di Luca Palladini. Confermando quanto già ribadito dai colleghi del merito, il Supremo Collegio – con la sentenza del 28 agosto 2013 n. 19814 – rileva come il carattere e la personalità del ricorrente lo portino ad avere un’errata percezione di quelle che, invece, dovrebbero rappresentare delle normali vicende lavorative. Proprio a causa di questo atteggiamento, che tende a stremare e personalizzare come ostile ogni avvenimento, gli Ermellini escludono il mobbing. Invero, sul punto, la S.C. precisa che: «Per mobbing si intende comunemente una condotta del datore di lavoro o del superiore gerarchico, sistematica e protratta nel tempo, tenuta nei confronti del lavoratore nell’ambiente di lavoro, che si risolve in sistematici e reiterati comportamenti ostili che finiscono per assumere forme di prevaricazione o di persecuzione psicologica, da cui può conseguire la mortificazione morale e l’emarginazione del dipendente, con effetto lesivo del suo equilibrio fisiopsichico e del complesso della sua personalità. Ai fini della configurabilità della condotta lesiva del datore di lavoro sono, pertanto, rilevanti: a) la molteplicità dei comportamenti di carattere persecutorio, illeciti o anche leciti se considerati singolarmente, che siano stati posti in essere in modo miratamente sistematico e prolungato contro il dipendente con intento vessatorio; b) l’evento lesivo della salute o della personalità del dipendente; c) il nesso eziologico tra la condotta del datore o del superiore gerarchico e il pregiudizio all’integrità psico-fisica del lavoratore; d) la prova dell’elemento soggettivo, cioè dell’intento persecutorio». In conclusione, anche per i magistrati di legittimità manca qualunque elemento del mobbing: i fatti denunciati – infatti – assumono una connotazione lesiva solo nella percezione soggettiva della ricorrente.