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Nel caso di contabilità in nero possibile il sequestro preventivo durante le indagini preliminari.

Avvocati

Gli esiti delle verifiche fiscali sono utilizzabili in sede cautelare senza le garanzie previste dal codice di procedura penale.

 
Decisione: Sentenza n. 23368/2016 Cassazione Penale – Sezione III

 
Il caso.
Il Tribunale pronunciava ordinanza con la quale rigettava la richiesta di riesame proposta da un imprenditore avverso il decreto di sequestro preventivo emesso dal giudice per le indagini preliminari per il reato di infedele dichiarazione a seguito della scoperta di una contabilità non ufficiale.

Le attività di polizia giudiziaria descrivevano analiticamente e valutavano la sussistenza del fumus commissi delicti, riscontrata anche attraverso gli accertamenti bancari.

Il contribuente ricorre in Cassazione affidandosi a due motivi, che la Suprema Corte non accoglie.

 

 

La decisione.
Il ricorrente assumeva la violazione dell’art. 220 delle disposizioni di attuazione del codice di procedura penale.

Più in dettaglio, la Cassazione esponeva che «Il ricorrente si duole della violazione dell’art. 220, disp. att., cod. proc. pen., asserendo che tale norma di garanzia doveva essere applicata sin dal momento, peraltro iniziale delle attività di verifica fiscale amministrativa, in cui la GdF operante in data 9 settembre 2011 ha rinvenuto ed acquisito alcuni documenti “extracontabili”, ma con evidente funzione contabile “parallela”, che, di per sé, potevano costituire altrettanti elementi indiziari di reità. Afferma inoltre che nello sviluppo delle ulteriori attività di ispezione/verifica fiscale, la scoperta in data 25 giugno 2012 della cancellazione della banca dati contabile aziendale, dopo peraltro che la stessa era stata copiata dal ct del PM, rappresentava comunque una circostanza di peso indiziario tale da rendere inevitabile l’applicazione della disposizione normativa de qua. Rileva che del resto con la comunicazione della notitia criminis in data 5 luglio 2014 la stessa pg operante segnalava l’acquisizione di precisi indizi di reità sin dall’ 1 dicembre 2011, tanto che in quella data si era richiesta al Comandante regionale della GdF l’autorizzazione alle indagini bancarie.

E precisa meglio: «Sulla base di questi dati fattuali, il ricorrente afferma dunque che le risultanze degli atti investigativi espletati dopo il verificarsi dei fatti medesimi non possano essere utilizzati ad alcun fine decisionale, per la violazione dell’art. 220, disp. att., cod. proc. pen., in quanto pacificamente non adottate le forme previste dal codice di rito penale da parte degli operanti. A sostegno di questa tesi giuridica evoca una recente pronuncia di questa Corte (Sez. 3, n. 4919/2015) che assume essere in termini».

Ma per la Suprema Corte la tesi non è condivisibile: afferma, infatti, che «Tale pronuncia di legittimità infatti, pur riguardando una situazione procedimentale analoga, trattandosi anche in quel caso di attività ispettiva tributaria, cui è poi seguito un processo penale per il delitto di cui all’art. 4, d.lgs. n. 74/2000, è stata resa a seguito del ricorso per cassazione proposto avverso una sentenza di condanna in appello e non, come nel caso che occupa, nella fase procedimentale delle indagini preliminari, in particolare di incidente cautelare, prodromica all’esercizio dell’azione penale e quindi alla fase processuale penale in senso stretto e proprio. E’ pertanto evidente e determinante la differenza di ratio decidendi, stante la radicale diversità della funzione e dell’oggetto delle due distinte fasi procedimentali, essendo la prima, quella delle indagini preliminari, volta a verificare la fondatezza di una notizia di reato al fine dell’eventuale promuovimento dell’azione penale, la seconda, quella del processo, mirata al giudizio di responsabilità penale in ordine ad un’accusa formulata alla chiusura della prima».

Il Collegio osserva anche che «tale profonda diversità funzionale comporta un’ altrettanto evidente diversità ontologica del giudizio e delle sue regole nell’una e nell’altra delle due fasi. In particolare, nel sottosistema normativo cautelare reale, per il giudice della cautela ovvero del riesame, si tratta di valutare, ancorchè “in concreto” (ex pluribus, v. Cass., Sez. 5, n. 49596 del 16/09/2014, Armento, Rv. 261677), soltanto la sussistenza del c.d. fumus commissi delicti, che pacificamente è di già un quid minus rispetto alla sussistenza dei “gravi indizi di colpevolezza” oggetto di valutazione della cautela personale ed ancor più minus è rispetto alla valutazione della sussistenza della responsabilità penale oggetto del processo, vincolata dalle assai più stringenti e rigorose relative regole di valutazione della prova e di giudizio. Queste diversità funzionali, oggettive e formali tra il giudizio incidentale cautelare (in particolare reale, per ciò che interessa in questa sede) e quello processuale di merito, segnano pertanto inevitabilmente anche i confini dei correlativi giudizi di legittimità».

E sulla natura delle valutazioni da operare nell’ambito della fase cautelare, la Cassazione si richiama al consolidato ordientamento giurisprudenziale: «Tale considerazione, quanto al giudizio incidentale cautelare reale, è peraltro ben consolidata nella giurisprudenza di questa Corte secondo la quale > (ex multis, da ultimo Sez. 2, n. 15254 del 10/03/2015, Previtero, Rv. 263053)».

La diversità sostanziale del precedente evocato dal ricorrente non può trovare seguito proprio in conseguenza del diverso oggetto decisionale: «la questione della eventuale nullità/inutilizzabilità del processo verbale di verifica della GdF potrà essere posta, in via di eccezione procedurale con effetti diretti sulla cognizione giudiziale, nella eventuale fase delibativa dell’accusa dopo la conclusione delle indagini preliminari ovvero nel successivo giudizio di merito sulla fondatezza dell’ imputazione oggetto della promuovenda azione penale».

Nel confermare la decisione del Tribunale del riesame, il Collegio ne richiama le osservazioni: «Come correttamente ha già osservato il Tribunale di Napoli, non può infatti ritenersi che, per il solo rinvenimento in sede di primo accesso ispettivo amministrativo di documentazione che poteva far presumere la sussistenza di irregolarità fiscali, si dovesse necessariamente “passare” dalla procedura tributaria amministrativa a quella penale, con le relative, diverse, garanzie; né che ciò si rendesse obbligatorio per l’attività, di poco successiva, di copia dei dati contabili informatici del contribuente verificato ovvero a causa della constatazione in data 25 giugno 2012 della “soppressione” della banca dati contabile preesistente. Non vi è infatti coincidenza strutturale normativa piena tra gli illeciti fiscali amministrativi, dei quali certamente tali fatti costituivano elementi indiziari abbastanza precisi e gravi, e l’illecito penale, peraltro unico allo stato ipotizzato, di cui all’art. 4, d.lgs. n. 74/2000, essendone il tratto differenziale principale quello, previsto nella norma incriminatrice penale, delle “soglie di punibilità”, che appunto segnano il confine tra l’uno e l’altro tipo di illecito».

La Cassazione conclude con il rigetto del ricorso.

 

 

Osservazioni.
Per la Suprema Corte, le garanzie previste dal codice di procedura penale non scattano nella fase cautelare, che è ben distinta dal giudizio di merito.

Nella fase delle indagini preliminari, che è volta a verificare la fondatezza della notizia di reato, non sono richieesti gravi indizi di colpevolezza, ma il giudice cautelare deve valutare la sussistenza del fumus commissi delicti al fine di disporre il sequestro preventivo.

 

 
Disposizioni rilevanti.
DECRETO LEGISLATIVO 28 luglio 1989, n. 271

Norme di attuazione, di coordinamento e transitorie del codice di procedura penale

 

Art. 220 – Attività ispettive e di vigilanza

1. Quando nel corso di attività ispettive o di vigilanza previste da leggi o decreti emergono indizi di reato, gli atti necessari per assicurare le fonti di prova e raccogliere quant’altro possa servire per l’applicazione della legge penale sono compiuti con l’osservanza delle disposizioni del codice.
DECRETO LEGISLATIVO 10 marzo 2000, n. 74

Nuova disciplina dei reati in materia di imposte sui redditi e sul valore aggiunto

 

Art. 4 – Dichiarazione infedele

1. Fuori dei casi previsti dagli articoli 2 e 3, è punito con la reclusione da uno a tre anni chiunque, al fine di evadere le imposte sui redditi o sul valore aggiunto, indica in una delle dichiarazioni annuali relative a dette imposte elementi attivi per un ammontare inferiore a quello effettivo od elementi passivi inesistenti, quando, congiuntamente:

a) l’imposta evasa è superiore, con riferimento a taluna delle singole imposte, a euro centocinquantamila;

b) l’ammontare complessivo degli elementi attivi sottratti all’imposizione, anche mediante indicazione di elementi passivi inesistenti, è superiore al dieci per cento dell’ammontare complessivo degli elementi attivi indicati in dichiarazione, o, comunque, è superiore a euro tre milioni.

1-bis. Ai fini dell’applicazione della disposizione del comma 1, non si tiene conto della non corretta classificazione, della valutazione di elementi attivi o passivi oggettivamente esistenti, rispetto ai quali i criteri concretamente applicati sono stati comunque indicati nel bilancio ovvero in altra documentazione rilevante ai fini fiscali, della violazione dei criteri di determinazione dell’esercizio di competenza, della non inerenza, della non deducibilità di elementi passivi reali.

1-ter. Fuori dei casi di cui al comma 1-bis, non danno luogo a fatti punibili le valutazioni che singolarmente considerate, differiscono in misura inferiore al 10 per cento da quelle corrette. Degli importi compresi in tale percentuale non si tiene conto nella verifica del superamento delle soglie di punibilità previste dal comma 1, lettere a) e b).

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