ogni costo l’azione sostitutiva del cittadino elettore.
Il Comune interessato in quel procedimento penale, infatti, ha ritenuto espressamente di procedere con forme alternative alla tutela dell’interesse proprio (coincidente, in definitiva, con l’interesse della collettività) ritenendo che l’accordo con la compagnia petrolifera fosse il modo più consono alla tutela di detti interessi. Il sindacato del giudice penale, in questo caso, sembra oltrepassare i limiti che gli sono propri per due ragioni:
a) Perché censura un’azione commissiva della Pubblica Amministrazione che si pone, dal punto di vista logico, in netto contrasto con il concetto di ‘inerzia’ inserito nell’ambito di una fattispecie tassativa,
b) Perché, al tempo stesso, è sostitutivo della valutazione discrezionale della P.A., ritenendola, di fatto, insufficiente alla tutela degli interessi citati.
Tuttavia, se è vero che la discrezionalità amministrativa è il criterio che orienta l’azione della P.A. nella scelta tra più comportamenti giuridicamente leciti per il perseguimento dell’interesse pubblico, allora, se questo criterio è esercitato entro i limiti della liceità, non si può non convenire che questo non può essere sindacato dal giudice penale. Si torna sempre, quindi, alla mai risolta questione del sindacato del giudice penale sull’atto e sull’azione amministrativa, che esula dalla trattazione di questo scritto . Il giudice penale dovrebbe, invece, limitarsi a verificare se l’ente abbia posto in essere azioni positive in riferimento all’esercizio del diritto a costituirsi parte civile nel processo penale e non a fare valutazioni circa la sufficienza o l’insufficienza di quelle determinazioni.
Questo modus procedendi, infatti, rischia di estendere indebitamente l’esercizio dell’azione civile nel processo penale anche in contrasto con gli interessi dell’ente pubblico quando intenda tutelare i propri interessi in forma extra-processuale.