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L’INAPPELLABILITA’ DELLE SENTENZE DI PROSCIOGLIMEMTO TRA PRINCIPIO DI PARITA’ DELLE PARTI E RIEQUILIBRIO DEI POTERI. – QUOTIDIANO LEGALE
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L’INAPPELLABILITA’ DELLE SENTENZE DI PROSCIOGLIMEMTO TRA PRINCIPIO DI PARITA’ DELLE PARTI E RIEQUILIBRIO DEI POTERI.

 

 

L’INAPPELLABILITA’ DELLE SENTENZE DI PROSCIOGLIMEMTO TRA PRINCIPIO DI PARITA’ DELLE PARTI E RIEQUILIBRIO DEI POTERI.

 

Diego Brancia

 

 

Abstract:
La riforma delle impugnazioni, secondo il Disegno di Legge n.2499 del 19 gennaio 2022 dovrebbe coinvolgere in maniera sostanziale l’appello, con la previsione di limitazioni del gravame alla Parte pubblica, modificando la percezione del principio di “parità delle parti” e consegnando un rinnovata prospettiva del riequilibrio dei poteri. E’ un approccio innovativo, per alcuni versi, con effetti potenzialmente deflattivi, ma, dall’altro rischia di sbilanciare il peso processuale delle parti, con concrete limitazioni dell’effetto devolutivo.

The reform of the appeals, according to the Draft Law n.2499 of January 19, 2022 should substantially involve the appeal, with the provision of limitations of the appeal to the public party, modifying the perception of the principle of “parity of the parties” and delivering a renewed perspective of the rebalancing of powers. It is an innovative approach, in some ways, with potentially deflationary effects, but on the other hand it risks unbalancing the procedural weight of the parties, with concrete limitations of the devolutive effect.

 

SOMMARIO: 1. Il sistema delle impugnazioni penali tra valori fondamentali e modelli organizzati per gradi; 2. Il Disegno di Legge recante modifiche al codice di procedura penale in materia di impugnazione delle sentenze di proscioglimento; 3. La proposta della Commissione Lattanzi; 4. Il disallineamento con gli arresti costituzionali; la restaurazione della “Riforma Pecorella”; 5. Il principio di parità delle parti ed il riequilibrio tra i poteri; 6. Gli effetti del Disegno di legge sull’assetto sistematico processuale.

1. Il sistema delle impugnazioni penali tra valori fondamentali e modelli organizzati per gradi.

Il codice del 1988 ha, di fatto, riproposto, pur in un contesto processuale mutato, l’impianto strutturale del codice del 1930 con le modifiche rese necessarie dalle patologie evidenziatesi, in relazione all’oggetto del relativo giudizio.1
Nel corso degli anni é cresciuto il dibattito dottrinale, soprattutto in relazione al giudizio di secondo grado, particolarmente, in riferimento alla compatibilità del processo di appello con il modello accusatorio.

Occorrerà subito convenire con chi affermi che “il processo penale è un meccanismo integrato governato da profili culturali, finalistici e da aspetti strutturali che ne danno attuazione”2. I modelli nei quali storicamente si sono sviluppati i meccanismi processuali di accertamento del fatto, sono noti e risultano condizionati alla struttura istituzionale, nonché giudiziaria di ogni singolo Paese. Ed ancora, se il processo penale è finalizzato ad accertare il giudizio di responsabilità di un soggetto rispetto ad un possibile fatto di reato, tale strumento si è storicamente articolato secondo moduli sufficientemente consolidati, pur risultando poi declinati con molte variabili, che tuttavia non ne alterano i canoni fondamentali. I due modelli inquisitorio ed accusatorio hanno finito nel tempo per assorbire alcuni elementi l’uno dell’altro. Non potrà trascurarsi, in verità, che l’autoritarismo di cui si connota il primo sistema ha, inevitabilmente, finito per richiedere trasformazioni in senso garantista, dando luogo a meccanismi “misti”.

Orbene la scelta a favore dei giudici, rispetto al “popolo” e l’instradamento del sistema processuale dentro lo schema dell’inquisitorietà del rito, seppur con i temperamenti insiti nella riforma del 1988, ha consentito di concepire la struttura del processo secondo lo schema di una fase di indagini, seguita da una fase di giudizio.

L’erroneità della decisione, in uno alla sua potenziale correttezza, perché affidata ad un giudice togato e professionale, quindi in linea teorica valido, ha comportato nel tempo di delineare degli strumenti di controllo e di verifica delle decisioni.

Si è trattato di un percorso progressivo, imperniato sulla posizione verticistica di una Corte suprema di cassazione che, poi, vede nella dimensione intermedia, rispetto al primo grado, il giudizio di appello.

Tutto ciò ha consentito, nel tempo, una diversificazione funzionale e l’esclusione di meccanismi di controllo ripetitivi, che, certamente, non possono considerarsi assetti consolidati, ma frutto di interventi progressivi e di adeguamento degli strumenti processuali.

Le riflessioni sulle mutate esigenze delle impugnazioni, in chiave di adeguamento al “giusto processo”3, dovranno verificare la diversificata proiezione assiologica di un sistema come quello delle impugnazioni, per lungo tempo rimasto uguale a se stesso, perturbato da un sentimento, malcelato, di “non dispersione dei mezzi di prova”4.

Non v’è dubbio che i precetti normativi costituiscano l’insostituibile strumento di tutela e mediazione tra valori che, nel loro insieme, sorreggono il sistema del diritto obiettivo e lo indirizzano verso uno scopo. Un sistema giuridico è, necessariamente, concepito come prodotto dell’esistenza e dell’esperienza umana, ed il diritto, a sua volta, costituisce la proiezione assiomatica di valori delle azioni umane, conseguenza dell’operato comune e resi manifesti da un’esperienza e cultura condivise.5 Per cui il diritto costituisce il più importante prodotto di un modello culturale; quel modello, cioè, che consente di generare i fondamenti della comune convivenza, costituito da valori la cui natura permette ad una Comunità di dotarsi di precisi tratti identificativi. Come la luce che attraversa un prisma per effetto della rifrazione, attraverso il processo penale, si separano e comprendono la dimensione culturale della società ed i meccanismi di funzionamento del sistema “sanzionatorio”, cui si affida la funzione repressiva e di riequilibrio dello scompenso da reato.

Il processo penale è un’occasione conoscitiva di un fatto, costituendo un ponte che congiunge il dato delle contestazioni imputative a quello degli effetti ed, infine, a quello della pena, il più delle volte coincidente con la privazione o limitazione delle libertà fondamentali.6

Quello delle impugnazioni, che si incardina nelle trame del “sistema”, è una successione di strumenti articolati che deve essere collocata al servizio di valori fondamentali e finanche a salvaguardia della conservazione della stessa comunità sociale. La previsione di un sistema di verifica delle scelte, in termini di decisioni di un giudice, attraverso la previsione di appositi strumenti di controllo, rafforza la fondatezza del caso singolo, assegnando, anche, garanzia all’accettazione sociale dell’accertamento.

Per ciascuna norma giuridica esiste un corrispondente valore giuridico in cui l’interesse della comunità viene a specificarsi”7 ed accogliendo tale accezione, diviene preponderante individuare i valori che la comunità giuridica intende salvaguardare, ben consapevoli che la qualità ed il rango di tali valori moduli la possibilità di manovra dell’apparato politico volta al superamento del sistema complessivo.

Il vero interrogativo, allora, risiede nella verifica del valore (o del sistema di valori) fondamentale (o fondamentali) al servizio del quale (o dei quali) le impugnazioni si pongono.8 E quindi, a cosa servano, in altre parole, le impugnazioni. Si tratta di apprezzare se si tratti di strumenti asettici rispetto al quadro degli interessi che uniforma la Comunità sociale o se siano elementi di un ordito posto a garanzia della conservazione della Società medesima.

Può sostenersi che un elemento significativo dell’esistenza di una “dottrina dei valori” possa essere riscontrato sia nella previsione costituzionale di norme che regolano la formazione della prova, oltre che nella previsione di meccanismi di verifica(proprio in tema di impugnazioni) – già nel fatto che il legislatore abbia scelto di assegnare una regola di giudizio applicabile9, soltanto, al processo penale e diversa da quella esistente nel processo civile: differenza la quale, in linea con la presunzione di non colpevolezza (anche essa) costituzionalmente stabilita10, «evidenzia come siano diversi i criteri di giustizia di queste due procedure e come diverse siano le finalità – ulteriori rispetto a quella della mera ricostruzione dell’accaduto – che i due processi intendono perseguire»11

Con il codice di procedura penale del 1988, probabilmente, si è persa l’occasione di assegnare al sistema delle impugnazioni dei tratti caratteristici differenti da quelli impressi in precedenza, lasciando inalterato l’impostazione tradizionale, attraverso, i tre gradi di giudizio.12

Alcuni Autori13 osservano che “quella delle impugnazioni è materia che senz’altro avrebbe meritato una maggiore attenzione da parte del nuovo codice di procedura penale, il quale, non ha invece posto in discussione le direttrici di fondo del modello”.

Altri, persino, che la materia fino alla riforma attuata con la L.20 febbraio 2006, n.46 (c.d. Legge Pecorella), sia stata “sonnecchiosa”14 nel travagliato terreno dei nuovi equilibri delle impugnazioni.

2. Il Disegno di Legge recante modifiche al codice di procedura penale in materia di impugnazione delle sentenze di proscioglimento.

Com’è noto, al di là di altre modifiche che hanno interessato soprattutto la Cassazione, il sistema dei gravami era stato significativamente riformato con la c.d. legge Pecorella (n. 46 del 2006) che aveva modificato sia i casi di ricorso per cassazione, sia le situazioni di legittimazione alla proposizione dell’appello15.
E’ altrettanto noto come – in relazione a quest’ultimo profilo – la riforma sia stata “demolita” dall’intervento della Corte costituzionale (C. cost., n. 26 del 2007) che “di fatto” ha riproposto il vecchio modello strutturale dei gravami. Anche per questa ragione, rafforzata dalle necessarie modifiche ordinamentali che una diversa situazione avrebbe imposto, si è ritenuto di conservare larga parte delle scelte del codice del 1988 con gli aggiustamenti che sembravano necessari.
La proposta, attuale, di riforma nasce, anche, dall’esigenza di rinvenire un raccordo normativo con l’articolo 2 del Protocollo numero 7 della Convezione Europea, utile a realizzare la ragionevole durata del processo; nonché dalle incisive sentenze della Corte Costituzionale (la n. 98 del 1994; la n. 280 del 1995), quindi, una ricognizione più attenta circa le radici ideali e funzionali del doppio grado di giurisdizione di merito e gli effetti, sul sistema complessivo delle impugnazioni, della abolizione del potere d’appello del pubblico ministero, in particolare.
In questo ambito, l’osservazione secondo cui, nel giusto equilibrio tra libertà e sicurezza, «il rilievo costituzionale dell’obbligo dell’azione penale del pubblico ministero attiene al momento iniziale dell’azione penale, senza il minimo, neanche implicito, riferimento ai momenti successivi, e tanto meno a giudizi di impugnazione» (Corte cost., sentenza n. 280 del 1995) sembra privare di copertura costituzionale il potere del pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di assoluzione.

Peraltro, la contrapposizione storica con le esigenze di sicurezza dello Stato fascista e lo sconcerto della coscienza sociale, che mina la prevedibilità del giudizio e la credibilità della condanna quando un giudice ritiene colpevole un uomo che un altro giudice ha prima ritenuto innocente, sono i presupposti in virtù dei quali si è convinti «che lo Stato democratico-liberale, a differenza dello Stato totalitario, impone all’autorità di spogliarsi del magistero punitivo quando l’innocenza dell’imputato sia proclamata all’esito del giudizio di primo grado.16

Peraltro, il tema è stato posto, in questa prospettiva, non quanto alla plausibilità ed alla fondatezza del doppio grado “in sé”, e cioè sulla sua dimensione “impersonale” di rimedio offerto alle parti, quanto sulla plausibilità del doppio grado rispetto a ciascuna parte, perché di questo in sostanza si discute: del diritto di impugnare, che è essenzialmente il diritto dell’imputato, da un lato, e il diritto del pubblico ministero, dall’altro.

E pure se si riconosce l’identità di situazione giuridica (e cioè lo stesso diritto potestativo), non per questo si riconosce a priori che essa abbia, per ciascuna parte a cui spetta, lo stesso fondamento.
Né in questo contesto, si è potuto accantonare la forza dimostrativa dell’art. 111 comma 6 Cost. su cui fondava – e fonda, anche se comunque in termini problematici – la tesi secondo cui l’obbligo di motivazione ha senso, solo ove lo si proietti sulle esigenze, sociali e/o individuali di controllo del provvedimento nel merito, a cui sembra fare eco, oggi, il nuovo comma 2 dell’art. 111 Cost.
La “parità delle parti” nel processo penale è tema complesso.

Per esemplificazione utile a svincolare l’argomento dai connotati ideologici, funzionali e strutturali che legittimano quella formula, è opportuno riconoscerle un significato “minimo”, certamente valido anche per il processo penale – indispensabile ai fini del prosieguo del discorso.

In questo senso si intende per “parità” delle parti l’identità delle occasioni per la ricostruzione e per la rappresentazione del fatto al giudice. Quindi, è necessario presupposto di un sistema normativo. Ed anche se il legislatore può scegliere la strada per la delineazione di un sistema differenziato di azioni e controlli; difficilmente può andare oltre questi confini.
E’ dunque la pronunzia costituzionale, non disconoscendo i suoi precedenti in virtù dei quali «il potere di appello del pubblico ministero non può riportarsi all’obbligo di esercitare l’azione penale (art. 112 Cost.), perché di questo non costituisce estrinsecazione necessaria» ( C.cost., sentenza n. 98 del 1994, n. 363 del 1991, n. 426 del 1998, n. 421 del 2001, n. 347 del 2002 e n. 165 del 2003), punta sulla nuova idea della “parità elastica” per la ricognizione delle situazioni soggettive protette nel e col processo penale.
Peraltro, è abbastanza agevole riconoscere che il tema delle impugnazioni intercetta molte questioni: fra queste le eccezioni in punto di competenza e quelle in materia di nullità, di inutilizzabilità, di inammissibilità, di decadenza; quelle sulla prescrizione e sulle cause estintive. Solo per citare le più rilevanti in ordine alle quali le varie soluzioni prospettabili possono avere conseguenze significative.

Nel provare a riallacciare le fila del discorso, occorrerà, a questo punto, soffermarsi sul Disegno di Legge n.2499/2022 e sulla correlazione dei relativi contenuti con quanto in origine proposto dalla “Commissione Lattanzi”, in ordine al regime delle impugnazioni delle sentenze di proscioglimento, da parte dei Pubblici ministeri.

Non si potrà dimenticare che già in passato, come sopra riferito, la Legge n.46/2006, recante “Modifiche al codice di Procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento”, nel suo punto nodale escludeva la possibilità per il Pubblico Ministero di appellare le sentenze di proscioglimento, salvo l’emergere di nuove prove sopravvenute o scoperte dopo il giudizio di primo grado.

Poi l’intervento della Consulta, con la sentenza n.26 del 2007, ne dichiarava l’incostituzionalità della norma, in quanto negazione del principio di parità delle parti, impedendo al Pubblico ministero il potere di impugnare una sentenza di primo grado in appello.

Ed uno dei nodi da sciogliere è proprio quella della realistica “parità delle parti”, accezione concettuale rivendicata dalla Corte Costituzionale dell’epoca per sterilizzare il divieto di impugnazione delle sentenze di proscioglimento, secondo una prospettiva riequilibratrice tra le parti necessarie. Valore, quello della “parità delle parti” che va, necessariamente, calato nella dimensione sistematica e sincretica del processo penale, in guisa da ritenerlo “giusto” nel suo rapporto con la ragionevole durata e di apparente disallineamento dall’orditura costituzionale ed “equo” in un contesto dove la “parità” è ancora un obiettivo perseguibile, con i dovuti correttivi ed adattamenti.

Tornando con la memoria ai fatti della “Legge Pecorella”, la Consulta si premurava di affermare che mai potrebbe ipotizzarsi che: “La posizione di vantaggio di cui fisiologicamente fruisce l’organo dell’accusa nella fase delle indagini preliminari, sul piano della ricchezza degli strumenti investigativi – posizione del vantaggio che riflette il ruolo istituzionale di detto organo, avuto riguardo anche al carattere “invasivo” e “coercitivo” di determinati mezzi d’indagine – abiliti di per sé sola il legislatore, in nome di un’esigenza di “riequilibrio”, a qualsiasi deminutio, anche la più radicale, dei poteri del pubblico ministero nell’ambito di tutte le successive fasi.”

Non potrebbe peraltro trascurarsi l’ulteriore obiezione, secondo cui in seguito ad una sentenza assolutoria in primo grado, poi riformata in senso sfavorevole in appello, la decisione possa ritenersi al passo della regola “dell’oltre ogni ragionevole dubbio”.

Né può, ulteriormente, ritenersi recessivo che l’intero sistema delle impugnazioni sia per sua natura attento a garantire, innanzitutto, la possibilità di contestare una sentenza sfavorevole all’imputato, garantendo la possibilità di una revisione del primo giudizio di condanna.

Ed ancora non va trascurato quanto stabilisce l’articolo 2 del protocollo numero 7 della Convenzione per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali o l’articolo 14 paragrafo 5, del Patto internazionale sui diritti civili e politici. Entrambe le norme prevedono che la persona condannata per un reato abbia diritto a che l’accertamento di colpevolezza sia esaminato da un tribunale superiore o di seconda istanza.

Diritto riconosciuto solo all’imputato e non all’accusa. Questo perché l’indisponibilità per il pubblico ministero di un rimedio finalizzato ad ottenere un nuovo giudizio di fatto in sede di appello discende: da un canto, con riguardo alle sentenze di proscioglimento, dallo standard dell’oltre ogni ragionevole dubbio, che promana all’articolo 27, comma 2, della Costituzione e rende inconcepibile sul piano logico, il raggiungimento della certezza processuale dopo un giudizio di proscioglimento, se non in presenza di vizi di motivazione che escludano la riproponibilità della valutazione alternativa e a seguito di un’articolata e problematica rinnovazione istruttoria; d’altro canto, per la sentenza di condanna, dalla natura che l’appello si vede riconosciuta nelle fonti internazionali e nel quadro costituzionale, che ne sanciscono, come ricordato, la funzione di tutela del diritto di difesa dell’imputato.

Probabilmente dopo trent’anni dall’introduzione della riforma in senso accusatorio del processo penale il tempo è ormai maturo per ripensare la funzione da attribuire all’appello nell’innovativa architettura del contraddittorio. In fondo, negli ultimi tre lustri il Legislatore, ha effettuato due tentativi di segno opposto, appunto da un lato, la legge numero 46 del 2006 ha puntato sulla parziale riduzione dell’appello avverso le sentenze di proscioglimento, che è stata censurata come irragionevole della Corte costituzionale; dall’altro lato, la legge numero 103 del 2017, ha mirato al rafforzamento dei poteri istruttori in seconde cure nell’ipotesi di appello del pubblico ministero.

Anche questa prospettiva, si è dimostrata piuttosto critica, nella misura in cui ha prodotto un meccanismo assai dispendioso e problematico, destinato a generare veri e propri cortocircuiti logici quando opera nei casi di giudizio abbreviato (e nelle ipotesi di impugnazione della parte civile).

Per ridisegnare il sistema delle impugnazioni alla luce delle coordinate costituzionali e convenzionali, si deve dunque prendere le mosse proprio dalle indicazioni della giurisprudenza costituzionale, che ha rimarcato in modo sempre più accentuato la diversa quotazione costituzionale del potere di impugnazione delle due parti necessarie del processo penale: privo di autonoma copertura nell’articolo 112, dunque più malleabile in funzione della realizzazione di interessi contrapposti, quello della parte pubblica; Intimamente collegato invece all’articolo 24 della Costituzione e dunque meno disponibile quello dell’imputato.

E proprio la sentenza della Corte, citata dalla relazione Lattanzi, numero 34 del 202017, ci ricorda che la garanzia del doppio grado di giurisdizione non fruisce, di per sé, di riconoscimento costituzionale. Proprio la Corte medesima ha posto in evidenza come il potere di impugnazione nel merito della sentenza di primo grado – da parte del pubblico ministero – presenti margini di cedevolezza più ampi, a fronte di esigenze contrapposte, rispetto a quelli che connotano il simmetrico potere dell’imputato.

Il potere d’impugnazione della Parte pubblica non può essere, infatti, configurato con una proiezione necessaria del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, enunciato dall’articolo 112 della Costituzione, quando, invece, sull’altro fronte il potere di impugnazione dell’imputato si correla, anche, al fondamentale valore espresso dal diritto di difesa, che ne accresce la forza di resistenza al cospetto di sollecitazione di segno inverso.

Da ultimo, va rilevato come la presunzione d’innocenza e il diritto a un equo processo sono sanciti gli articoli 47 e 48 della Carta dei diritti fondamentali, quindi con l’articolo 6 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, dell’articolo 14 del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici e nell’articolo 11 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo.

Seconda, la già citata giurisprudenza della Corte costituzionale, sentenza numero 34 del 2020, la limitazione del potere di appello ad opera della Parte pubblica persegue l’obiettivo di assicurare la ragionevole durata del processo, frazionando il carico di lavoro delle corti d’appello, in particolare le persecuzioni che riguardano sentenze che hanno accolto la domanda di punizione.

3. La proposta della Commissione Lattanzi ed il Disegno di Legge del 23 settembre 2021 con delega al Governo per l’efficienza del processo penale.

La proposta della Commissione si traduce(va) in una profonda revisione del sottosistema delle impugnazioni, ordinarie e straordinarie e secondo la prospettiva dello stesso intervento, sarebbe “volta ad assicurare i diritti dell’imputato, la tutela dell’interesse pubblico alla legalità e legittimità delle decisioni e la ragionevole durata del procedimento.”

La stessa proposta si dipana attraverso un’analisi storico-retrospettiva delle direttive della legge-delega del 1987 concernenti le impugnazioni, colpevole di avere lasciato «inalterata l’impostazione tradizionale del nostro sistema processuale»18, inibendone la possibilità di adeguamento dei controlli al nuovo assetto processuale, fondato sul contraddittorio. Da questo tipo di impostazione “cieca”, secondo quanto si legge nella relazione della Commissione, ne sono conseguiti, per un verso, un lungo lavorio giurisprudenziale volto a razionalizzare il sistema delle impugnazioni19 e, per l’altro, reiterate manovre legislative connotate spesso da “interventi puntiformi”.

La stessa Commissione si è, di fatto, soffermata sulla circostanza che i controlli sulla decisione siano ancora contraddistinti da “grave inefficienza”, riconoscendo, per un verso, che il sistema presenta diverse aporie – si pensi alla rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello anche a seguito del giudizio abbreviato – e lacune quanto all’effettività dei controlli, sia in seconde cure, che dinanzi alla Corte di cassazione; per altro verso, soprattutto il giudizio di appello si connota per una durata media ben al di sopra delle statistiche europee20 e per il progressivo accumulo di un arretrato assai preoccupante, pari a 260.946 regiudicande nel 2019.

Si tratta di una cifra a sua volta più che doppia rispetto al numero di processi esauriti annualmente dalle corti d’appello, il che fa sì che ci vorrebbero oltre due anni a “sopravvenienze zero” affinché i giudici di secondo cure riuscissero ad azzerare il carico residuo, ossia un tempo paradossalmente superiore a quello stabilito dalla legge Pinto per il grado in esame.

Orbene, secondo l’impostazione della originario progetto di riforma21, vi sarebbe l’obiettivo di adeguare i rimedi impugnatori alle direttrici costituzionali22, come interpretate in senso evolutivo dopo la costituzionalizzazione del canone del contraddittorio quale architrave del processo penale23; in secondo luogo, essa è finalizzata a dare attuazione a principi posti dalle fonti europee, tanto euro-unitarie, quanto convenzionali: si propone, sotto questo profilo, di modificare la disciplina della rescissione del giudicato e di introdurre un rimedio straordinario finalizzato a dare esecuzione alle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo.

Dopo trent’anni dall’introduzione della riforma in senso accusatorio, il tempo sarebbe ormai maturo per ripensare alla funzione da attribuire all’appello nell’innovata architettura del contraddittorio. Superando quella che si può definire una deriva del diritto delle prove, è stato costruito il ‘giusto processo’ con formule sostanzialmente ricavate dalle fonti pattizie sui diritti umani. Consacrati principi e garanzie quali parità delle parti, terzietà e imparzialità del giudice e contraddittorio, l’art. 111 Cost. viene a rappresentare il giusto processo nel ruolo di condizione di legittimità della funzione giurisdizionale. Come chiaramente si è affermato in dottrina, il legislatore “ha realizzato una sorta di incorporation rafforzativa di garanzie già codificate nel 1989 e poi ripudiate dalla svolta involutiva dei primi anni novanta, per accrescerne il grado di resistenza e renderle insensibili alle tentazioni di future revisioni legislative o giurisprudenziali”24.

In fondo, si afferma nella relazione di accompagnamento, negli ultimi tre lustri il legislatore ha effettuato due tentativi di segno opposto.

Da un lato, la legge n. 46 del 2006 ha puntato sulla parziale riduzione dell’appello avverso le sentenze di proscioglimento, che è stata censurata come irragionevole dalla Corte costituzionale (sentenze n. 26 del 2007 e 85 del 2008)25.

Dall’altro, la legge n. 103 del 2017 ha mirato al rafforzamento dei poteri istruttori in seconde cure nell’ipotesi di appello del pubblico ministero. La Commissione ha sostenuto che, anche, questa prospettiva si sia dimostrata piuttosto critica, nella misura in cui abbia prodotto un meccanismo assai dispendioso e problematico, destinato a produrre veri e propri cortocircuiti logici quando operi nei casi di giudizio abbreviato26.

Vedremo in che termini possa essere condivisa tale affermazione, anche, alla luce del ridisegnato assetto dell’art.603 del c.p.p., ispirato agli orientamenti transnazionali. Non si potrà trascurare di rammentare, proprio, sul punto che la norma abbia introdotto la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale nel giudizio di appello, a seguito delle pronunce della Corte EDU, attraverso il relativo comma 3-bis.

Invero, la Corte di Strasburgo aveva più volte affermato che un giudizio di appello che riformi l’esito assolutorio di primo grado, senza aver provveduto all’assunzione delle prove dichiarative che hanno condotto all’assoluzione dell’imputato, si ponesse in contrasto con l’art. 6, § 1 ovvero §3, lett. d) CEDU.27 E’ noto che sul solco tracciato dalla giurisprudenza europea si sia posta la giurisprudenza della Corte di Cassazione .28

A seguito di tale orientamento della giurisprudenza sia europea, che nazionale la legge n. 103/2017 ha introdotto nell’ambito dell’art. 603 c.p.p. il nuovo comma 3-bis, prevedendo un’ipotesi di rinnovazione obbligatoria dell’istruzione dibattimentale nel giudizio di appello, nel caso di impugnazione del P.M. della sentenza assolutoria, fondata sulla (prevalente) valutazione della prova dichiarativa.

Di recente, proprio, la Corte di Cassazione29 è intervenuta sul tema dell’operatività dell’obbligo di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello, disposto dall’art. 603, comma 3-bis c.p.p., nella ipotesi di sentenza di secondo grado che confermi la decisione assolutoria di primo grado. Richiamando i principi espressi dalle Sezioni Unite Troise Pavan e dalla Corte Costituzionale nella sentenza n. 124/2019, la Corte ha affermato l’insussistenza di tale obbligo, non ponendosi una questione di rispetto del canone dell’oltre ogni ragionevole dubbio né del principio costituzionale della presunzione di innocenza in una prospettiva garantistica per l’imputato. La necessità della rinnovazione istruttoria, in applicazione della regola dell’immediatezza nell’assunzione della prova dichiarativa decisiva, opera nel solo caso in cui sia emessa in appello una pronuncia di condanna a fronte di una assolutoria di primo grado, coerentemente ai principi dettati dalla giurisprudenza della Corte EDU.

Secondo la Commissione, quindi, prendendo le mosse dalle coordinate costituzionali e convenzionali occorrerà rimarcare la «diversa quotazione costituzionale del potere di impugnazione delle due parti necessarie del processo penale: privo di autonoma copertura nell’art. 112 Cost. – e, dunque, più “malleabile”, in funzione della realizzazione di interessi contrapposti – quello della parte pubblica; intimamente collegato, invece, all’art. 24 Cost. – e, dunque, meno disponibile a interventi limitativi – quello dell’imputato».30

A seguito di un articolato dibattito, la Commissione aveva ritenuto che si potesse perseguire la strada di una netta differenziazione per i rimedi ordinari: anche alla luce delle fonti internazionali (l’art. 14 par. 5 P.i.d.c.p. e l’art. 2 Protocollo n. 7 alla C.e.d.u., che prevedono «il diritto a far riesaminare la decisione da una giurisdizione superiore, o di seconda istanza», «solo a favore della persona dichiarata colpevole o condannata per un reato). Si proponeva, così, di ridefinire l’appello quale strumento di controllo nel merito della sentenza di primo grado a favore dell’imputato: costituendo un mezzo generale di esercizio del diritto di difesa, la tutela del quale sarebbe incompleta laddove, a fronte di un ampio coinvolgimento nella formazione delle prove e del convincimento del giudice, non si consentisse all’imputato di sollecitare un controllo sui punti della decisione relativi alla ricostruzione del fatto e alla valutazione delle risultanze del dibattimento.

Diversa la posizione del pubblico ministero: come si è appena ricordato, a più riprese la Corte costituzionale ha stabilito che «il potere di impugnazione della parte pubblica non può essere […] configurato come proiezione necessaria del principio di obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, enunciato dall’art. 112 Cost.»31, con la precisazione che l’iniziativa della Procura tesa a far valere eventuali errori commessi dal primo giudice «ha […] come scopo istituzionale quello di assicurare la corretta applicazione della legge penale nel caso concreto», oltre alla «effettiva attuazione dei principi di legalità e di eguaglianza» come sancito con la sentenza della Corte cost., del 6 febbraio 2007, n. 26.

Ebbene, l’orientamento prevalente in Commissione propendeva nel senso di ritenere che lo strumento a disposizione del pubblico ministero per attivare un controllo di legalità (sulla corretta applicazione della norma sostanziale), di legittimità (su eventuali errores in procedendo) e di razionalità del giudizio di fatto (sulla corretta applicazione delle regole della logica) della decisione, fosse il ricorso per Cassazione. Al riguardo, considerata l’ampiezza del vizio di motivazione contemplato dall’art. 606, comma 1, lett. e, c.p.p. – che consente un controllo della corrispondenza della motivazione agli atti probatori –, si reputava che tale rimedio permettesse alla Parte pubblica di censurare gli errori del giudice di prime cure nella ricostruzione del fatto.

Nello specifico, la riforma, prevedeva la cancellazione dell’appello del pubblico ministero e, conseguentemente, l’eliminazione dell’appello incidentale dell’imputato (art. 7 co. 1 lett. hter) e il ripristino della normativa anteriore alla l. 23.6.2017 n. 103, per la disciplina della rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello, mediante l’abrogazione del comma 3-bis dell’art. 603 c.p.p. (art. 7 co. 1 lett. hquater), che postula l’appello della parte pubblica «contro una sentenza di proscioglimento per motivi attinenti alla valutazione di un prova dichiarativa».

4. Il disallineamento dagli arresti costituzionali; la restaurazione della “Riforma Pecorella”.

La soluzione che era stata proposta dalla Commissione Lattanzi, che ha comunque suscitato un acceso dibattito tra gli stessi componenti, si prestava, in verità, a sollecitare più di una tensione con i principi costituzionali e, in specie, con il principio della “parità delle parti” processuali, i cui riferimenti costituzionali si rinvengono negli artt. 3 e, soprattutto, 111, comma II, Cost.

Occorrerà, a quanto punto, interrogarsi sul concetto, pure, elaborato dalla giurisprudenza costituzionale, di parità delle armi tra le parti processuali32.

Ed è proprio l’elaborazione giurisprudenziale a consentire di trarre, come conclusione, che tale concetto non comporti necessariamente -e all’evidenza- l’identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell’imputato, in quanto la disparità degli interessi e delle istanze di cui le parti stesse sono portatrici (in quanto la prima identificandosi in un organo pubblico che agisce nell’esercizio di un potere e a tutela di interessi collettivi, l’altra in un soggetto privato che difende i propri diritti fondamentali, giustifica fisiologiche differenze nelle rispettive prerogative e facoltà processuali, la cui compatibilità costituzionale è assoggettata al rispetto di una duplice condizione: che essi «per un verso, trovino un’adeguata ratio giustificatrice nel ruolo istituzionale del pubblico ministero, ovvero in esigenze di funzionale e corretta esplicazione della giustizia penale, anche in vista del completo sviluppo di finalità esse pure costituzionalmente rilevanti; e, per un altro verso, risultino comunque contenuti – anche in un’ottica di complessivo riequilibrio dei poteri, avuto riguardo alle disparità di segno opposto riscontrabili in fasi del procedimento distinte da quelle in cui s’innesta la singola norma discriminatrice avuta di mira, entro i limiti della ragionevolezza»33.

Non si potrà dimenticare che la Corte costituzionale avesse già lanciato un proprio monito, che risuona oggi quanto mai attuale, nella dinamica della riproposizione di una modifica della disciplina delle impugnazioni esperibili dalla Parte pubblica largamente ispirata a quelle stesse direttrici ideali che avevano animato il disegno riformatore del 2006 e che la Consulta aveva seccamente contrastato, tanto più nella prefigurabile assenza di misure “compensative” a giustificazione dell’amputazione della principale tra le prerogative d’impugnazione del pubblico ministero.

Invero, anche allora il principale argomento a conforto dell’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento -in linea con una parte della dottrina34 e con i lavori parlamentari- riposava sulla contraddittorietà di “verità processuali” antitetiche, affermate nei due gradi consecutivi del giudizio di merito, asseritamente inconciliabili con lo standard dimostrativo dell’“oltre ogni ragionevole dubbio” che la stessa legge 46/2006 introduceva; così come, nel dibattito parlamentare e costituzionale, la sostenibilità della “contrazione” del giudizio, sofferta dal pubblico ministero, traeva ulteriore alimento nel riequilibrio delle posizioni processuali lungo l’intero iter procedurale, da un lato, e dall’altro nell’istanza della ragionevole durata del processo, vanificata dall’esperimento dell’appello ad iniziativa del pubblico ministero.

Nel suo carattere settoriale, per contro, l’intervento riformatore rischia di alterare, seriamente, il rapporto paritario tra i contendenti con modalità tali da determinare anche una intrinseca incoerenza del sistema.

Infatti, nella cornice dei valori costituzionali, la parità delle parti non corrisponde necessariamente ad una eguale distribuzione di poteri e facoltà fra i protagonisti del processo. In particolare, per quanto attiene alla disciplina delle impugnazioni non contraddice, comunque, il principio di parità l’eventuale differente modulazione dell’appello medesimo per l’imputato e per il pubblico ministero, purché essa avvenga nel rispetto del canone della ragionevolezza, con i corollari di adeguatezza e proporzionalità.
Nella specie, per contro, la menomazione recata dalla disciplina impugnata ai poteri della parte pubblica, nel confronto con quelli speculari dell’imputato, eccede il limite di tollerabilità costituzionale, in quanto non sorretta da una ratio adeguata in rapporto al carattere radicale, generale e “unilaterale” della menomazione stessa.

Alla luce delle indicazioni ricavabili dalla giurisprudenza della medesima Corte35 costituzionale, infatti – se pure il potere d’impugnazione del pubblico ministero non costituisce estrinsecazione necessaria dei poteri inerenti all’esercizio dell’azione penale – un’asimmetria tra accusa e difesa, su tale versante, sarebbe compatibile con il principio di parità delle parti, solo ove contenuta nei limiti della ragionevolezza, in rapporto ad esigenze di tutela di interessi di rilievo costituzionale.

Al riguardo, occorrerà richiamare alla memoria come la Corte costituzionale, avesse, in precedenza, ritenuto “costituzionalmente legittime” le disposizioni che non consentivano al pubblico ministero di proporre appello, sia in via principale che in via incidentale, avverso le sentenze di condanna pronunciate a seguito di giudizio abbreviato36: valorizzando, a tal fine, le peculiari caratteristiche di detto rito alternativo. La medesima giustificazione non potrebbe tuttavia valere in rapporto alle norma di prossima introduzione, la quale preclude l’appello del pubblico ministero contro tutte le sentenze di proscioglimento, senza operare alcuna distinzione tra giudizio abbreviato e giudizio ordinario.
A sostegno della soluzione normativa censurata, non varrebbe neppure invocare il diritto della persona accusata alla rapida definizione del processo a suo carico, in forza del principio di ragionevole durata del medesimo (art. 111, secondo comma, Cost.): diritto che non potrebbe essere realizzato tramite l’esclusivo sacrificio del potere d’appello della parte pubblica, senza con ciò infrangere l’altro principio costituzionale – di non minore rilievo – della parità delle parti nel processo.
Parimenti, non potrebbe rinvenirsi una ragionevole giustificazione delle norme censurate nel preteso diritto dell’imputato a fruire, sempre e comunque, di un doppio grado di giudizio di merito, nel caso di condanna. Un simile diritto non sarebbe riconosciuto né dalla Costituzione, né dalle convenzioni internazionali; infatti, il paragrafo 2 dell’art. 2 del Protocollo addizionale n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali37 – adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98 – prevede espressamente che il diritto dell’imputato a far riesaminare l’affermazione della propria colpevolezza possa essere escluso, quando tale affermazione promani da una giurisdizione superiore, o abbia luogo a seguito di un ricorso avverso l’originario proscioglimento dell’imputato medesimo.
Ancora, non si potrebbe sostenere che, riconoscendo al pubblico ministero il potere di provare, davanti ad un giudice diverso, l’erroneità del primo giudizio assolutorio, si incrementerebbe il rischio che venga condannato un innocente, stante la «disparità di forze in gioco». L’assunto risulterebbe infatti valido solo in rapporto agli ordinamenti processuali di tipo integralmente accusatorio, nei quali l’assoluzione o la condanna conseguono ad un verdetto non motivato; inoltre, dopo la sentenza di primo grado, la ventilata «disparità delle forze» non sussisterebbe più, dato che «l’accusa non può più perquisire, intercettare, sequestrare», ma «soltanto argomentare».
Onde legittimare, sul piano della ragionevolezza, i neo-introdotti limiti al potere di impugnazione del pubblico ministero, non gioverebbe nemmeno invocare i principi del contraddittorio, dell’oralità e dell’immediatezza, avuto riguardo al fatto che il giudice di appello – diversamente da quello di primo grado – procederebbe ad una valutazione delle prove di tipo meramente «cartolare». Tale asserzione non corrisponderebbe a verità in rapporto ad un buon numero di processi a base «cartolare» (quali, ad esempio, quelli celebrati con il rito abbreviato). Soprattutto, essa si tradurrebbe in un argomento che «prova troppo»: rimarrebbe da spiegare, infatti, perché un «giudizio sulle carte» di proscioglimento abbia maggiore dignità di un analogo giudizio di condanna; sicché, a seguirlo fino in fondo, l’argomento dovrebbe comportare l’inappellabilità di tutte le sentenze.
Costituirebbe, infine, «pura petizione di principio» l’affermazione secondo cui il proscioglimento a seguito del giudizio di primo grado farebbe sorgere, in ogni caso, un «ragionevole dubbio» circa la colpevolezza dell’imputato, impedendo quindi che si concretizzi il presupposto per la pronuncia di una sentenza di condanna ai sensi del novellato art. 533, comma 1, cod. proc. pen. Il dubbio derivante dalla difformità degli esiti dei due gradi di giudizio sarebbe, difatti, necessariamente insito in un ordinamento che preveda più gradi di giurisdizione di merito; d’altro canto, se l’appellabilità della sentenza di condanna da parte dell’imputato si giustifica a fronte della possibilità che la decisione di primo grado sia errata, non si comprenderebbe perché una analoga eventualità non debba imporre, per il principio di parità, l’appellabilità delle sentenze di assoluzione.
Nessuna ragionevole giustificazione potrebbe scorgersi, poi, alla base dell’evidenziata disparità di trattamento del pubblico ministero rispetto alla parte civile, posto che quest’ultima persegue, nel processo penale, un interesse meramente risarcitorio, che potrebbe essere bene azionato davanti al giudice civile: quando, invece, il pubblico ministero è la parte pubblica che «fa valere, anche in sede di impugnazione, la pretesa punitiva dello Stato e l’interesse pubblico al ripristino dell’ordine violato dal reato».

5. Il principio di parità delle parti ed il riequilibrio tra i poteri.

Si dovrà anche ricordare che, secondo quanto reiteratamente rilevato dalla Corte Costituzionale, il secondo comma dell’art. 111 Cost., inserito dalla legge costituzionale 23 novembre 1999, n. 2 (Inserimento dei principi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione) – nello stabilire che «ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità» – abbia conferito veste autonoma ad un principio, quello di parità delle parti, «pacificamente già insito nel pregresso sistema dei valori costituzionali».38
La stessa Corte costituzionale con la già richiamata sentenza n.320/2007 , aveva avuto modo di esprimersi secondo taluni principi, ovvero che, anche, dopo la novella costituzionale, rimanesse pertanto pienamente valida l’affermazione – costante nella giurisprudenza anteriore della Corte39 – secondo la quale, nel processo penale, il principio di parità tra accusa e difesa non comportasse necessariamente l’identità tra i poteri processuali del pubblico ministero e quelli dell’imputato: potendo una disparità di trattamento «risultare giustificata, nei limiti della ragionevolezza, sia dalla peculiare posizione istituzionale del pubblico ministero, sia dalla funzione allo stesso affidata, sia da esigenze connesse alla corretta amministrazione della giustizia».40
Alla luce di tale consolidato indirizzo, le fisiologiche differenze che connotano le posizioni delle due parti necessarie del processo penale, correlate alle diverse condizioni di operatività e ai differenti interessi dei quali, anche alla luce dei precetti costituzionali, le parti stesse sono portatrici – essendo l’una un organo pubblico che agisce nell’esercizio di un potere e a tutela di interessi collettivi; l’altra un soggetto privato che difende i propri diritti fondamentali, sui quali inciderebbe una eventuale sentenza di condanna – impediscono di ritenere che il principio di parità debba (e possa) indefettibilmente tradursi, nella cornice di ogni singolo segmento dell’iter processuale, in un’assoluta simmetria di poteri e facoltà. Alterazioni di tale simmetria – tanto nell’una che nell’altra direzione (ossia tanto a vantaggio della parte pubblica che di quella privata) – sono invece compatibili con il principio di parità, ad una duplice condizione: e, cioè, che esse, per un verso, trovino un’adeguata ratio giustificatrice nel ruolo istituzionale del pubblico ministero, ovvero in esigenze di funzionale e corretta esplicazione della giustizia penale, anche in vista del completo sviluppo di finalità esse pure costituzionalmente rilevanti; e, per un altro verso, risultino comunque contenute – anche in un’ottica di complessivo riequilibrio dei poteri, avuto riguardo alle disparità di segno opposto riscontrabili in fasi del procedimento distinte da quelle in cui s’innesta la singola norma discriminatrice avuta di mira41– entro i limiti della ragionevolezza.
Tale vaglio di ragionevolezza va evidentemente condotto sulla base del rapporto comparativo tra la ratio che ispira, nel singolo caso, la norma generatrice della disparità e l’ampiezza dello “scalino” da essa creato tra le posizioni delle parti: mirando segnatamente ad acclarare l’adeguatezza della ratio e la proporzionalità dell’ampiezza di tale “scalino” rispetto a quest’ultima. Siffatta verifica non può essere pretermessa, se non a prezzo di un sostanziale svuotamento, in parte qua, della clausola della parità delle parti: non potendosi ipotizzare, ad esempio, che la posizione di vantaggio di cui fisiologicamente fruisce l’organo dell’accusa nella fase delle indagini preliminari, sul piano della ricchezza degli strumenti investigativi – posizione di vantaggio che riflette il ruolo istituzionale di detto organo, avuto riguardo anche al carattere “invasivo” e “coercitivo” di determinati mezzi d’indagine – abiliti di per sé sola il legislatore, in nome di un’esigenza di “riequilibrio”, a qualsiasi deminutio, anche la più radicale, dei poteri del pubblico ministero nell’ambito di tutte le successive fasi. Una simile impostazione – negando, di fatto, l’esistenza di limiti di compatibilità costituzionale alla distribuzione asimmetrica delle facoltà processuali tra i contendenti – priverebbe di ogni concreta valenza la clausola di parità: risultato, questo, tanto meno accettabile a fronte della sua attuale assunzione ad espresso ed autonomo precetto costituzionale.

La Corte costituzionale ha sempre recepito come corretta la premessa fondante delle impugnazioni: che, cioè, la disciplina delle stesse, quale capitolo della complessiva regolamentazione del processo, si collochi anch’essa entro l’ambito applicativo del principio di parità delle parti; premessa, questa, la cui validità deve essere confermata.
Ed in effetti, il principio in parola non è infatti suscettibile di una interpretazione riduttiva, quale quella che – facendo leva, in particolare, sulla connessione proposta dall’art. 111, secondo comma, Cost. tra parità delle parti, contraddittorio, imparzialità e terzietà del giudice – intendesse negare alla parità delle parti il ruolo di connotato essenziale dell’intero processo, per concepirla invece come garanzia riferita al solo procedimento probatorio: e ciò al fine di desumerne che l’unico mezzo d’impugnazione, del quale le parti dovrebbero indefettibilmente fruire in modo paritario, sia il ricorso per cassazione per violazione di legge, previsto dall’art. 111, settimo comma, Cost.
Una simile ricostruzione finisce difatti per attribuire al principio di parità delle parti, in luogo del significato di riaffermazione processuale dei principi di cui all’art. 3 Cost., un’antitetica valenza derogatoria di questi ultimi: soluzione tanto meno plausibile a fronte del tenore letterale della norma costituzionale, nella quale la parità delle parti è enunciata come regola generalissima, riferita indistintamente ad «ogni processo» e senza alcuna limitazione a determinati momenti o aspetti dell’iter processuale. Né può trarsi argomento, in contrario, dallo specifico risalto che il legislatore costituzionale ha inteso assegnare al valore del contraddittorio nel processo penale, attestato dalle puntuali “direttive” al riguardo impartite nel quarto e nel quinto comma dell’art. 111 Cost.: non potendosi ritenere, anche sul piano logico, che tale distinto valore – anziché affiancarsi, rafforzandolo, al principio di parità – sia destinato ad esplicare un ruolo limitativo del medesimo; così da legittimare l’idea – palesemente inaccettabile rispetto ad altri tipi di processo, quale, ad esempio, il processo civile – per cui, nel processo penale, la clausola di parità opererebbe solo nei confini del procedimento di formazione della prova.

Ciò posto, la Corte, con le richiamate sentenze, ha ribadito che, anche per quanto attiene alla disciplina delle impugnazioni, parità delle parti non significa, nel processo penale, necessaria omologazione di poteri e facoltà.
Ciò non toglie, tuttavia, che le eventuali menomazioni del potere di impugnazione della pubblica accusa, nel confronto con lo speculare potere dell’imputato, debbano comunque rappresentare – ai fini del rispetto del principio di parità – soluzioni normative sorrette da una ragionevole giustificazione, nei termini di adeguatezza e proporzionalità dianzi lumeggiati: non potendosi ritenere, anche su questo versante – se non a prezzo di svuotare di significato l’enunciazione di detto principio con riferimento al processo penale – che l’evidenziata maggiore “flessibilità” della disciplina del potere di impugnazione del pubblico ministero legittimi qualsiasi squilibrio di posizioni, sottraendo di fatto, in radice, le soluzioni normative in subiecta materia allo scrutinio di costituzionalità.

Non può essere condiviso l’assunto, secondo cui a sostegno della soluzione normativa censurata, si è rilevato, anzitutto, che l’avvenuto proscioglimento in primo grado – rafforzando la presunzione di non colpevolezza – impedirebbe che l’imputato, già dichiarato innocente da un giudice, possa essere considerato da altro giudice colpevole del reato contestatogli «al di là di ogni ragionevole dubbio», secondo quanto richiesto, ai fini della condanna, dall’art. 533, comma 1, cod. proc. pen., come novellato dall’art. 5 della stessa legge n. 46 del 2006. In simile situazione, la reiterazione dei tentativi dello Stato per condannare un individuo già risultato innocente verrebbe dunque ad assumere una connotazione “persecutoria”, contraria ai «principi di uno Stato democratico».
Al riguardo, è peraltro sufficiente osservare come la sussistenza o meno della colpevolezza dell’imputato «al di là di ogni ragionevole dubbio» rappresenti la risultante di una valutazione: e la previsione di un secondo grado di giurisdizione di merito trova la sua giustificazione proprio nell’opportunità di una verifica piena della correttezza delle valutazioni del giudice di primo grado, che non avrebbe senso dunque presupporre esatte, equivalendo ciò a negare la ragione stessa dell’istituto dell’appello. In effetti, se il doppio grado mira a rafforzare un giudizio di “certezza”, esso non può non riflettersi sui diversi approdi decisori cui il giudizio di primo grado può pervenire: quello di colpevolezza, appunto, ma, evidentemente, anche quello – antitetico – di innocenza.
In tale ottica, l’iniziativa del pubblico ministero volta alla verifica dei possibili (ed eventualmente, anche evidenti) errori commessi dal primo giudice, nel negare la responsabilità dell’imputato, non può qualificarsi, in sé, “persecutoria”; essa ha, infatti, come scopo istituzionale quello di assicurare la corretta applicazione della legge penale nel caso concreto e – tramite quest’ultima – l’effettiva attuazione dei principi di legalità e di eguaglianza, nella prospettiva della tutela dei molteplici interessi, connessi anche a diritti fondamentali, a cui presidio sono poste le norme incriminatrici.

Nel recente passato (a fondamento della scelta legislativa del 2006) venne allegata, per altro verso, l’esigenza di uniformare l’ordinamento italiano alle previsioni dell’art. 2 del Protocollo addizionale n. 7 della Convenzione europea per la salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali, adottato a Strasburgo il 22 novembre 1984, ratificato e reso esecutivo con legge 9 aprile 1990, n. 98; nonché dell’art. 14, paragrafo 5, del Patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, adottato a New York il 16 dicembre 1966, ratificato e reso esecutivo con legge 25 ottobre 1977, n. 881.42

Tali norme internazionali pattizie prevedono che ogni persona condannata per un reato ha diritto a che l’accertamento della sua colpevolezza o la condanna siano riesaminati da un tribunale superiore o di seconda istanza: principio che – si sostiene – verrebbe vulnerato nel caso di condanna dell’imputato in secondo grado, conseguente all’appello del pubblico ministero avverso la sentenza di proscioglimento emessa in primo grado.
E’ pur vero che con riguardo ad entrambe le norme, la Corte costituzionale, peraltro, già in precedenza rilevò come il riesame ad opera di un tribunale superiore, da esse previsto a favore dell’imputato, non dovesse necessariamente coincidere con un giudizio di merito, anziché con il ricorso per cassazione; e ciò perché l’obiettivo perseguito è quello di «assicurare comunque un’istanza davanti alla quale fare valere eventuali errori in procedendo o in iudicando commessi nel primo giudizio, con la conseguenza che il riesame nel merito interverrà solo ove tali errori risultino accertati».43

Al riguardo, non è, d’altro canto, senza significato la circostanza che il legislatore costituzionale del 1999 – nel riformulare l’art. 111 Cost., nell’ottica di un suo adeguamento ai principi del «giusto processo» – non sia intervenuto sul tema delle impugnazioni, continuando a riferirsi al ricorso per cassazione per violazione di legge come unico rimedio impugnatorio costituzionalmente imposto.
Dirimente è, peraltro, il rilievo che, alla luce della disciplina – più recente ed analitica di quella del Patto internazionale – dell’art. 2 del Protocollo addizionale n. 7 alla Convezione europea, il diritto della persona dichiarata colpevole di un reato al riesame della «dichiarazione di colpa o di condanna», da parte di un tribunale superiore, può essere oggetto di eccezioni – oltre che «in caso di infrazioni minori» e «in casi nei quali la persona interessata sia stata giudicata in prima istanza da un tribunale della giurisdizione più elevata» – anche quando essa «sia stata dichiarata colpevole e condannata a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento» (paragrafo 2 del citato art. 2). Quest’ultima eccezione presuppone, evidentemente, che la legge interna contempli un potere di impugnazione contra reum, e quindi a favore dell’organo dell’accusa; essa implica pertanto il riconoscimento che tale potere – anche quando si tratti di impugnazione di merito – è compatibile con il sistema di tutela delineato dalla Convenzione e dallo stesso Protocollo, come del resto conferma la legislazione vigente in buona parte dei Paesi dell’Europa continentale.

6. Gli effetti della Disegno di legge sull’assetto sistematico processuale.

Il disegno di legge consente di formulare alcune considerazioni: l’indisponibilità per il pubblico ministero di un rimedio finalizzato a ottenere un nuovo giudizio di fatto in sede di appello discende da un canto, con riguardo alle sentenze di proscioglimento, dallo standard dell’oltre ogni ragionevole dubbio, che promana dall’art. 27, comma 2, Cost., rendendo inconcepibile, sul piano logico, il raggiungimento della certezza processuale dopo un giudizio di proscioglimento, se non in presenza di vizi di motivazione che escludano la riproponibilità della valutazione alternativa e a seguito di una articolata e problematica rinnovazione istruttoria; d’altro canto, per la sentenza di condanna, dalla natura che l’appello si vede riconosciuta nelle fonti internazionali e nel quadro costituzionale, che ne sanciscono, come ricordato, la funzione di tutela del diritto difesa dell’imputato44.

Giova ribadire che la tutela dell’interesse pubblico al controllo di legalità, legittimità e razionalità sulle sentenze di prime cure sarebbe stato ragionevolmente affidato, secondo il progetto di riforma redatto dalla Commissione Lattanzi, alla Corte di cassazione e, soltanto a seguito di annullamento con rinvio andava assicurata la rinnovazione dell’istruzione dibattimentale, con il superamento del meccanismo attualmente previsto dall’art. 603, comma 3-bis, c.p.p., e la conseguente modifica dell’art. 627, comma 2, c.p.p.

A fronte dell’esclusione dell’appello del pubblico ministero conseguirebbe l’inappellabilità della sentenza di prime cure della parte civile: in seno alla Commissione Lattanzi si era, sul punto, discusso ampiamente dell’opportunità di prevedere un appello da proporre direttamente innanzi al giudice d’appello civile, chiamato ad applicare le regole probatorie e di giudizio del processo penale (nel caso del proscioglimento, con minori rischi di conflitto con il recente orientamento dei giudici di Strasburgo45 giacché l’approccio del giudice civile, nella rivisitazione dell’innocenza dell’imputato, asserita in primo grado, potrebbe evitare considerazioni apparentemente lesive della presunzione di innocenza). Si era anche ipotizzato di intervenire nel senso di rivedere la disposizione che impone la sospensione del processo civile «fino alla pronuncia della sentenza penale non più soggetta a impugnazione» quando l’azione fosse stata proposta in sede civile «dopo la costituzione di parte civile nel processo penale o dopo la sentenza penale di primo grado» (art. 75, comma 3, c.p.p.); in tal modo, si finirebbe per controbilanciare l’inappellabilità della sentenza di proscioglimento con il riconoscimento al danneggiato del diritto di trasferire la propria azione davanti al giudice civile, senza subire la sospensione del processo in quella sede. Alla fine, l’orientamento prevalente avrebbe ritenuto sufficiente riconoscere alla parte civile il ricorso ex art. 606 c.p.p., considerato che può anche sfruttare l’immanenza della propria costituzione e sostenere il ricorso per cassazione eventualmente proposto dal pubblico ministero.

Note:

1 C. Marinelli – “Ragionevole durata e prescrizione del processo penale” Giappichelli Editore – Torino 2016, pagg.275 e segg.

2 G. Spangher – L. Suraci “Le impugnazioni penali, modelli processuali, profili sistematici, orientamenti giurisprudenziali”, introduzione – Pacini Giuridica – 2019

3 C. Conti – Il Penalista – Giuffrè Editore – 2021 La l. cost. 23 novembre 1999 n. 2 ha introdotto nell’art. 111 Cost. cinque nuovi commi che consacrano i princìpi del giusto processo. I primi due commi dell’art. 111 Cost. sanciscono principi che non si riferiscono soltanto al processo penale, bensì devono informare di sé, come una sorta di denominatore comune, tutti i processi, nei quali si ravvisa l’esercizio di un potere giurisdizionale. Il comma 1 dell’art. 111 stabilisce che “la giurisdizione si attua mediante il giusto processo regolato dalla legge“. La norma impone una riserva di legge in materia processuale. Si è affermato che il legislatore ha sancito un principio di legalità processuale in qualche modo omologo a quello che vale nel diritto penale sostanziale. Quando l’attuazione di un principio costituzionale consente una pluralità di scelte alternative, il principio della separazione dei poteri impone di ritenere che la lacuna possa essere colmata soltanto dal legislatore.

Oggetto di dibattito è l’espressione giusto processo. Come accade per tutte le più solenni proclamazioni del moderno costituzionalismo, alla notevole portata evocativa si accompagna una qualche vaghezza. La locuzione allude ad un ideale di giustizia, che preesiste rispetto alla legge ed è direttamente collegato ai diritti inviolabili di tutte le persone coinvolte nel processo. In tale ottica, una clausola così generale pare rendere aperto e non tassativo l’elenco dei diritti e delle garanzie sanciti nei commi successivi. Si è infine rilevato che il termine indica gli stessi princìpi successivamente enunciati, visti nel loro dinamico combinarsi in una dimensione concreta e fattuale. In passato la Corte costituzionale aveva sostenuto che il giusto processo fosse una formula nella quale si compendiavano i canoni che la Costituzione dettava in ordine tanto ai caratteri della giurisdizione, sotto il profilo soggettivo e oggettivo, quanto ai diritti di azione e difesa in giudizio (Corte cost. 131/1996).”

4 Il principio di “non dispersione dei mezzi di prova” è un concetto introdotto con la sentenza della Corte Costituzionale n.255/1992 – sul punto: Giorgio Lattanzi – “Il sistema processuale penale e la prova dichiarativa nel quadro dei principi costituzionali” (Intervento all’Incontro di studio tra la Corte costituzionale italiana e i Tribunali costituzionali di Spagna e Portogallo, dal titolo “Scambio di analisi ed esperienze sul rapporto tra le nostre Costituzioni ed i principi penali”; 13-15 ottobre 2011, Madrid/Valencia) .

5 A. Falzea, “Introduzione alle scienze giuridiche”, I, Il concetto del diritto, Milano, 1992, pag.393.

6 Palazzo, Corso di diritto penale. Parte generale, Ed. VI, Torino, 2016, 15

7 A. Falzea, “Introduzione alle scienze giuridiche”, I, Il concetto del diritto, Milano, 1992, pag.393.

8 G.Spangher – L. Suraci “Le impugnazioni penali, modelli processuali, profili sistematici, orientamenti giurisprudenziali”, introduzione – Pacini Giuridica – 2019.

9 Secondo Paliero, Il «ragionevole dubbio» diventa criterio, in G. dir., 2006, 10, 63, il principio dell’oltre ogni ragionevole dubbio «costituisce innegabilmente: in atto, una scelta di civiltà dell’ordinamento italiano; potenzialmente, una rivoluzione copernicana nell’accertamento processuale del fatto e della responsabilità giuridico-penale».

10 Come rileva Paulesu, Presunzione di non colpevolezza, in Dig. disc. pen., IX, 670, l’art. 27, co. 2 Cost. si caratterizza per una evidente polivalenza funzionale, di talché ne esce esaltata tanto la funzione di regola di trattamento quanto la funzione di regola probatoria e di giudizio: «Solo la presunzione di non colpevolezza, quale tassello indefettibile del principio di “stretta giurisdizionalità”, riesce a cogliere la regola dell’onere della prova a carico dell’accusa imponendo di riaffermare l’originaria situazione di innocenza (o di non colpevolezza) nel caso di dubbio insoluto sul fatto».

11 Santoriello: Il vizio di motivazione tra esame di legittimità e giudizio di fatto, Milanofiori Assago, 2008, 56.

12 Conso, Grevi, Neppi Modona, Il nuovo cpp, Dalle leggi delega ai decreti delegati, IV, il progetto preliminare del 1988, Milano, 1990, 1235, cit. pag.110, esaminando le direttive della delega “si ha l’impressione che sia mancata la volontà politica, o la fantasia, di operare scelte volte a ridimensionare drasticamente il tradizionale sistema delle impugnazioni: soprattutto non si è tenuto presente, da un lato, che la Costituzione non attribuisce rilevanza costituzionale all’appello, e, dall’altro, che il processo penale italiano, secondo dati di comune esperienza, è caratterizzato da una utilizzazione eccessiva dei mezzi di impugnazione”

13 Spangher, Impugnazioni penali, in Dig.disc.pen.VI, 218.

14 Kostoris in Riv.dir. proc., 2008, 916 – Le impugnazioni penali, travagliato terreno alla ricerca dei nuovi equilibri.

15 Un altro intervento possiamo considerarlo effettuato in seguito alla L.103/2017 C.D. “Riforma Orlando”, attraverso la modifica dell’art.603 del c.p.p. e l’introduzione del comma 3-bis.

16 F. Nuzzo – L’appello nel processo penale in “Quaderni di Cassazione Penale” – Giuffrè Editore. La frase è di Stella(ndr).

17 G. Leo in “Sistema Penale” 2020 “La Consulta rigetta i dubbi sulla legittimità costituzionale dei nuovi limiti al potere di appello del Pubblico ministero”: “Si tratta della prima importante sentenza della Corte costituzionale sul nuovo regime di appellabilità delle sentenze ad opera del pubblico ministero, come introdotto dal decreto legislativo di attuazione della delega conferita al Governo mediante la cosiddetta legge Orlando (23 giugno 2017, n. 103). In sostanza, il legislatore ha esteso al giudizio ordinario (sia pur con qualche minore restrizione) limiti giàsperimentati con riguardo al giudizio abbreviato, che conformano l’ammissibilità dell’appello del pubblico ministero contro le sentenze di condanna. Occorre infatti che la decisione giudiziale abbia destituito di fondamento una porzione significativa dell’accusa, modificando il titolo del reato oppure escludendo la ricorrenza di circostanze aggravanti dotate di particolare incidenza nel procedimento di determinazione della pena.”

Per effetto della novella, e segnatamente dell’art. 2, comma 1, lettera a), del d.lgs. 6 febbraio 2018, n. 11, il nuovo testo dell’art. 593 c.p.p. stabilisce che il pubblico ministero può appellare contro le sentenze di condanna «solo quando modificano il titolo del reato o escludono la sussistenza di una circostanza aggravante ad effetto speciale o stabiliscono una pena di specie diversa da quella ordinaria del reato». In sostanza, e soprattutto, non è più ammesso un sindacato di merito sulla quantificazione della pena ad opera del giudice di primo grado, e neppure a proposito del riconoscimento di circostanze attenuanti e del loro bilanciamento con circostanze aggravanti.

18 Cfr. Relazione al progetto preliminare del Codice di Procedura Penale.

19 Cfr. sul punto la L.103/2017 in tema di modifica dell’art.568, in uno a Cass.Pen. S.U. 27.10.2016, Galtelli.

20 (Secondo l’ultimo Rapporto CEPEJ la durata stimata è pari a 851 giorni, a fronte della media europea di 155 giorni; Un nuovo rapporto ha individuato una serie di tendenze generali nei sistemi giudiziari di 45 paesi europei. Tra le conclusioni dell’ottavo rapporto di valutazione stilato dalla Commissione europea per l’efficacia della giustizia (CEPEJ) del Consiglio d’Europa figura quanto segue: 1) Stati europei spendono in media € 72 per abitante all’anno nel sistema giuridico; 2) Il numero di donne giudici e pubblici ministeri continua ad aumentare, ma le professioni giuridiche sono ancora svolte prevalentemente da uomini; 3) In media, oggi vi sono 164 avvocati ogni 100.000 abitanti; 4)Il numero dei tribunali è sceso del 10% tra il 2010 e il 2018; 5) I tribunali in tutta Europa hanno potuto continuare a operare durante la pandemia grazie ai recenti progressi della tecnologia dell’informazione. Per la prima volta, il rapporto di valutazione della CEPEJ contiene delle schede paese che permettono al lettore di situare il proprio paese rispetto ad altri paesi europei. Lo scopo della CEPEJ è migliorare l’efficacia e il funzionamento della giustizia nei suoi Stati membri. Si compone di esperti provenienti da tutti i 47 Stati membri del Consiglio d’Europa ed è assistito da un segretariato.

21 La proposta contenuta nella relazione di accompagnamento alla proposta di riforma della Commissione Lattanzi è stata poi stralciata, ripristinando la normativa in precedenza esistente.

22 La riforma dell’art. 111 Cost. è contenuta nella l. cost. 23 novembre 1999 n. 2 (Inserimento dei principi del giusto processo nell’articolo 111 della Costituzione), attuata con l. 25.2.2000 n. 35 (“Conversione in legge, con modificazioni, del d.l.7 gennaio 2000 n. 2, recante disposizioni urgenti per l’attuazione dell’art. 2 della legge costituzionale 23 novembre 1999 n. 2, in materia di giusto processo”).

23 Sul punto: N. Galantini: “Giusto processo e garanzie costituzionale nel contraddittorio nella formazione della prova” in Diritto Penale Contemporaneo. “La rinascita del diritto delle prove sancita dal codice Vassalli e minata dalla sinergica reazione restauratrice della Corte costituzionale e del legislatore dei primi anni ’90, trova un ritorno nella riforma costituzionale dell’art. 111 Cost. Come è noto, l’obiettivo della riaffermazione del metodo autoritativo nella formazione della prova e della vanificazione del principio di separazione funzionale tra le fasi, si era realizzato nelle sentenze della Consulta che, dichiarando illegittimi gli artt. 500, 513 e 195 comma 4 c.p.p., aveva statuito il principio di non dispersione della prova, funzionale al recupero di elementi probatori costituiti unilateralmente dall’accusa. Se in un primo tempo il legislatore ne aveva coltivato il modello con una legislazione emergenziale dettata dalla recrudescenza del fenomeno mafioso, successivamente se ne era discostato attraverso la legislazione del 1997, riappropriandosi se pure in parte dei principi ispiratori del codice e ristabilendo così una propria autonomia anche rispetto alla posizione della magistratura che pareva organica all’approccio offerto dalla giurisprudenza costituzionale. Il rapporto altalenante tra Corte e Parlamento si consuma con la sentenza costituzionale n. 361 del 1998 con la quale, quasi poco dopo l’entrata in vigore del nuovo art. 513 c.p.p., la Consulta indulge alla tendenza revisionista, suscitando la reazione finale che, si ritiene, ha dato luogo alla formulazione del nuovo art. 111 Cost. “

24 E. Amodio, Giusto processo, procès équitable e fair trial: la riscoperta del giusnaturalismo processuale in Europa, in E. Amodio, Processo penale, diritto europeo e common law, dal rito inquisitorio al giusto processo, Milano, 2003, p. 141.

25 Cfr. Corte Costituzionale, sent. n.85/2008, nei giudizi di legittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), sostitutivo dell’art. 593 del codice di procedura penale, e dell’art. 10 della stessa legge, promossi con ordinanze del 26 aprile 2006 dalla Corte d’appello di Roma, del 9 febbraio 2007 dalla Corte d’appello di Bologna e del 30 marzo 2007 dalla Corte d’appello di Bari, rispettivamente iscritte ai nn. 543, 668 e 742 del registro ordinanze 2007 e pubblicate nella Gazzetta Ufficiale della Repubblica nn. 32, 39 e 44, prima serie speciale dell’anno 2007, con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 1 della legge 20 febbraio 2006, n. 46 (Modifiche al codice di procedura penale, in materia di inappellabilità delle sentenze di proscioglimento), nella parte in cui, sostituendo l’art. 593 del codice di procedura penale, esclude che l’imputato possa appellare contro le sentenze di proscioglimento relative a reati diversi dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, fatta eccezione per le ipotesi previste dall’art. 603, comma 2, del medesimo codice, se la nuova prova è decisiva; nonché l’illegittimità costituzionale dell’art. 10, comma 2, della citata legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui prevede che l’appello proposto prima dell’entrata in vigore della medesima legge dall’imputato, a norma dell’art. 593 del codice di procedura penale, contro una sentenza di proscioglimento, relativa a reato diverso dalle contravvenzioni punite con la sola ammenda o con pena alternativa, sia dichiarato inammissibile.

26 Cfr. L.Varrecchione L’inapplicabilità dell’obbligo di rinnovazione dell’istruzione dibattimentale in appello ex art. 603, c. 3-bis c.p.p. nel caso di c.d. doppia conforme di assoluzione. In Penale – Diritto e Procedura, Pacini Giuridica.

27 Cfr. tra le tante Corte EDU sentenza 05.07.2011, Dan c. Moldavia; sentenza 29.06.2017, Lorefice c. Italia.

28 Cfr. Cass. Pen. Sez. Un. n. 27620/2016, Dasgupta.

29 Cfr. Cass. Pen. Sez. V, 22 luglio 2020 (dep. 11 settembre 2020), n. 25949 

30 Cfr. Corte Cost. sent. 34/2020.

31 Cfr. sentenze n. 34 del 2020, n. 183 del 2017, n. 242 del 2009, n. 298 del 2008 e n. 280 del 1995; ordinanze n. 165 del 2003 e n. 347 del 2002.

32 F.Alvino “Nel cantiere del rito che verrà: l’inappellabilità delle sentenze di proscioglimento da parte del Pubblico Ministero nelle proposte di riforma della Commissione Lattanzi” in Legislazione Penale.

33 C. cost., 6.2.2007 n. 26; Id. 25.7.2007 n. 320; Id. 4.3.2020 n. 34.

34 Cfr., per tutti, F. Stella, Sul divieto per il pubblico ministero di proporre appello contro le sentenze di assoluzione, in CP 2004, 759; P. Ferrua, La sentenza costituzionale sull’inappellabilità del proscioglimento e il diritto al “riesame” dell’imputato, in DPP 2007, 611 ss.

35 La Corte Costituzionale con sentenza n.320/2007 ha stabilito che: “ E’ costituzionalmente illegittimo, per contrasto con l’art. 111, secondo comma, Cost., ed assorbiti gli ulteriori profili di censura, l’art. 2 della legge 20 febbraio 2006, n. 46, nella parte in cui, modificando l’art. 443, comma 1, cod. proc. pen., esclude che il pubblico ministero possa appellare contro le sentenze di proscioglimento emesse a seguito di giudizio abbreviato. Come già affermato nella sent. n. 26 del 2007, che ha dichiarato l’incostituzionalità dell’art. 1 della medesima legge nella parte in cui rimuoveva il potere di appello del PM contro le sentenze di proscioglimento pronunciate nel giudizio ordinario, anche la norma in oggetto racchiude una dissimmetria radicale fra i poteri delle parti necessarie del processo penale, poiché, a differenza dell’imputato, che rimane abilitato ad appellare le sentenze che affermino la sua responsabilità, il pubblico ministero viene totalmente privato del simmetrico potere di proporre doglianze di merito avverso la pronuncia che disattenda in modo integrale la pretesa punitiva, senza che tale ablazione possa venir giustificata dall’obiettivo di assicurare una maggiore celerità nella definizione dei processi svoltisi in primo grado con il rito abbreviato, considerato, altresì, che il valore della ragionevole durata del processo va contemperato con il complesso delle altre garanzie costituzionali e non può essere perseguito attraverso la totale soppressione di rilevanti facoltà di una sola delle parti.”

36 Cfr. Ordinanza n.46/2004 della Corte Cost. in relazione alla questione di legittimità costituzionale degli artt. 443, comma 3, e 595 del codice di procedura penale, nella parte in cui escludevano l’appello incidentale del pubblico ministero contro le sentenze di condanna pronunciate a seguito di giudizio abbreviato. Sul punto la Corte ha “dichiara(to) la manifesta infondatezza della questione di legittimità costituzionale degli artt. 443, comma 3, e 595 del codice di procedura penale, sollevata, in riferimento all’art. 111, secondo comma, della Costituzione, dalla Corte di appello di Venezia con l’ordinanza in epigrafe.”

37 Il paragrafo 2 dell’art.2 del Protocollo addizionale n.7 della CEDU prevede testualmente che: “Tale diritto potrà essere oggetto di eccezioni in caso di infrazioni minori come stabilito da legge o in casi nei quali la persona interessata sia stata giudicata in prima istanza da un Tribunale della giurisdizione più elevata o sia stata dichiarata colpe- vole e condannata a seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento”.

38 Cfr. ordinanze n. 110 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001.

39 Cfr.ex plurimis, sentenze n. 98 del 1994, n. 432 del 1992 e n. 363 del 1991; ordinanze n. 426 del 1998, n. 324 del 1994 e n. 305 del 1992.

40 Cfr.ordinanze n. 46 del 2004, n. 165 del 2003, n. 347 del 2002 e n. 421 del 2001.

41 Si vedano le sentenze n. 115 del 2001 e n. 98 del 1994.

42 Ratifica ed esecuzione del patto internazionale relativo ai diritti economici, sociali e culturali, nonche’ del patto internazionale relativo ai diritti civili e politici, con protocollo facoltativo, adottati e aperti alla firma a New York rispettivamente il 16 e il 19 dicembre 1966.

43 Cfr. sentenza n. 288 del 1997; si veda, altresì, la sentenza n. 62 del 1981.

44 Cfr. Corte cost. 34/2020, § 3.2.

45 Cfr. sent. Corte EDU Pasquini c. San Marino del 20.10.2020, secondo cui Viola il diritto alla presunzione di innocenza il provvedimento con cui il giudice d’appello dopo aver prosciolto  l’imputato per intervenuta prescrizione del reato di appropriazione indebita del quale era stato riconosciuto colpevole in primo grado, decide il risarcimento a favore della parte civile ricorrendo a osservazioni incoerenti con il venire meno delle accuse in ragione della scadenza del termine di prescrizione. In particolare, la garanzia  di cui all’art. 6, § 2, CEDU esige che ove il procedimento registri un esito diverso dalla condanna, poiché il soggetto è stato assolto oppure il procedimento stesso  interrotto, tale esito sia rispettato in qualsiasi altro procedimento, al fine di preservare la reputazione della persona e la percezione che ha il pubblico della persona medesima. Ciò comporta, secondo orientamento consolidato dei Giudici europei (Corte e.d.u., Grande Camera, 12 luglio 2013, Allen c. Regno Unito), che la formulazione del ragionamento giudiziale ai fini della pronuncia sulla domanda civile, non possa essere interpretata come imputazione di responsabilità penale nei confronti del prosciolto. Nel caso esaminato, invece, il giudice d’appello sammarinese nel verificare la fondatezza delle pretese civilistiche, ha ritenuto la condotta del ricorrente  di  tipo appropriativo e commessa con dolo; per queste ragioni, la Corte di Strasburgo ritiene che  le affermazioni cosi formulate si siano risolte in autentiche e  inequivocabili dichiarazioni di responsabilità penale, in spregio al principio consacrato nella  norma convenzionale richiamata.”

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