Lo “status civitatis” nell’esperienza giuridica romana.
Cosa ci può ancora insegnare?
Maria Rosaria De Lucia
Abstract [It]: Riflettere oggi sulla qualificazione giuridica di cittadino potrebbe essere utile in vista di una rivalutazione del concetto stesso e, ancor più, dei diritti e doveri conseguenti.
Abstract [En]: Reflecting today on the legal qualification of citizen could be useful in view of a re-evaluation of the concept itself and, even more so, of the consequent rights and duties.
Parole chiave: cittadinanza; ordinamento giuridico.
Keywords: citizenship; legal system.
SOMMARIO: 1. Premessa; 2. La nascita dello “status civitatis”; 3. L’età repubblicana; 4. La concessione della cittadinanza come strumento di conquista; 5. La fine della Repubblica e i cambiamenti conseguenti; 6. L’età imperiale; 7. Considerazioni finali. BIBLIOGRAFIA.
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Premessa.
Il termine cittadinanza designa il rapporto tra individuo e Stato di appartenenza, che ne regola i modi di acquisto o perdita. In realtà, viene anche utilizzato per indicare il rapporto tra l’individuo e l’ordine politico-giuridico in cui l’individuo è inserito: aspettative, pretese, diritti e doveri1.
Come autorevolmente sostenuto, la crisi del concetto di cittadinanza è da ricercare in una forzata «globalizzazione dell’economia e dell’informazione che riduce i margini di sovranità dello Stato-nazione, senza però pervenire alla sua eliminazione, quanto piuttosto ad una ricollocazione nell’ “antipolitica”, dell’“utilità quantificabile”»2.
Riflettere oggi sulla qualificazione giuridica di cittadino potrebbe essere utile in vista di una rivalutazione del concetto stesso e, ancor più, dei diritti e doveri conseguenti. Si tratta di un concetto che viene spesso dato per scontato, senza neanche adeguate conoscenze, né storiche né giuridiche.
Questo breve approfondimento sulle origini del concetto di cittadinanza nella tradizione romanistica prende le mosse da un analogo scritto pubblicato di recente con il contributo del << Max Planck Institute for European Legal History >>3, ma approda a differente conclusione.
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La nascita dello “status civitatis”.
Risalente ad oltre cinquant’anni fa è la definizione del Prof. Quadri della “cittadinanza” come uno “status” giuridico, cioè come una qualifica giuridica4.
In dottrina non vi è unanimità nella definizione del concetto di “cittadinanza”, tranne che nella sua individuazione come “qualificazione giuridica”, alla stregua della tripartizione romanistica “status libertatis”, “status familiae” e, appunto, “status civitatis”5.
È con la creazione di legami stabili sul territorio tra individui legati da ragioni inizialmente familiari ed economiche che nasce il problema di definire le regole dell’appartenenza al gruppo.
I greci furono estremamente restii a concedere la cittadinanza. Prima Sparte e poi Atene furono società sostanzialmente chiuse dai tempi di Pericle. Soltanto i cittadini maschi adulti, discendenti da spartani o ateniesi, avevano diritti politici.
Nemmeno Aristotele, proveniente da Stagira, aveva alcun diritto quando si trovava ad Atene.
Nei secoli l’opinione mutò: Alessandro Magno desiderava che persiani e greci si fondessero in un unico popolo, ma il suo progetto venne stroncato dalla sua prematura morte. Dopo di lui ci fu una divisione fra greci, macedoni e il resto della popolazione6.
«Civis Romanus sum». Così si definiva Cicerone.
E con queste stesse parole si presentò Paolo di Tarso (San Paolo) dinnanzi ai centurioni che dovevano interrogarlo mediante tortura.
Ma cosa significava realmente essere un cittadino romano, e chi poteva ottenere un simile privilegio? Differentemente dagli altri popoli antichi, diventare un romano era più semplice, anche se l’esperienza romana fu una realtà a sè stante e non univoca nei suoi oltre 1000 anni di storia.
Libertas (ovvero liber esse) nell’esperienza storica di Roma esprime sostanzialmente l’assenza di costrizioni esterne e la capacità di autodeterminazione personale o anche collettiva: era la condizione di chi non era asservito ad un dominus.
Liber si fa risalire alla radice “eleudho” che nella prima lingua indogermanica significava “appartenenza alla stirpe”.
Quindi, in origine erano “liberi” e godevano di tutte le prerogative dello “Optimum jus” solo gli abitanti della Roma arcaica riuniti in stirpi, i Quirites.
Per quanto si spingano indietro nel loro passato, i romani hanno sempre avuto la coscienza di essere stati cives, dei cittadini.
In origine quindi, si parlò di cìvitas Quirìtium, per indicare il nucleo arcaico di tribù (Ràmnes, Tìties, Lùceres) che diede origine alla città di Roma; la Civitas Quiritaria era concepita come comunità di patres familiarum (Quirìtes) e trovò la sua massima espressione nell’assemblea dei patres, più tardi denominata Senatus.
Quest’ultimo eleggeva un rex vitalizio, che era il capo politico e religioso della civitas.
In questa prima fase, l’ordinamento giuridico della civitas era costituito dagli accordi federatizi (o foedera) intervenuti tra i capi delle Gèntes all’atto dell’aggregazione, dalle deliberazioni (o lèges) proclamate davanti ai comìtia, nonché dai mòres maiòrum, cioè dalle consuetudini formatesi allo scopo di regolare la pacifica convivenza tra le familiae.
Con la dominazione etrusca (VII secolo a.C.) la Civitas Quiritària subì un forte sviluppo militare ad opera della potente gens Tarquinia e, poiché i Quiriti erano appena sufficienti a formare la cavalleria, per integrare la fanteria si fece leva sulle famiglie contadine stanziate nei dintorni della città.
I fanti del nuovo exèrcitus centuriàtus non erano, dunque, Quirites, ma una massa eterogenea, una plebs, che finì con il contrapporsi ai Quirites o patrìcii.
Secondo un’opinione dottrinaria (De Martino) Roma conobbe tardi la schiavitù, presumibilmente con l’avvento dei primi re etruschi, cioè con la dominazione di estranei sulle stirpi romane, già riconoscentesi in una comune “civitas”7.
Il cittadino divenuto schiavo, per debiti ad esempio, poteva essere venduto solo oltre il Tevere.
Senza libertas non c’era civitas, in un a commistione tra diritti pubblici e privati.
A Roma la schiavitù per debiti perdurò a lungo e ciò influenzò pesantemente la storia sociale della città.
Le XII Tavole furono compilate dai decemviri legibus scribundis consulari imperio nel 451-450 a.C., cioè nello stesso anno in cui Pericle chiuse lʼaccesso alla cittadinanza ateniese, su pressione dei tribuni della plebe, in seguito allʼaspra lotta tra patrizi e plebei sviluppatasi negli anni precedenti. Ciò che è più interessante riguardo la cittadinanza è che i figli venduti e poi riacquistati dal padre potevano tornare liberi, infatti si legge nella Tavola IV:
“Si pater filium ter venum duit, filius a patre liber esto”.
“Se un padre vende un figlio per tre volte consecutive, il figlio è libero dal padre”.
Subito dopo la redazione delle XII tavole, nel 449 a.C., la plebe si rafforzò ulteriormente grazie alle Leges Valeriae Horatiae, che concedevano il diritto di veto ai tribuni della plebe.
La fine della Civitas Quiritaria fu il frutto della rivoluzione plebea, che terminò con lʼemanazione delle leges Licìniae Sèxtiae (proposte dai tribuni della plebe Gaio Licinio e Lucio Sestio Laterano nel 367 a.C.), le quali, oltre a limitare (almeno in teoria) il possesso delle terre di modo che tutti ne potessero avere abbastanza per vivere, affidarono il comando dello Stato a due praetores-consules, uno dei quali poteva anche essere plebeo.
Per effetto della rivoluzione plebea, la Civitas Quiritaria perse il suo originario valore, rilevando unicamente quale elemento distintivo tra Gentes originarie di Roma e popoli soggetti al potere politico-militare dellʼUrbe.
Nel 326 a.C. venne definitivamente abolito il nexum, ossia la schiavitù per debiti, con la Lex Poetelia Papiria. In seguito ad ulteriori scontri tra plebei e patrizi, da cui scaturì nel 287 a.C. la Lex Hortensia, che equiparava i plebiscita alle leges comitiales, nel 286 a.C. fu approvato un plebiscito, la Lex Aquilia, che superò la legislazione delle XII tavole.
Essa era composta da tre capitoli:
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I capitolo riguardante il damnum derivante dalla perdita di oggetti materiali, compresi gli schiavi;
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II capitolo riguardo lʼinadempienza dellʼadstipulator, ad esempio nel caso in cui riscuota il debito e trattenga per sé la cifra riscossa;
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III capitolo sul damnum di azioni come uccidere o rompere, sia di soggetti liberi che di oggetti, schiavi compresi.
Assorbite nel corpo dei notabili le elités etrusche, Roma superò l’antica ripartizione sociale basata sul sistema aristocratico-gentilizio per una ripartizione della società basata sul censo e sul possesso di terre.
Così si apparteneva alla cittadinanza di Roma in quanto proprietari ex jure Quiritium, si faceva parte delle tribù in base alla residenza e l’accesso alle cinque classi del Comizio (istituzione politico-militare per il governo della città) era subordinato al censo.
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L’età repubblicana.
Nel 241 a.C. le tribù divennero 35, e tali restarono. Il sistema politico romano cominciò a consolidarsi. I nuovi cittadini venivano iscritti in una determinata tribù a seconda del luogo di residenza.
Le tre Leges Porciae, approvate rispettivamente nel 199, 195 e 184 a.C. ampliavano i diritti dei cittadini romani.
Più precisamente:
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La Lex Porcia I, detta Lex Porcia de capite civium, proposta dal tribuno della plebe Publio Porcio Laeca, estese il diritto di provocatio, ovvero ampliò la possibilità di appello ai cittadini residenti non solo nella città di Roma, ma in tutti i territori romani;
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La Lex Porcia II, detta Lex Porcia de tergo civium, su proposta del console Marco Porcio Catone il Vecchio, permise la provocatio anche contro la fustigazione. Nessun cittadino romano sarebbe stato più torturato dʼora in poi prima di un processo;
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E la Lex Porcia III, su proposta di Lucio Porcio Licino, prevedeva sanzioni severe (forse anche la pena capitale) per i magistrati che non avessero concesso la provocatio8.
A causa dellʼenorme ampliamento territoriale, la Repubblica comprendeva lʼItalia, quasi tutte le isole più importanti del Mediterraneo, buona parte della penisola iberica, la Gallia meridionale, lʼAfrica ex-cartaginese, la Macedonia, la Grecia e lʼAsia Minore Occidentale.
La popolazione romana era sempre più multietnica.
Ci fu un enorme aumento della popolazione schiavile e con essa anche delle rivolte egli schiavi, come quella capeggiata da Spartaco.
Alla fine del II secolo facevano parte dei possedimenti romani non meno di trenta colonie, oltre alle terre volontariamente sottomessesi e a quelle conquistate.
Le colonie erano di due tipi: romane e latine.
Gli abitanti delle colonie romane erano cittadini romani a tutti gli effetti, essi godevano degli stessi diritti civili e politici degli altri cittadini.
Invece, gli abitanti delle colonie latine (qui latino è utilizzato come sinonimo di “non cives”, ma abitanti nel Lazio) erano esclusi dal godimento dei diritti politici, ma beneficiavano di importanti diritti civili, primo fra tutti quello di potersi sposare con cittadini romani. Essi potevano ottenere la piena cittadinanza romana se si trasferivano a Roma.
Con molte città conquistate, talvolta addirittura in luogo degli scontri, Roma procedette a concludere accordi politici trasformandole in municipii, ossia mantenevano l’autonomia amministrativa (dietro pagamento di tributi).
In alcuni casi venne anche concessa la piena cittadinanza romana, mentre ad altri municipi vennero riconosciuti solo i diritti civili. Era una cittadinanza parziale, che poteva però diventare piena in caso di particolari meriti.
Infine, distinti dalle colonie e dai municipi erano gli alleati, o “socii”, ossia le città non latine che, in cambio della sola autonomia politica, si impegnavano a seguire la politica estera di Roma, a fornire soldati e al versamento di tributi.
Convivevano, perciò, nei diversi insediamenti differenti tipi di individui:
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i “Cives”, cioè i cittadini romani dotati o di pieni diritti (gli “Ingenui” che godevano dell’Optimo iure, salva la distinzione tra patrizi e plebei prima e l’appartenenza ad una delle classi censitarie poi) o di diritti limitati (gli schiavi “Affrancati”);
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i “Latini”, ossia, inizialmente, coloro che abitavano nel Lazio, con i quali si erano costruite relazioni, che godevano di diritti civili (sine suffragio); poi successivamente il termine venne usato per indicare i socii italici;
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i “Peregrini”, ossia gli stranieri che a vario titolo risiedevano nei possedimenti romani.
L’abitante di una comunità diversa da Roma, se questa era in conflitto con Roma, non aveva alcun diritto o tutela, in caso contrario poteva concludere affari con i negozi del diritto delle genti, come ad esempio la compravendita. Naturalmente era loro preclusa la possibilità di partecipare alla vita politica dell’Urbe. Con l’espansione del dominio romano il termine peregrinus indicò lo status di quelle popolazioni (e quindi dei singoli membri) che si erano sottomesse pacificamente a Roma e che pertanto mantennero una certa autonomia, le loro leggi e i costumi;
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i “Dediticii”, ossia coloro con la più bassa condizione di libertà, riservata a popolazioni tribali estremamente arretrate e ad alcuni schiavi affrancati: il termine significa “che si è dato” e indicava sia chi era stato liberato dal proprio padrone, sia le popolazioni che si erano concesse ai romani in cambio della vita;
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ed in fine vi erano gli “Schiavi”.
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La concessione della cittadinanza come strumento di conquista.
Dal IV al II sec. a.C. la politica espansionistica di Roma si attua, però, anche attraverso l’uso della concessione della cittadinanza, ovviamente alle sole èlite della popolazione de quo.
A seconda delle convenienze e della pericolosità delle popolazioni con cui si scontrava, Roma passava dalla concessione totale, alla concessione parziale, alla creazione di semplici municipi, alla schiavitù: così, ad esempio, Ardea ebbe la cittadinanza, i Campani ebbero una cittadinanza senza cursus honorum (impossibilità ad essere eletti o ad eleggere), Velletri venne rasa al suolo e sulle sue ceneri fu fondata una colonia romana9.
La cittadinanza romana era un insieme di diritti civili e politici.
Il cittadino godeva del diritto di contrarre matrimonio (ius connubii) a cui conseguiva il regime dotale, la patria potestas e il diritto di successione; il diritto di stipulare contratti secondo le norme di legge (ius commercii) e il diritto di proprietà di schiavi e beni mobili, ma soprattutto terre; del diritto di fare testamento; di essere giudicato tramite un processo giusto solo di fronte ai tribunali di Roma per i crimini di cui era accusato e di essere anche testimone in un processo. I diritti comportavano anche impegni nei confronti della res publica: il diritto di votare in assemblea (ius suffragii), a cui si collegava il diritto di essere eletto magistrato (ius honorum), il diritto di essere tutelato dalla provocatio ad populum e di poter invocare l’intercessio di un tribuno o di un magistrato.
Ovviamente era dovere di un cittadino servire nelle legioni e pagare le tasse10.
Più di ogni altra cosa, quindi, la cittadinanza romana era un sistema di garanzie civili e giudiziarie11, ciò che oggi chiamiamo “habeas corpus”, ma aveva anche un’altra dimensione: essa era la strada per l’ambizione12. Cittadino era chi amministrava la cosa pubblica, cittadino era il soldato regolare delle truppe, ancorché semplice, A maggior ragione occorreva essere cittadini per essere nominati magistrato o senatore, o per accedere ad alte cariche civili o militari.
La cittadinanza poteva essere acquistata per diritto di nascita o poteva essere conferita su base individuale, mentre veniva riconosciuta collettivamente sempre a seguito di scontri con le popolazioni soggiogate.
Quanto allo jus sanguinis, in un matrimonio legittimo il figlio seguiva la condizione del padre al momento del concepimento, nel caso di unione non legittima seguiva la condizione della madre al momento del parto. Tuttavia l’emanazione della lex Minicia, stabilì che, qualora non vi fosse un’unione legittima, il figlio di un qualsiasi genitore straniero fosse sempre straniero.
Altro modo di acquisto della cittadinanza era su concessione, dapprima del popolo riunito in assemblea (tramite una lex), poi da un atto del magistrato autorizzato ex lege, successivamente dalla volontà dell’imperatore (tramite senatusconsulto o constitutio) sulla base di meriti di vario tipo.
Si poteva inoltre ottenere la cittadinanza di diritto come premio per alcuni servizi, in particolari circostanze:
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Dopo aver servito a Roma per qualche anno nel corpo dei vigili;
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Dopo aver speso una cospicua parte del patrimonio personale per costruire una casa a Roma;
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Dopo aver portato a Roma frumento per un certo numero di anni;
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Dopo aver macinato grano a Roma per anni.
Questi ultimi modi di ottenimento erano però riservati soltanto a coloro che possedevano la cittadinanza latina, la via di mezzo tra la condizione di romano e di straniero.
Poi c’era l’affrancazione dello schiavo, la “manomissione”.
Il dominus che affrancava un proprio schiavo, mediante una delle forme solenni previste dallo ius civile (vindcta, censu, testamento), ne faceva allo stesso tempo un uomo libero ed un cittadino.
La cittadinanza si poteva anche perdere, parzialmente o totalmente (capitis deminutio), involontariamente o volontariamente.
La perdita involontaria si aveva quando si subiva una condanna criminale o si esercitava il diritto di esilio per evitarla, oppure quando si perdeva la libertà a seguito di cattura da parte di popolazione straniera (condizione che il diritto romano riconosceva legalmente) o qualora il creditore esercitava il suo diritto di vendere come schiavo il debitore insolvente.
La perdita volontaria si aveva nel caso di trasferimento in una delle provincie romane (ius migrandi). In questo caso lo jus gentium restava sospeso.
La perdita della cittadinanza poteva essere totale, nel caso di perdita della libertà (capitis deminutio maxima), o parziale, nel caso di perdita della sola cittadinanza (capitis deminutio media) ovvero nel caso di una modificazione nello status familiae (capitis deminutio minima).
La cittadinanza, così come poteva essere concessa, poteva essere tolta mediante un atto del potere politico, cosa che accadde ad esempio con la Lex Licinia Mucia, che negò la cittadinanza agli italici e ai latini che l’avessero acquisita illegittimamente.
Proprio in dipendenza della considerevole estensione dello Stato, Roma dovette per la prima volta prevedere ipotesi di doppia cittadinanza, fino a quel momento negata.
La concessione della cittadinanza diventò uno strumento, insieme all’estensione delle leggi romane e la tolleranza verso le culture locali, per il controllo politico delle popolazioni conquistate e sottomesse dopo lunghi periodi di conflitto, oltre che di consolidamento del potere soprattutto per i magistrati romani residenti nelle provincie.
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La fine della Repubblica e i cambiamenti conseguenti.
L’equilibrio nella nobilitas senatoria si spacca su come fronteggiare la crisi di crescita di Roma: da una parte gli optimates, difensori delle istituzioni tradizionali e legati all’economia latifondista; dall’altra i populares, fautori di cambiamenti istituzionali (ad es. il tribunato della plebe alla direzione della repubblica) e favorevoli all’incremento del commercio13. E la divisione si manifestò, appunto, anche sulla richiesta di cittadinanza dei socii italici con i quali, fino ad allora, Roma aveva avuto intensi rapporti economici e politici.
In questʼepoca il servizio nellʼesercito non permetteva di diventare cittadini.
Mentre, come spesso nella storia di Roma, molti notabili locali ottenevano la cittadinanza in cambio della cessione del potere. Tuttavia gli oneri militari continuavano a gravare sui socii italici. Essi dovevano fornire uomini allʼesercito Romano, ma non vedevano riconosciuti i loro diritti, anzi allo stesso tempo vedevano ex-schiavi diventare cittadini romani, mentre a loro questa opportunità era preclusa.
Il malcontento serpeggiava quando Fulvio Flacco nel 125 a.C. propose una prima parziale estensione della cittadinanza e ancora quando Gaio Gracco nel 122 a.C. propose almeno la cittadinanza romana ai Latini e quella latina agli Italici. La proposta non venne accolta e lui venne ucciso lʼanno seguente.
Una simile legge venne proposta da suo fratello maggiore Tiberio, con una Lex agraria, che proponeva si ripartire in maniera più equa i terreni pubblici, ma fra i soli cittadini romani, sebbene anchʼegli volesse in qualche modo ampliare il possesso della cittadinanza ai popoli italici; venne anch’essa rigettata.
La Lex Aemilia de libertinorum suffragiis, del 115 a.C., invece, concesse, con alcune limitazioni, il diritto di voto ai liberti (che però non godevano della possibilità di candidarsi). Poteva dunque succedere che uno schiavo, di una qualsiasi etnia, una volta liberato potesse votare, mentre gli Italici, fedeli a Roma da secoli, non potevano in alcun modo esprimere il loro peso politico14.
Il tribuno della plebe Marco Livio Druso nel 91 a.C. propose lʼestensione della cittadinanza romana a tutti gli Italici, ma subì una strenua opposizione da parte del Senato, dallʼordine equestre e di quasi tutti i cittadini romani che non volevano condividere i loro privilegi; venne assassinato poco tempo dopo.
Ciò provocò la sollevazione dei socii italici e ci fu la “Guerra sociale”. A partire da Ascoli, dove venne massacrata la popolazione romana, gli Italici si organizzarono in una lega ribattezzata Italica, con capitale a Corfinium (vicino L’Aquila) e coniò proprie monete, per la prima volta con la scritta “Italia”.
Per la prima volta nella storia si pensava allʼItalia come ad una nazione.
I Romani riportarono vittorie sui ribelli, ma compresero che i tempi erano cambiati e nel 90 a.C. il console Lucio Giulio Cesare fece promulgare una Lex Iulia de civitate.
Essa concedeva la cittadinanza romana ai popoli rimasti fedeli e a coloro che avessero tempestivamente deposto le armi.
Una mossa vincente perché spaccò il fronte della rivolta. L’anno seguente vennero approvate:
– la Lex Calpurnia (89 a.C.) che concesse la civitas ai soldati, provenienti da comunità federate o alleate, che avevano combattuto nell’esercito di Roma (la cittadinanza come ricompensa);
– la Lex Plautia Papiria (89 a.C.) che conferì la civitas agli alleati Italici che ne avessero fatto richiesta al pretore romano entro 60 giorni.
Infine, nel 49 a.C. venne varata, su interessamento di Cesare, la Lex Roscia che riconosceva la cittadinanza romana con pieni diritti agli abitanti della Gallia Cisalpina, che nellʼ89 a.C. avevano già ricevuto la cittadinanza latina. Molte colonie latine si trasformarono in municipi romani, favorendo lʼurbanizzazione e nel 42 a.C., con lʼabolizione della provincia della Gallia Cisalpina, tutti gli italici divennero cittadini romani.
La cittadinanza romana però non era sempre ambita dalle popolazioni invase: un esempio per tutti il germano cherusco e cavaliere romano Arminio che rinnegò la sua romanità, pur essendo cresciuto a Roma, non da vinto ma da ostaggio, per sollevare la sua popolazione natia contro i conquistatori, trucidando, nel corso di unʼimboscata, tre legioni e i reparti ausiliari di Publio Quintilio Varo. Venne sconfitto tempo dopo da Germanico, figlio adottivo di Tiberio, e durante l’avvicinarsi dello scontro Arminio trovò suo fratello Flavo tra i soldati di Germanico.
Dell’incontro, un po’ romanzato, ce ne ha lasciato traccia Tacito:
“[…] (Arminio) chiese al fratello lʼorigine di quello sfregio sul volto. Questʼultimo gli riferì il luogo e la battaglia. Arminio chiese ancora quale compenso avesse ricevuto. Flavo rammentò lo stipendio accresciuto, la collana, la corona e gli altri doni militari, mentre Arminio irrideva la sua servitù a Roma per quegli insignificanti e vili compensi ricevuti […] continuarono a parlare, Flavo esaltando la grandezza di Roma, la potenza di Cesare, la severità contro i vinti, la clemenza verso coloro che si arrendevano, la generosità verso la moglie e il figlio dello stesso Arminio, trattati non come nemici. Arminio, dal canto suo, ricordando la religione della patria, lʼantica libertà, gli dei della nazione germanica, la madre di entrambi, alleata a lui nelle preghiere […]. A poco a poco passati ad insultarsi, poco mancò che si gettassero lʼuno contro lʼaltro”15.
Con il nuovo assetto politico di Roma, i nuovi cittadini abitavano lontano dallʼUrbe e raramente prendevano parte ai comizi, ma contemporaneamente formavano la maggioranza delle reclute delle legioni, che nel I secolo a.C. erano ormai accessibili a qualunque cittadino romano.
Il potere si spostò dunque dalle assemblee all’esercito, conducendo la Repubblica alla sua morte.
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L’età imperiale
Da Augusto in poi si assiste ad una riorganizzazione della materia con l’emanazione di leggi restrittive: limitazione del numero e dell’età degli schiavi che potevano essere liberati; limitazione dei diritti degli schiavi liberati senza l’osservanza delle formule sacramentali pubbliche; limiti alla trasmissibilità ai figli della cittadinanza non acquistata “iure sanguinis”, questo soprattutto in epoca imperiale, per assicurare un adeguato ricambio nelle truppe e creare una “affectio” che andava scemando.
Nel 48 d.C. fu lo stesso imperatore Claudio a proporre una legge per l’estensione dello “ius honorum” ai Romani della Gallia Comata. Il Senato reagì negativamente ma, dopo il discorso di Claudio, tramandatoci da Tacito, la legge fu approvata:
“I miei antenati, al più antico dei quali, Clauso, venuto dalla Sabina, furono conferiti insieme la cittadinanza romana e il patriziato, mi esortano ad adottare gli stessi criteri […] non ignoro che i Giuli vennero da Alba, i Coruncanii da Camerio, i Porcii da Tuscolo e, per non risalire ad epoche più antiche, furono tratti in Senato uomini dallʼ Etruria, dalla Lucania e da tutta lʼItalia […] A quale altra cagione fu da attribuirsi la rovina degli Spartani e degli Ateniesi, se non al fatto che essi, per quanto prevalessero con le armi, consideravano i vinti come stranieri? Romolo, nostro fondatore, fu invece così saggio che ebbe a considerare parecchi popoli in uno stesso giorno prima nemici e subito dopo concittadini. Stranieri presso di noi ottennero il regno […] O padri coscritti, tutte le cose che si credono antichissime furono nuove un tempo […] Anche questa nostra deliberazione invecchierà, e quello che oggi noi giustifichiamo con antichi esempi, sarà un giorno citato fra gli esempi.”16
Ciò che emerge dal testo è un principio generale di soluzione dei conflitti, ossia là dove ci sono dubbi occorre tornare alla “linea tradizionale romana”: gli stranieri sono stati sempre ben accetti e sempre lo saranno, ove si “romanizzino”.
Così almeno fino al 212 d.C., quando Marco Aurelio Severo Antonino, detto Caracalla, con la sua Constitutio Antoniniana concesse la cittadinanza a tutti gli abitanti residenti nell’Impero. Gli studiosi sono concordi su un aspetto soltanto della Constitutio Antoniniana: servì ad aumentare il gettito fiscale nelle casse dello Stato, che languivano; facevano gola soprattutto le eredità e le manomissioni, concesse appunto solo ai cives.
Agli occhi dei contemporanei, la Constitutio Antoniniana non apparve rivoluzionaria.
Ebbe, invece, un’importanza rivoluzionaria in punto di diritto perché, a quel punto, si estese lo ius civilis a tutto l’Impero, salvo poche eccezioni, mentre i privilegi, che prima conseguivano dalla civitas, già da tempo dipendevano dall’appartenenza alle nuove classi sociali in cui era strutturata la società.
In due secoli era mutata la partecipazione alla vita pubblica dei cives, il loro peso nelle elezioni così come nelle scelte dei funzionari pubblici. Così, da un punto di vista strettamente politico, non fu un grosso problema l’estensione della civitas anche a individui che fino ad allora avevano vissuto ancora secondo leggi diverse e che non si erano propriamente romanizzati perché, ormai, il potere era saldamente ancorato nelle mani nell’oligarchia al potere, sostenuta dall’esercito. Ciò che contava erano gli eserciti e gli introiti nelle casse dello Sato.
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Considerazioni finali.
E’ vero che l’apertura di Roma verso lo straniero fu sempre vista dalle popolazioni coeve come un esempio di grandezza: «Vi è qualcosa che merita decisamente uguale attenzione e ammirazione di tutto il resto: cioè la vostra meravigliosa e generosa cittadinanza, Romani, con la sua grandiosa concezione, che non ha eguali nella storia dell’umanità»17.
Così come è ben vero che il modo in cui si esplicò l’accoglienza degli stranieri a Roma nei suoi oltre 1000 anni di storia non è sempre stato né costante, né univoco.
E risulta anche vero che la cittadinanza e le sue varie declinazioni, <<furono gli affinati strumenti dello ius publicum e privatum applicati da una politica lungimirante ad assicurare il funzionamento dell’inclusione>>18.
L’articolo dal quale prende le mosse il presente scritto conclude che <<ove questa lungimiranza diventò “miope”, fu guerra>>19
Roma si espande per bramosia di conquista e di ricchezza, ma l’inclusione dello straniero, per secoli, si basò sul principio “delle prime Gentes” declinate dell’imperatore Claudio nel 48 d.C: “Romolo, nostro fondatore, fu invece così saggio che ebbe a considerare parecchi popoli in uno stesso giorno prima nemici e subito dopo concittadini”20.
Tradotto: gli stranieri sono stati sempre ben accetti e sempre lo saranno, ove si romanizzino.
Il polo di attrazione era la “romanità”, quella “affectio”, quella volontà di entrare a far parte di Roma; da qui la gradazione della civitas per quelle popolazioni che non garantivano il rispetto delle regole del vivere romano.
Guerre vi furono da parte di quelle popolazioni che già da tempo condividevano la romanità, ma non beneficiavano dello status di cives. Guerre vi furono con chi non voleva condividere la romanità e il cui destino fu inevitabilmente la schiavitù.
Diverso fu il caso della cittadinanza “calata dall’alto” da Caracalla.
Senza entrare nel merito se le regole romane, o il vivere romano, nel momento delle varie concessioni di cittadinanza, fosse migliore o peggiore rispetto alle regole sentite ed osservate fino a prima del loro arrivo, un riconoscimento a tale principio occorre farlo: non ha senso annettere soggetti che a vario, e pur legittimo, titolo risiedono su un territorio, concedendogli la qualifica di cittadini, con le implicazioni in punto di diritto pubblico e privato che ciò comporta, se non ne condividono i valori ed i principi che reggono quella comunità.
Significa snaturare il senso del concetto di cittadinanza e minare alla sopravvivenza di quel contesto socio-politico. Ciò che appunto accadde con la Costitutio Antoniniana. Le leve del potere si erano già da tempo spostate dalle assemblee alle mani di chi comandava gli eserciti, quindi era già avvenuto all’interno della stessa compagine politica l’abbandono della romanità, per un più lucroso potere autoritario.
Alla luce di quanto sin qui detto, ritengo in tutta umiltà che ancora l’esperienza romanistica ci insegni qualcosa: sarebbe un errore assecondare, non proprio chiare, spinte verso il riconoscimento allo straniero, pur regolarmente residente nel nostro Paese, un generalizzato diritto di cittadinanza basato in primis sullo “ius soli”; quale attaccamento può avere un individuo che, benché nato nel nostro Paese, non conosce o peggio non ne condivide valori e leggi?
Quale contributo allo sviluppo dei principi fondanti della nostra costituzione se non parla la nostra lingua, non ha studiato la nostra cultura?
Non è forse più garantista, nell’ottica del migliore sviluppo di un paese, concedere la cittadinanza solo a chi, regolarmente risiedendo in un esso e per un cospicuo numero di anni, abbia concorso al suo sviluppo e ne abbia assimilato e condiviso i valori? …
Ciò sempre se il fine è il migliore sviluppo di quel Paese …
BIBLIOGRAFIA
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Calore Antonello, Cittadinanza tra storia e comparazione, capitolo di Diritto: storia e comparazione, Bruti M. e Somma A. Published by: Max Planck Institute for European Legal History. (2018).
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10 https://mediterraneoantico.it/articoli/archeologia-classica/civis-romanus-sum-parte-1.
11 C. NICOLET, Il mestiere di cittadino nell’antica Roma, Editori riuniti, Roma, 1980, pp. 29 e ss.
12 C. NICOLET. cit., p. 32.
13 A. CALORE, Cittadinanza tra storia e comparazione, capitolo di Diritto: storia e comparazione, Bruti M. e
Somma A. Published by: Max Planck Institute for European Legal History, 2018.
14 http://storieromane.altervista.org/cittadini-e-barbari
15 TACITO, Annales, II, 9-10.
16 TACITO, Annales, XI, 24.
17 ARISTIDE, Elogio di Roma, 59–61.
18 A. CALORE, Cittadinanza tra storia e comparazione, cit.
19 A. CALORE, Cittadinanza tra storia e comparazione, cit.
20 TACITO, Annales, XI, 24.