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LICENZIAMENTO PER GIUSTIFICATO MOTIVO: REINTEGRAZIONE DEL LAVORATORE

CORTE COSTITUZIONALE 24 febbraio 2021, SENTENZA n.59 (Data deposito in cancelleria 1 aprile 2021)

 

Giudizio di legittimita’ costituzionale in via incidentale. Lavoro e occupazione – Licenziamento del lavoratore per giustificato motivo oggettivo – Manifesta insussistenza del fatto contestato – Possibilita’, anziche’ necessita’, per il giudice, di reintegrare il lavoratore nel posto di lavoro – Intrinseca irragionevolezza e violazione del principio di uguaglianza – Illegittimita’ costituzionale parziale. – Legge 20 maggio 1970, n. 300, art. 18, settimo comma, secondo periodo. – Costituzione, artt. 3, 24, 41 e 111, secondo comma. (T-210059) (GU n. 14 del 07-04-2021)

 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giancarlo CORAGGIO; 
Giudici :Silvana SCIARRA, Daria  de  PRETIS,  Nicolo'  ZANON,  Franco
  MODUGNO, Augusto  Antonio  BARBERA,  Giulio  PROSPERETTI,  Giovanni
  AMOROSO, Francesco VIGANO', Luca ANTONINI, Stefano PETITTI,  Angelo
  BUSCEMA, Emanuela NAVARRETTA, Maria Rosaria SAN GIORGIO, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 18, settimo
comma, secondo periodo, della legge 20 maggio  1970,  n.  300  (Norme
sulla tutela della liberta' e dignita' dei lavoratori, della liberta'
sindacale e dell'attivita' sindacale, nei luoghi di  lavoro  e  norme
sul collocamento), come modificato dall'art. 1, comma 42, lettera b),
della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma
del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita), promosso  dal
Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di  giudice  del  lavoro,
nel procedimento instaurato da CFS  Europe  srl  contro  M.  P.,  con
ordinanza del 7 febbraio  2020,  iscritta  al  n.  101  del  registro
ordinanze 2020, pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica
n. 36, prima serie speciale, dell'anno 2020. 
    Visto l'atto di  intervento  del  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri; 
    udito nella camera di consiglio del 24 febbraio 2021  il  Giudice
relatore Silvana Sciarra; 
    deliberato nella camera di consiglio del 24 febbraio 2021. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 7 febbraio 2020, iscritta  al  n.  101  del
registro ordinanze  2020,  il  Tribunale  ordinario  di  Ravenna,  in
funzione di giudice del lavoro, ha  sollevato,  in  riferimento  agli
artt. 3, primo comma, 41, primo comma, 24 e 111, secondo comma, della
Costituzione, questione di legittimita' costituzionale dell'art.  18,
settimo comma, secondo periodo, della legge 20 maggio  1970,  n.  300
(Norme sulla tutela della liberta' e dignita' dei  lavoratori,  della
liberta' sindacale e dell'attivita' sindacale, nei luoghi di lavoro e
norme sul collocamento), «nella parte in cui prevede che, in  ipotesi
in cui il giudice accerti la  manifesta  insussistenza  di  un  fatto
posto a fondamento  di  un  licenziamento  per  G.M.O.  [giustificato
motivo oggettivo], "possa" e non "debba" applicare la tutela  di  cui
al 4° comma dell'art. 18 (reintegra)». 
    1.1.- Il rimettente espone di dover decidere sull'opposizione  di
un datore di lavoro contro l'ordinanza che, a conclusione della  fase
sommaria del cosiddetto "rito Fornero", ha reintegrato un lavoratore,
licenziato «nel giro di alcuni mesi» due volte per giusta causa e una
volta per giustificato motivo oggettivo. L'opponente non ha impugnato
le statuizioni relative ai licenziamenti per giusta causa e si  duole
unicamente del licenziamento per giustificato motivo oggettivo e  dei
provvedimenti di reintegrazione adottati a tale riguardo dal  giudice
della fase sommaria. 
    La societa' datrice di lavoro ha chiesto di respingere le domande
del  lavoratore  e  di  condannarlo  alla  restituzione  delle  somme
incassate per effetto dell'ordinanza provvisoriamente esecutiva, o di
limitare l'accoglimento delle domande  «ai  minimi  indennitari».  Il
lavoratore,   in   via   riconvenzionale,   ha    chiesto    l'esatta
determinazione dell'indennita' sostitutiva della  reintegrazione  che
ha  scelto  di  ottenere,  dopo  l'ordinanza  conclusiva  della  fase
sommaria. 
    In punto  di  rilevanza,  il  giudice  a  quo  evidenzia  che  la
disposizione censurata «viene in diretta  ed  immediata  applicazione
nel  caso   di   specie»,   concernente   un'ipotesi   di   manifesta
insussistenza del fatto posto  a  fondamento  del  licenziamento  per
giustificato motivo oggettivo. 
    Ne' la rilevanza delle questioni potrebbe essere esclusa  per  il
sol fatto che il lavoratore abbia optato per l'indennita' sostitutiva
della reintegrazione, in quanto il giudice sarebbe comunque  chiamato
a  decidere   tra   una   tutela   reintegratoria,   pur   sostituita
dall'indennita', e una tutela meramente indennitaria. 
    1.2.- In punto  di  non  manifesta  infondatezza,  il  rimettente
osserva che la disposizione censurata, in quanto caratterizzata da un
tenore letterale inequivocabile, non si presta a una  interpretazione
adeguatrice. 
    Il diniego della reintegrazione, che la  legge  non  subordina  a
criteri di sorta, rappresenterebbe un nuovo  licenziamento,  intimato
dal giudice sulla base di una valutazione ampiamente discrezionale. 
    Il carattere meramente facoltativo della reintegrazione lederebbe
il principio di eguaglianza (art. 3 Cost.), in quanto, per effetto di
una  «insindacabile  e  libera  scelta  del  datore  di   lavoro   di
qualificare in un modo o nell'altro l'atto espulsivo», determinerebbe
un'arbitraria disparita' di trattamento  tra  «situazioni  del  tutto
identiche, ossia il licenziamento per giusta causa e il licenziamento
per giustificato motivo oggettivo  dei  quali  si  sia  accertata  in
giudizio l'infondatezza (addirittura la manifesta infondatezza per il
G.M.O.)». 
    La disposizione  censurata  violerebbe  anche  l'art.  41  Cost.,
poiche' attribuirebbe al datore di lavoro «un  potere  di  scelta  di
tipo   squisitamente    imprenditoriale»,    che    si    tradurrebbe
nell'intimazione di «un nuovo ed autonomo atto espulsivo». 
    Il giudice a quo prospetta, inoltre, il contrasto con  l'art.  24
Cost., che tutela il diritto di agire in giudizio. Il lavoratore  «si
troverebbe  esposto  all'esercizio   di   una   facolta'   giudiziale
totalmente discrezionale», senza avere alcuna facolta' di difendersi. 
    L'art. 24 Cost., in  connessione  con  l'art.  3  Cost.,  sarebbe
violato anche perche' l'insindacabile qualificazione  del  datore  di
lavoro condizionerebbe «le tutele del lavoratore». 
    Inoltre, il nuovo licenziamento, che il giudice intima  allorche'
nega  la  reintegrazione,  sarebbe  assoggettato  a  un   trattamento
«ingiustificatamente differente  e  deteriore»  rispetto  agli  altri
licenziamenti  determinati  in  generale  dal   giustificato   motivo
oggettivo  e,  in  particolare,  da  un  motivo  legato  agli  stessi
mutamenti organizzativi che precludono la tutela  reintegratoria.  Ad
avviso del rimettente,  non  sarebbero  rispettate  le  procedure  di
garanzia previste dall'art. 7 della legge  15  luglio  1966,  n.  604
(Norme sui licenziamenti  individuali)  e  sarebbe  ammessa  la  sola
impugnativa in sede di gravame, con  conseguente  «abolizione  di  un
grado di giudizio». 
    Sarebbe compromessa anche la terzieta'  del  giudice  (art.  111,
secondo comma, Cost.), costretto a vestire i panni  dell'imprenditore
e a compiere «un'opzione di gestione dell'impresa». 
    2.- E' intervenuto nel giudizio il Presidente del  Consiglio  dei
ministri,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura  generale  dello
Stato, e ha chiesto di dichiarare inammissibile o comunque  infondata
la questione sollevata dal Tribunale di Ravenna. 
    2.1.- La questione sarebbe inammissibile per un  triplice  ordine
di ragioni. 
    2.1.1.-  Il  rimettente,  anzitutto,   non   avrebbe   dimostrato
l'effettivo e concreto rapporto di strumentalita' fra la  risoluzione
della questione di legittimita' costituzionale e la  definizione  del
giudizio principale e non avrebbe descritto in  maniera  adeguata  la
fattispecie concreta sottoposta al suo esame. 
    2.1.2.- Il giudice a quo, in secondo luogo, avrebbe trascurato di
interpretare  la  disposizione  censurata  in  senso  conforme   alla
Costituzione. 
    2.1.3.- L'Avvocatura generale dello Stato  ha  eccepito,  infine,
l'inammissibilita'  della  questione  per  il  carattere  additivo  o
manipolativo del petitum, in un contesto in cui  non  si  riscontrano
«vincoli costituzionali positivi in  merito  al  tipo  di  tutela  da
accordare al lavoratore illegittimamente licenziato». 
    2.2.-  Quanto  al  merito,  la  questione  non  sarebbe  comunque
fondata. 
    2.2.1.- Le censure muoverebbero dall'assunto dell'omogeneita' tra
la giusta causa o il giustificato motivo soggettivo, da un lato, e il
giustificato motivo oggettivo, dall'altro. 
    Tale assunto, tuttavia, non sarebbe condivisibile. Se  la  giusta
causa e  il  giustificato  motivo  soggettivo  si  riconnettono  alle
condotte del lavoratore, il giustificato motivo oggettivo investe  la
«sfera organizzativa del datore  di  lavoro».  L'eterogeneita'  delle
fattispecie impedirebbe dunque di porle a raffronto. 
    Le censure di violazione dell'art. 3  Cost.  sarebbero  infondate
anche perche' il giudice ben potrebbe disattendere una qualificazione
pretestuosa, che non rispecchi le reali ragioni  giustificatrici  del
licenziamento. 
    2.2.2.- L'Avvocatura non ravvisa alcun contrasto  con  l'art.  41
Cost. 
    La disposizione censurata,  nel  richiedere  una  valutazione  di
compatibilita' della reintegrazione  con  le  esigenze  organizzative
dell'impresa, sarebbe coerente con le indicazioni del giudice a  quo,
che auspica  una  limitazione  del  sindacato  giurisdizionale  sulle
scelte imprenditoriali. Il richiamo  all'eccessiva  onerosita'  della
reintegrazione, unito al requisito della manifesta insussistenza  del
fatto posto a base del  licenziamento,  intenderebbe  scongiurare  il
rischio di «un'intromissione diretta  ed  incondizionata  del  potere
giurisdizionale nelle scelte organizzative dell'impresa». 
    2.2.3.-  Sarebbero  infondate,  infine,  anche  le   censure   di
violazione della terzieta' e  dell'imparzialita'  del  giudice  (art.
111, secondo comma, Cost.). 
    La disposizione censurata  non  attribuirebbe  al  giudice  alcun
potere di licenziare ex novo  il  lavoratore,  ma  subordinerebbe  il
potere di ripristinare il  rapporto  di  lavoro  preesistente  a  una
valutazione  ulteriore   sulla   compatibilita'   con   le   esigenze
organizzative  dell'impresa.  Lungi  dallo  schierarsi  dalla   parte
dell'imprenditore, il  giudice  si  limiterebbe  a  contemperare  «le
esigenze di tutela del lavoratore e quelle organizzative  del  datore
di lavoro». 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Con l'ordinanza indicata in epigrafe (r.o. n. 101 del  2020),
il Tribunale ordinario di Ravenna, in funzione di giudice del lavoro,
dubita della legittimita' costituzionale dell'art. 18, settimo comma,
secondo periodo, della legge 20 maggio  1970,  n.  300  (Norme  sulla
tutela della liberta'  e  dignita'  dei  lavoratori,  della  liberta'
sindacale e dell'attivita' sindacale, nei luoghi di  lavoro  e  norme
sul collocamento), nella parte in cui prevede che il giudice,  quando
accerti la  manifesta  insussistenza  del  fatto  posto  a  base  del
licenziamento per giustificato motivo oggettivo, possa - e non  debba
- disporre la reintegrazione del lavoratore. 
    1.1.- Il rimettente denuncia, anzitutto, il contrasto con  l'art.
3 della Costituzione, alla luce  del  «trattamento  irragionevolmente
discriminatorio» che il legislatore avrebbe riservato  a  «situazioni
identiche». La reintegrazione,  obbligatoria  nel  licenziamento  per
giusta  causa  nell'ipotesi  di  insussistenza  del  fatto,   sarebbe
meramente facoltativa e sarebbe  subordinata  a  una  valutazione  in
termini  di  non   eccessiva   onerosita'   nella   fattispecie   del
licenziamento  per  giustificato  motivo  oggettivo,   che   peraltro
presuppone una insussistenza manifesta del fatto e una iniziativa del
datore di lavoro «del tutto pretestuosa». 
    Dall'insindacabile scelta del datore di lavoro di qualificare  il
licenziamento come determinato da  giusta  causa  o  da  giustificato
motivo oggettivo deriverebbe «una distinzione estremamente  rilevante
in punto della tutela del  lavoratore».  Neppure  le  diversita'  che
intercorrono tra la giusta causa e il giustificato  motivo  oggettivo
potrebbero  spiegare  tale  distinzione,  poiche',  nell'ipotesi   di
insussistenza del  fatto,  si  configura  in  ogni  caso  un  recesso
illegittimo, a prescindere  dalle  ragioni  addotte,  attinenti  alla
giusta causa o al giustificato motivo oggettivo. 
    Il rimettente osserva che, nel  caso  di  specie,  non  viene  in
rilievo il tema della «mancanza di copertura  costituzionale  per  la
reintegra», ma l'arbitraria disparita' di trattamento tra  situazioni
identiche negli elementi costitutivi. Una volta che abbia  scelto  di
disporre  la  tutela  reintegratoria  al  ricorrere  di   determinati
presupposti, il legislatore non potrebbe  introdurre  «ingiustificati
trattamenti differenziati tra situazioni identiche». 
    Il fatto che il lavoratore possa optare - come  e'  avvenuto  nel
giudizio principale e come spesso avviene nella  pratica  -  per  una
indennita'    sostitutiva    della    reintegrazione    dimostrerebbe
«l'irragionevolezza del sistema complessivamente adottato». In questo
caso, difatti,  il  richiamo  all'eccessiva  onerosita'  non  sarebbe
pertinente. Anche da questo punto di vista, emergerebbe l'inidoneita'
del criterio indicato a indirizzare la scelta del giudice. 
    1.2.- Il rimettente argomenta che  il  potere  discrezionale  del
giudice  di  disporre  o  negare  la  reintegrazione,  «nell'assoluta
mancanza  di  criteri  normativi   in   base   ai   quali   orientare
l'interprete»,  si   configura   come   un   potere   «essenzialmente
assimilabile all'esercizio dell'attivita' di impresa». Il legislatore
sacrificherebbe  la  liberta'  dell'iniziativa   economica   privata,
tutelata dall'art. 41 Cost., e porrebbe  «limiti  proprio  ai  limiti
all'iniziativa  economica  privata»,  che   la   Carta   fondamentale
individua  nel  rispetto  della  sicurezza,  della  liberta',   della
dignita' umana. 
    Nel   negare   la   tutela   reintegratoria   allorche'   risulti
eccessivamente onerosa, il giudice intimerebbe «un ulteriore e  nuovo
licenziamento per giustificato motivo oggettivo» e compirebbe «scelte
organizzative riservate all'imprenditore». 
    1.3.- Il giudice a  quo,  inoltre,  censura  l'art.  18,  settimo
comma, secondo periodo,  dello  statuto  dei  lavoratori,  in  quanto
lesivo dell'art. 24 Cost. 
    La disposizione in esame, nell'attribuire al giudice il potere di
disporre un  nuovo  licenziamento,  pregiudicherebbe  il  diritto  di
difesa delle parti, che  non  sarebbero  poste  nelle  condizioni  di
interloquire  sulla  compatibilita'  della  reintegrazione   con   le
esigenze organizzative aziendali, «nel mezzo di un processo avente un
altro oggetto». 
    L'art. 24 Cost., in  connessione  con  l'art.  3  Cost.,  sarebbe
violato sotto due ulteriori profili. 
    Il  diritto  di  azione  del  lavoratore  sarebbe  «ingiustamente
sacrificato e ostacolato dalla scelta, operata dalla legge ordinaria,
di fare dipendere le tutele del lavoratore dalla  mera  insindacabile
(nemmeno ex post) volonta' qualificatoria datoriale». 
    Inoltre, il licenziamento, che il giudice intima  allorche'  nega
la    tutela    reintegratoria,    riceverebbe     un     trattamento
«ingiustificatamente differente e deteriore [...]  rispetto  ad  ogni
altro normale licenziamento intimato dal datore di  lavoro»  e  anche
rispetto ai licenziamenti per giustificato motivo oggettivo, intimati
sulla base di quello stesso mutamento organizzativo che  ha  precluso
l'applicazione della tutela reintegratoria. Il licenziamento disposto
ope iudicis, difatti,  non  sarebbe  rispettoso  delle  procedure  di
garanzia previste dall'art. 7 della legge  15  luglio  1966,  n.  604
(Norme sui licenziamenti individuali)  e  potrebbe  essere  impugnato
solo in sede di gravame contro la  decisione  del  giudice  che  l'ha
intimato, con la conseguente perdita di un grado di giudizio. 
    1.4.- Il giudice a quo denuncia, infine, il contrasto con  l'art.
111, secondo comma, Cost. e con i principi del giusto processo. 
    La disposizione censurata imporrebbe al giudice di  ricoprire  il
ruolo di una parte in  causa,  e  in  particolare  dell'imprenditore,
senza neppure indicare  «i  criteri  ai  quali  il  giudice  dovrebbe
attenersi». Sarebbe compromessa, pertanto, la terzieta' del giudice. 
    2.-  Occorre  esaminare,   preliminarmente,   le   eccezioni   di
inammissibilita' formulate nell'atto di intervento. 
    2.1.-  Secondo  il  Presidente  del   Consiglio   dei   ministri,
intervenuto  in  giudizio,  rappresentato  e  difeso  dall'Avvocatura
generale dello Stato, la questione sarebbe inammissibile per  carente
motivazione in ordine al requisito della rilevanza. 
    2.1.1.- Il rimettente non avrebbe  dimostrato  la  necessita'  di
applicare la previsione censurata per decidere su una o piu'  domande
formulate  nel  giudizio  principale  e  non  avrebbe  offerto  alcun
ragguaglio sull'incidenza di una eventuale pronuncia di  accoglimento
sugli esiti della controversia. Il giudice a quo  avrebbe  omesso  di
far luce  sull'imprescindibile  rapporto  di  strumentalita'  tra  la
soluzione del  dubbio  di  costituzionalita'  e  la  definizione  del
giudizio principale. 
    Anche la descrizione della fattispecie concreta sarebbe lacunosa. 
    Il giudice a quo non avrebbe svolto alcun rilievo in merito  alla
illegittimita'   del   licenziamento   impugnato,   alla    manifesta
insussistenza   del   fatto   addotto   come   giustificazione    del
licenziamento stesso, alla necessita' di  applicare  la  disposizione
che esclude il rimedio della reintegrazione e impone  di  riconoscere
una tutela meramente indennitaria. 
    2.1.2.- La motivazione in ordine alla rilevanza  non  presenta  i
profili di inammissibilita' eccepiti dalla difesa dello Stato. 
    Questa Corte ha affermato che «[a]nche nella  prospettiva  di  un
piu' diffuso accesso al sindacato di costituzionalita'  (sentenza  n.
77 del 2018, punto 8 del  Considerato  in  diritto)  e  di  una  piu'
efficace garanzia della conformita'  della  legislazione  alla  Carta
fondamentale,  il  presupposto  della  rilevanza  non  si  identifica
nell'utilita'  concreta  di  cui  le  parti   in   causa   potrebbero
beneficiare (sentenza n. 20 del 2018,  punto  2  del  Considerato  in
diritto)» (sentenza n. 174 del 2019, punto 2.1.  del  Considerato  in
diritto). 
    La rilevanza  si  configura  come  «necessita'  di  applicare  la
disposizione censurata nel percorso argomentativo  che  conduce  alla
decisione e si riconnette all'incidenza  della  pronuncia  di  questa
Corte su qualsiasi tappa di tale percorso» (sentenza n. 254 del 2020,
punto  4.2.  del  Considerato  in  diritto).  L'applicabilita'  della
disposizione censurata e' dunque sufficiente a fondare  la  rilevanza
della questione proposta (fra le molte, sentenza  n.  174  del  2016,
punto 2.1. del Considerato in diritto). 
    Nella vicenda oggi sottoposta  al  vaglio  di  questa  Corte,  il
giudice a quo ha descritto la fattispecie concreta in modo  idoneo  a
suffragare   il   requisito   della   rilevanza   del    dubbio    di
costituzionalita'. 
    Il rimettente riferisce che il giudizio principale verte  in  via
esclusiva su una fattispecie di licenziamento per giustificato motivo
oggettivo. L'opponente non ha coltivato le contestazioni relative  ai
due licenziamenti intimati per giusta causa e annullati  dal  giudice
della fase sommaria, con conseguente reintegrazione del lavoratore. 
    Nella fase sommaria e' stata accertata la manifesta insussistenza
del fatto dedotto dal datore di lavoro a sostegno  del  licenziamento
per giustificato motivo oggettivo e - su questo tema controverso - si
dispiegano le argomentazioni delle  parti  nella  fase  a  cognizione
piena introdotta dall'opposizione. 
    Il giudice a  quo  soggiunge  che  le  parti  non  contestano  la
necessita' di applicare la  previsione  censurata,  anche  alla  luce
della data di assunzione del ricorrente  (2001)  e  delle  dimensioni
dell'impresa, che occupa circa cinquanta dipendenti. 
    Secondo  il  rimettente,  la   rilevanza   della   questione   di
legittimita' costituzionale non e' scalfita neppure dalla scelta  del
lavoratore   di    conseguire    l'indennita'    sostitutiva    della
reintegrazione. 
    La valutazione del giudice a quo, avvalorata da una pluralita' di
argomenti, non e'  implausibile  e  supera,  pertanto,  il  controllo
"esterno" demandato a questa  Corte  in  ordine  al  requisito  della
rilevanza (da ultimo, sentenza n.  32  del  2021,  punto  2.1.1.  del
Considerato in diritto). 
    Le contrapposte domande  delle  parti  -  quella  del  datore  di
lavoro, volta a ottenere la restituzione dell'indennita' corrisposta,
e  quella  del  lavoratore,   concernente   l'esatta   determinazione
dell'importo dovuto - presuppongono la valutazione  della  fondatezza
della domanda di reintegrazione nell'ambito del giudizio  incardinato
con l'opposizione di cui all'art. 1, comma 51, della legge 28  giugno
2012, n. 92 (Disposizioni in  materia  di  riforma  del  mercato  del
lavoro in una prospettiva di crescita). 
    Ai fini della decisione della controversia, e' dunque ineludibile
l'applicazione  della   disposizione   censurata,   che   delinea   i
presupposti della reintegrazione in un licenziamento per giustificato
motivo oggettivo quale e' quello dedotto -  per  concorde  ammissione
delle parti - nel giudizio principale.  Tanto  basta  a  radicare  la
rilevanza della questione. 
    2.2.- L'Avvocatura dello Stato imputa al rimettente di non  avere
sperimentato  una  interpretazione   adeguatrice   della   previsione
censurata. 
    2.2.1.- Il giudice a quo  si  sarebbe  limitato  a  enucleare  il
significato letterale dell'art. 18, settimo comma,  secondo  periodo,
dello   statuto    dei    lavoratori,    senza    confrontarsi    con
un'interpretazione sistematica mediante un «ragionevole e  bilanciato
potere esegetico». La questione sarebbe, pertanto, inammissibile. 
    2.2.2.- Neppure tale eccezione e' fondata. 
    Ai  fini  dell'ammissibilita'  della  questione  di  legittimita'
costituzionale, e' necessario e sufficiente  che  il  giudice  a  quo
abbia esplorato la praticabilita' di una interpretazione  adeguatrice
e l'abbia consapevolmente esclusa (da  ultimo,  sentenza  n.  32  del
2021, punto 2.3.1. del Considerato  in  diritto),  alla  luce  di  un
accurato esame delle  alternative  che  si  profilano  nel  dibattito
ermeneutico (sentenza n. 123 del 2020, punto 3.3.1.  del  Considerato
in diritto). 
    Se  l'interpretazione  prescelta  dal  rimettente  sia  la   sola
persuasiva, e' profilo che  non  attiene  all'ammissibilita',  ma  al
merito della questione  di  legittimita'  costituzionale  e  -  nello
scrutinio del merito - dovra' essere esaminato (sentenza  n.  95  del
2016, punto 2.2. del Considerato in diritto). 
    Il rimettente muove dalla premessa che la disposizione  censurata
sia contraddistinta da un significato letterale inequivocabile e  che
l'interpretazione costituzionalmente orientata  si  risolva  in  «una
interpretazione  chiaramente  abrogatrice  di  un   chiaro   precetto
normativo»,   in   contrasto   con   il   sindacato   accentrato   di
costituzionalita'. 
    Il giudice a quo mostra di recepire l'interpretazione accreditata
dalla «giurisprudenza di legittimita' maggioritaria»,  che  riconosce
il potere discrezionale di negare la reintegrazione,  «se  la  tutela
reintegratoria  sia,  al  momento  di  adozione   del   provvedimento
giudiziale,   sostanzialmente   incompatibile   con   la    struttura
organizzativa  medio  tempore   assunta   dall'impresa»   (Corte   di
cassazione, sezione lavoro, sentenza 2 maggio 2018, n. 10435). 
    Il Tribunale di  Ravenna  non  reputa  condivisibile  il  diverso
indirizzo,   «numericamente   minoritario»,   che   configura    come
obbligatoria   la   reintegrazione   nelle   ipotesi   di   manifesta
insussistenza  del  fatto  (Corte  di  cassazione,  sezione   lavoro,
sentenze 13 marzo 2019, n. 7167 e 14 luglio  2017,  n.  17528)  e  si
traduce in  «una  interpretazione  essenzialmente  abrogativa  di  un
testuale elemento normativo». 
    All'esito   di   un   circostanziato    esame    delle    diverse
interpretazioni prospettate, il giudice ha escluso la  sostenibilita'
di un'interpretazione adeguatrice e ha cosi' ottemperato  in  maniera
adeguata all'onere di attribuire  alla  disposizione  un  significato
conforme ai principi costituzionali. 
    Anche da questa angolazione, pertanto, non si ravvisano  ostacoli
alla disamina del merito. 
    2.3.- La questione sarebbe inammissibile, anche perche' formulata
in modo da  ottenere  «una  pronuncia  additiva  o  manipolativa  non
costituzionalmente obbligata» in un ambito in cui il legislatore gode
di un'ampia discrezionalita'. 
    2.3.1.-  La  scelta  della  tutela  che  spetta   al   lavoratore
illegittimamente  licenziato  sarebbe   demandata   all'apprezzamento
discrezionale del legislatore. Il riconoscimento della reintegrazione
rappresenterebbe  «solamente   una   delle   molteplici   alternative
prospettabili». 
    2.3.2.- Anche tale eccezione non e' fondata. 
    Il   rimettente   sollecita   in   maniera   puntuale,   mediante
l'indicazione  di  un  chiaro  termine  di  raffronto,   l'intervento
correttivo di questa Corte,  che  dovrebbe  ripristinare,  in  ordine
all'obbligatorieta' della reintegrazione, un trattamento omogeneo tra
il  licenziamento  per  giusta  causa  o  per   giustificato   motivo
soggettivo, da un lato, e il licenziamento  per  giustificato  motivo
oggettivo, dall'altro. Anche nella seconda ipotesi la  reintegrazione
dovrebbe essere obbligatoria, quando  sia  accertata  l'insussistenza
manifesta del fatto. 
    La molteplicita' dei  possibili  rimedi  contro  i  licenziamenti
illegittimi e l'assenza di soluzioni costituzionalmente vincolate non
escludono che le difformita' tra i regimi di  tutela  debbano  essere
sorrette da giustificazioni razionali e  non  sottraggono  le  scelte
adottate dal legislatore al sindacato di questa Corte. 
    3.- Nel merito, la questione e' fondata. 
    4.- I dubbi di costituzionalita'  si  concentrano  sull'art.  18,
settimo comma, secondo periodo, dello statuto dei  lavoratori,  cosi'
come modificato dall'art. 1, comma 42, lettera b), della legge n.  92
del 2012, nel quadro di un ampio intervento riformatore sulle  tutele
contro i licenziamenti illegittimi. 
    Il legislatore ha inteso ridistribuire  «in  modo  piu'  equo  le
tutele dell'impiego» anche mediante  l'adeguamento  della  disciplina
dei licenziamenti «alle esigenze del mutato contesto di  riferimento»
e  la  previsione  «di  un  procedimento  giudiziario  specifico  per
accelerare la definizione delle relative controversie» (art. 1, comma
1, lettera c, della legge citata). 
    All'originario modello, incentrato  sulla  tutela  reintegratoria
per tutte le ipotesi di nullita', annullabilita'  e  inefficacia  del
licenziamento,  fanno  riscontro  quattro  regimi,   applicabili   ai
rapporti a tempo indeterminato instaurati fino al  7  marzo  2015.  A
decorrere da questa data si dispiega  la  disciplina  introdotta  dal
decreto legislativo 4 marzo 2015, n. 23 (Disposizioni in  materia  di
contratto di lavoro a tempo  indeterminato  a  tutele  crescenti,  in
attuazione della legge 10 dicembre 2014, n. 183), che si caratterizza
per una diversa ratio e per un diverso regime di tutele. 
    Si  deve  ricordare   che   la   tutela   reintegratoria   piena,
indipendentemente dal numero  dei  dipendenti  occupati,  si  applica
nelle ipotesi di licenziamento discriminatorio, nullo  per  causa  di
matrimonio o di maternita' o di paternita', retto da motivo  illecito
determinante o dichiarato inefficace perche' intimato in forma orale.
Il giudice reintegra il  lavoratore  e  gli  riconosce  un'indennita'
risarcitoria commisurata all'ultima retribuzione globale di fatto dal
giorno del licenziamento sino a quello dell'effettiva reintegrazione,
con detrazione di quel che il lavoratore abbia percepito per  effetto
dello  svolgimento   di   altre   attivita'   lavorative   (l'aliunde
perceptum). L'importo minimo, invalicabile, e' di cinque mensilita'. 
    Il  lavoratore,  in  sostituzione  della   reintegrazione,   puo'
chiedere al datore di lavoro un'indennita' pari a quindici mensilita'
dell'ultima  retribuzione  globale  di  fatto,  senza  rinunciare  al
risarcimento del danno patito nel periodo tra  l'estromissione  e  la
richiesta dell'indennita' sostitutiva, che gia' risolve  il  rapporto
di lavoro. 
    L'art. 18 dello statuto dei lavoratori, cosi' come novellato  nel
2012, prevede, inoltre, una tutela  reintegratoria  attenuata  e  una
tutela indennitaria,  declinata  in  forma  piena  e  ridotta,  e  ne
sancisce l'applicazione ai datori di  lavoro  che  occupino  piu'  di
quindici dipendenti  (cinque,  se  si  tratta  di  imprese  agricole)
nell'unita' produttiva in cui  ha  avuto  luogo  il  licenziamento  o
nell'ambito dello stesso Comune o che occupino complessivamente,  sia
pure in diverse unita' produttive, piu' di sessanta dipendenti. 
    La  tutela  reintegratoria   attenuata,   invocata   nell'odierno
giudizio, contempla la reintegrazione nel posto di  lavoro,  al  pari
della tutela reintegratoria piena,  ma  limita  a  dodici  mensilita'
l'ammontare dell'indennita' risarcitoria che il datore di  lavoro  e'
obbligato a corrispondere dal giorno del licenziamento fino a  quello
dell'effettiva reintegrazione. Da tale importo, peraltro, deve essere
detratto non solo quel che il lavoratore abbia guadagnato  in  virtu'
di altre occupazioni (l'aliunde perceptum), ma anche quel che avrebbe
potuto  guadagnare  adoperandosi  con  l'ordinaria  diligenza   nella
ricerca di un'altra attivita'  lavorativa  (l'aliunde  percipiendum).
Anche in questo caso il lavoratore  ha  la  facolta'  -  in  concreto
esercitata nel giudizio  principale  -  di  optare  per  l'indennita'
sostitutiva della reintegrazione. 
    Tale tutela si applica ai licenziamenti disciplinari, per  giusta
causa  o  giustificato  motivo  soggettivo,  allorche'   il   giudice
riscontri l'insussistenza del fatto contestato o la  riconducibilita'
del fatto alle condotte punibili con una sanzione conservativa  sulla
base  delle  previsioni  dei  contratti  collettivi  o   dei   codici
disciplinari. 
    La tutela reintegratoria attenuata sanziona anche i licenziamenti
intimati senza  giustificazione  «per  motivo  oggettivo  consistente
nell'inidoneita' fisica o psichica del  lavoratore»,  o  intimati  in
violazione  delle  regole  che,  nell'ambito  del  licenziamento  per
malattia, disciplinano il periodo di comporto (art. 2110  del  codice
civile). 
    Nei licenziamenti economici, la tutela  reintegratoria  attenuata
puo' essere applicata nelle ipotesi di «manifesta  insussistenza  del
fatto  posto  a  base  del  licenziamento  per  giustificato   motivo
oggettivo». 
    5.- Quanto al licenziamento  per  giustificato  motivo  oggettivo
connesso  a  ragioni  economiche,  produttive  e  organizzative,  che
rappresenta  il  fulcro  dell'odierna   questione   di   legittimita'
costituzionale, il nuovo regime sanzionatorio previsto  dall'art.  18
della legge n. 300 del 1970, come modificato dalla legge  n.  92  del
2012,  prescrive  di  regola  la  corresponsione  di  una  indennita'
risarcitoria, compresa tra un  minimo  di  dodici  e  un  massimo  di
ventiquattro mensilita'. 
    Il ripristino del rapporto di lavoro, con un risarcimento fino  a
un massimo di dodici mensilita', e'  circoscritto  all'ipotesi  della
manifesta insussistenza del fatto, che postula una  evidente  assenza
dei presupposti di legittimita' del recesso e dunque  la  sua  natura
pretestuosa (Corte di cassazione, sezione lavoro, ordinanza 19  marzo
2020, n. 7471). 
    Tale  requisito,  che  il  rimettente  non  censura,  si  correla
strettamente ai presupposti di  legittimita'  del  licenziamento  per
giustificato motivo oggettivo, che e'  onere  del  datore  di  lavoro
dimostrare. Tali sono da intendersi le ragioni inerenti all'attivita'
produttiva,  all'organizzazione  del  lavoro  e   al   suo   regolare
funzionamento, il nesso causale  che  lega  il  recesso  alle  scelte
organizzative del datore di lavoro  e,  infine,  l'impossibilita'  di
collocare altrove il lavoratore (Corte di cassazione, sezione lavoro,
sentenza 11 novembre  2019,  n.  29102).  Perche'  possa  operare  il
rimedio  della  reintegrazione,  e'  sufficiente  che  la   manifesta
insussistenza riguardi uno dei presupposti appena indicati (Corte  di
cassazione, sezione lavoro, sentenza 12 dicembre 2018, n. 32159). 
    Tali presupposti, pur nel loro autonomo  spazio  applicativo,  si
raccordano tutti  all'effettivita'  della  scelta  organizzativa  del
datore di lavoro, che  il  giudice  e'  chiamato  a  valutare,  senza
sconfinare in un sindacato di congruita' e di opportunita'. Il vaglio
della genuinita' della decisione imprenditoriale  garantisce  che  il
licenziamento rappresenti pur sempre  una  extrema  ratio  e  non  il
frutto di un insindacabile arbitrio. 
    6.- Il rimettente prende le mosse  dall'assunto,  avallato  anche
dalla  piu'  recente  giurisprudenza  di   legittimita'   (Corte   di
cassazione, sezione lavoro, sentenza 3 febbraio 2020, n.  2366),  che
la   reintegrazione   non   sia    obbligatoria,    neppure    quando
l'insussistenza del fatto posto a base del licenziamento  si  connoti
come manifesta. 
    Il dato testuale conferma  una  tale  premessa  ermeneutica.  Nel
contesto dell'art. 18, settimo comma, dello statuto  dei  lavoratori,
al perentorio «applica» del  primo  periodo  fa  riscontro  il  «puo'
applicare» del secondo periodo e  sottende,  secondo  il  significato
proprio delle parole, una facolta' discrezionale del giudice. 
    L'elemento letterale e' poi corroborato dalla ratio legis,  cosi'
come  si  ricava  dall'esame  dei   lavori   preparatori.   L'attuale
formulazione  scaturisce  dalla  mediazione  tra   opposte   visioni,
all'esito di un  acceso  dibattito  parlamentare.  Le  critiche  alle
"disarmonie"   della   previsione   censurata,   emerse   nel   corso
dell'approvazione del disegno di legge presentato  dal  Ministro  del
lavoro  e  delle  politiche  sociali,   non   hanno   condotto   alla
reintroduzione della reintegrazione obbligatoria, pur proposta a piu'
riprese. 
    La giurisprudenza di legittimita', nel tentativo  di  scongiurare
le incertezze applicative che il testo della legge avrebbe ingenerato
(Corte di cassazione, sezione lavoro,  sentenza  8  luglio  2016,  n.
14021),  ha  provato  a  definire  i  criteri  che  presiedono   alla
valutazione discrezionale  del  giudice  e  ha  posto  l'accento,  in
particolare, sui principi generali in tema di risarcimento  in  forma
specifica (art. 2058 cod. civ.),  che  precludono  la  restitutio  in
integrum quando si riveli eccessivamente onerosa;  norma  applicabile
anche alla responsabilita' contrattuale. 
    Nella ricostruzione della Corte di  cassazione,  che  costituisce
diritto vivente, il richiamo alla  disciplina  del  risarcimento  del
danno in forma specifica  offre  «un  parametro  di  riferimento  per
l'esercizio del potere discrezionale  del  giudice»,  che  impone  di
valutare se  la  reintegrazione  sia  «al  momento  di  adozione  del
provvedimento  giudiziale,  sostanzialmente  incompatibile   con   la
struttura organizzativa medio tempore assunta dall'impresa» (Corte di
cassazione, sezione lavoro, sentenza 2 maggio 2018, n. 10435). 
    Il giudice, pertanto, potra' pronunciare  la  reintegrazione  del
lavoratore «subordinatamente all'ulteriore valutazione  discrezionale
rispetto  alla  non  eccessiva  onerosita'  del  rimedio»  (Corte  di
cassazione, sezione lavoro, sentenza 31 gennaio 2019, n. 2930). 
    7.-  La  disposizione  censurata,  nel   sancire   una   facolta'
discrezionale di concedere o negare la reintegrazione, contrasta  con
l'art. 3 Cost., con riguardo ai profili e per  i  motivi  di  seguito
esposti. 
    8.- Sul diritto al lavoro (art. 4, primo comma,  Cost.)  e  sulla
tutela del lavoro in tutte le  sue  forme  e  applicazioni  (art.  35
Cost.), questa Corte ha fondato, gia' in epoca risalente,  l'esigenza
di circondare di «doverose garanzie» e di «opportuni temperamenti» le
fattispecie di licenziamento (sentenza n. 45 del 1965,  punto  4  del
Considerato in diritto). 
    L'attuazione del diritto «a  non  essere  estromesso  dal  lavoro
ingiustamente o irragionevolmente» (sentenza n. 60 del 1991, punto  9
del Considerato in diritto) e' stata ricondotta,  anche  di  recente,
nell'alveo delle valutazioni discrezionali  del  legislatore,  quanto
alla scelta dei tempi e dei modi della tutela (sentenza  n.  194  del
2018, punto 9.2. del Considerato in diritto), anche in ragione  della
diversa  gravita'  dei  vizi  e  di  altri  elementi   oggettivamente
apprezzabili come, per esempio, le  dimensioni  dell'impresa.  Si  e'
anche  rimarcato  che  la  reintegrazione  non  rappresenta  «l'unico
possibile paradigma attuativo» dei principi costituzionali  (sentenza
n. 46 del 2000, punto 5 del Considerato in diritto). 
    In un assetto integrato di tutele, in cui  alla  Costituzione  si
affiancano le fonti  sovranazionali  (art.  24  della  Carta  sociale
europea, riveduta, con annesso, fatta a Strasburgo il 3 maggio  1996,
ratificata e resa esecutiva con la legge 9 febbraio 1999,  n.  30)  e
dell'Unione europea (art. 30 della  Carta  dei  diritti  fondamentali
dell'Unione europea - CDFUE -, proclamata a Nizza il 7 dicembre  2000
e adattata a Strasburgo il 12  dicembre  2007),  «molteplici  possono
essere i rimedi idonei a garantire una adeguata compensazione per  il
lavoratore arbitrariamente licenziato» (di recente, sentenza  n.  254
del 2020, punto 5.2. del Considerato in diritto). 
    Nell'apprestare le garanzie necessarie a tutelare la persona  del
lavoratore, il legislatore, pur nell'ampio margine  di  apprezzamento
che gli compete, e' vincolato al rispetto dei principi di eguaglianza
e di ragionevolezza. 
    9.-  La  disposizione  censurata  entra  in  conflitto  con  tali
principi. 
    Il carattere meramente facoltativo della  reintegrazione  rivela,
anzitutto, una disarmonia  interna  al  peculiare  sistema  delineato
dalla legge n. 92 del 2012 e viola il principio di eguaglianza. 
    Per i licenziamenti disciplinari, il legislatore ha  previsto  la
reintegrazione  del  lavoratore,  quando  si  accerti   in   giudizio
l'insussistenza del fatto posto a base  del  recesso  del  datore  di
lavoro. Per i licenziamenti economici, l'insussistenza del fatto puo'
condurre alla reintegrazione ove sia manifesta.  L'insussistenza  del
fatto,  pur  diversamente  graduata,  assurge   dunque   a   elemento
qualificante per il riconoscimento del piu'  incisivo  fra  i  rimedi
posti a tutela del lavoratore. 
    Secondo   la   valutazione   discrezionale    del    legislatore,
l'insussistenza del fatto - sia che attenga a una condotta di rilievo
disciplinare addebitata al lavoratore sia che riguardi una  decisione
organizzativa del datore di lavoro e presenti carattere  manifesto  -
rende possibile una risposta sanzionatoria omogenea,  che  e'  quella
piu' energica della ricostituzione del rapporto di lavoro. 
    In un  sistema  che,  per  consapevole  scelta  del  legislatore,
annette rilievo al presupposto comune dell'insussistenza del fatto  e
a   questo   presupposto   collega   l'applicazione   della    tutela
reintegratoria, si rivela  disarmonico  e  lesivo  del  principio  di
eguaglianza il carattere facoltativo del rimedio della reintegrazione
per i soli licenziamenti economici, a  fronte  di  una  inconsistenza
manifesta della giustificazione addotta e del ricorrere di  un  vizio
di  piu'  accentuata  gravita'  rispetto  all'insussistenza  pura   e
semplice del fatto. 
    Le peculiarita' delle fattispecie di licenziamento, che  evocano,
nella  giusta  causa  e  nel  giustificato  motivo   soggettivo,   la
violazione degli obblighi contrattuali ad opera del lavoratore e, nel
giustificato  motivo  oggettivo,  scelte  tecniche  e   organizzative
dell'imprenditore, non legittimano una diversificazione  quanto  alla
obbligatorieta' o facoltativita' della reintegrazione, una volta  che
si reputi l'insussistenza del  fatto  meritevole  del  rimedio  della
reintegrazione e che, per il  licenziamento  economico,  si  richieda
finanche il piu' pregnante presupposto dell'insussistenza manifesta. 
    L'esercizio arbitrario del potere di  licenziamento,  sia  quando
adduce a pretesto un fatto disciplinare  inesistente  sia  quando  si
appella a una  ragione  produttiva  priva  di  ogni  riscontro,  lede
l'interesse del lavoratore alla continuita' del vincolo  negoziale  e
si risolve in una vicenda traumatica, che vede direttamente implicata
la persona del lavoratore. L'insussistenza  del  fatto,  pur  con  le
diverse  gradazioni  che  presenta  nelle  singole   fattispecie   di
licenziamento, denota il contrasto piu' stridente con il principio di
necessaria giustificazione del recesso  del  datore  di  lavoro,  che
questa Corte ha enucleato  sulla  base  degli  artt.  4  e  35  Cost.
(sentenza n. 41 del 2003, punto 2.1. del Considerato in diritto). 
    Tali elementi comuni alle fattispecie di  licenziamento  poste  a
raffronto dal rimettente, valorizzati dallo stesso legislatore  nella
previsione di una identica  tutela  reintegratoria,  privano  di  una
ragione giustificatrice plausibile la configurazione  di  un  rimedio
meramente facoltativo per i soli licenziamenti economici. 
    E' sprovvisto di un  fondamento  razionale  anche  l'orientamento
giurisprudenziale che assoggetta a  una  valutazione  in  termini  di
eccessiva  onerosita'  la  reintegrazione  dei   soli   licenziamenti
economici, che incidono sull'organizzazione dell'impresa al  pari  di
quelli disciplinari e, non meno di questi, coinvolgono la  persona  e
la dignita' del lavoratore. 
    10.-  Alla  violazione  del  principio  di  eguaglianza  e   alla
disarmonia interna a un sistema di tutele, gia' caratterizzato da una
pluralita' di distinzioni, si associa  l'irragionevolezza  intrinseca
del  criterio  distintivo  adottato,  che  conduce  a   ulteriori   e
ingiustificate disparita' di trattamento. 
    Il   rimettente   scorge   nella    previsione    censurata    le
caratteristiche   di   una   norma   "in   bianco"   e    stigmatizza
l'irragionevolezza di una disciplina  «del  tutto  priva  di  criteri
applicativi» idonei a orientare il potere discrezionale di disporre o
meno la reintegrazione. 
    10.1.- Anche  questi  rilievi,  che  sorreggono  l'argomentazione
dell'ordinanza di rimessione, sono fondati. 
    Per i licenziamenti economici, il legislatore non solo presuppone
una  evidenza  conclamata  del  vizio,  che  non  sempre  e'  agevole
distinguere rispetto a una insussistenza non altrimenti  qualificata,
ma rende facoltativa la reintegrazione, senza offrire  all'interprete
un chiaro criterio direttivo. 
    La scelta tra due forme di tutela profondamente diverse -  quella
reintegratoria,  pur  nella  forma  attenuata,  e  quella   meramente
indennitaria -  e'  cosi'  rimessa  a  una  valutazione  del  giudice
disancorata da precisi punti di riferimento. 
    Il richiamo alla eccessiva onerosita', che la  giurisprudenza  di
legittimita' ha indicato nell'intento di conferire alla previsione un
contenuto   precettivo   meno   evanescente,   non    pone    rimedio
all'indeterminatezza della fattispecie. 
    Tale nozione, funzionale a tracciare la linea di confine tra  due
forme di tutela dalla comune matrice  risarcitoria  (risarcimento  in
forma specifica o  per  equivalente),  si  colloca  nel  contesto  di
grandezze   economiche   comparabili.    Nella    disciplina    della
reintegrazione, invece, che si e'  via  via  affinata  come  autonoma
tecnica di tutela rispetto al paradigma  dell'art.  2058  cod.  civ.,
essa finisce per rivelarsi inadeguata. 
    Nella   ricostruzione   operata   dalla   giurisprudenza,   sopra
richiamata, la misura indennitaria di tutela  compensativa  non  puo'
dirsi "equivalente", quale invece e' l'indennita'  sostitutiva  della
reintegrazione, prevista dal terzo comma dell'art. 18  dello  statuto
dei lavoratori, ma ha  invece  un  contenuto  ridotto,  quale  quello
previsto dal quinto comma del medesimo articolo. 
    L'eccessiva onerosita', declinata come  incompatibilita'  con  la
struttura   organizzativa   nel   frattempo   assunta   dall'impresa,
presuppone valutazioni comparative non lineari nella  dialettica  tra
il diritto del lavoratore a non essere arbitrariamente estromesso dal
posto di lavoro e la liberta' di iniziativa  economica  privata.  Ne'
serve a individuare parametri sicuri per la valutazione  del  giudice
nel riconoscimento di due rimedi - la reintegrazione o l'indennita' -
caratterizzati da uno statuto eterogeneo. 
    In un sistema equilibrato  di  tutele,  la  discrezionalita'  del
giudice riveste un ruolo cruciale, come questa Corte ha  riconosciuto
di   recente   nel   censurare   l'automatismo   che   governava   la
determinazione  dell'indennita'  risarcitoria  per  i   licenziamenti
viziati dal punto di vista sostanziale (sentenza n. 194 del  2018)  o
formale (sentenza n. 150 del 2020), dapprima  commisurata  alla  sola
anzianita' di servizio. Al giudice e' stato restituito un  essenziale
potere di valutazione delle particolarita' del caso concreto, in base
a puntuali e molteplici criteri desumibili  dall'ordinamento,  frutto
di una evoluzione normativa risalente e di una prassi collaudata. 
    Nella fattispecie sottoposta all'odierno  scrutinio,  la  diversa
tutela applicabile - che ha implicazioni notevoli -  discende  invece
da un criterio giurisprudenziale che, per un verso, e'  indeterminato
e improprio e, per altro  verso,  privo  di  ogni  attinenza  con  il
disvalore del licenziamento. 
    Il  mutamento  della  struttura  organizzativa  dell'impresa  che
preclude l'applicazione della tutela reintegratoria e'  riconducibile
allo stesso imprenditore che ha intimato il licenziamento illegittimo
e puo' dunque prestarsi a condotte elusive. Tale mutamento,  inoltre,
puo' intervenire a distanza di molto tempo  dal  recesso  ed  e'  pur
sempre un elemento accidentale, che non presenta alcun nesso  con  la
gravita' della singola vicenda di licenziamento. 
    E',  pertanto,  manifestamente   irragionevole   la   scelta   di
riconnettere a fattori  contingenti,  e  comunque  determinati  dalle
scelte  del  responsabile  dell'illecito,  conseguenze  di   notevole
portata, che si riverberano sull'alternativa fra  una  piu'  incisiva
tutela reintegratoria o una meramente indennitaria. 
    Per costante  giurisprudenza  di  questa  Corte  (fra  le  molte,
sentenza n. 2 del 1986, punto 8 del Considerato in diritto), ben puo'
il legislatore delimitare l'ambito applicativo della reintegrazione. 
    Nondimeno, un criterio distintivo, che fa leva  su  una  mutevole
valutazione casistica e su un  dato  privo  di  ogni  ancoraggio  con
l'illecito che si deve sanzionare, non si fonda su elementi oggettivi
o razionalmente giustificabili e amplifica le incertezze del sistema. 
    11.- Inoltre, nel demandare a una valutazione giudiziale sfornita
di ogni criterio direttivo - percio' altamente controvertibile  -  la
scelta tra la tutela reintegratoria  e  la  tutela  indennitaria,  la
disciplina  censurata  contraddice   la   finalita'   di   una   equa
ridistribuzione delle «tutele dell'impiego», enunciata  dall'art.  1,
comma 1, lettera c),  della  legge  n.  92  del  2012.  L'intento  di
circoscrivere entro confini certi e  prevedibili  l'applicazione  del
piu' incisivo rimedio della reintegrazione  e  di  offrire  parametri
precisi  alla  discrezionalita'  del  giudice   rischia   di   essere
vanificato dalla necessita' di procedere alla  complessa  valutazione
sulla compatibilita' con le esigenze organizzative dell'impresa. 
    Anche da questo punto di  vista,  si  ravvisa  l'irragionevolezza
censurata dal Tribunale di Ravenna. 
    12.-   Si    deve    dichiarare,    pertanto,    l'illegittimita'
costituzionale dell'art. 18, settimo comma,  secondo  periodo,  della
legge n. 300 del 1970, come modificato dall'art. 1, comma 42, lettera
b), della legge n. 92 del 2012, nella parte in  cui  prevede  che  il
giudice, quando accerti la manifesta insussistenza del fatto posto  a
base del  licenziamento  per  giustificato  motivo  oggettivo,  «puo'
altresi' applicare» - invece che «applica altresi'» -  la  disciplina
di cui al quarto comma del medesimo art. 18. 
    Restano assorbiti gli ulteriori profili  di  censura  prospettati
dal rimettente. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara l'illegittimita' costituzionale  dell'art.  18,  settimo
comma, secondo periodo, della legge 20 maggio  1970,  n.  300  (Norme
sulla tutela della liberta' e dignita' dei lavoratori, della liberta'
sindacale e dell'attivita' sindacale, nei luoghi di  lavoro  e  norme
sul collocamento), come modificato dall'art. 1, comma 42, lettera b),
della legge 28 giugno 2012, n. 92 (Disposizioni in materia di riforma
del mercato del lavoro in una prospettiva di crescita),  nella  parte
in  cui  prevede  che  il  giudice,  quando  accerti   la   manifesta
insussistenza  del  fatto  posto  a  base   del   licenziamento   per
giustificato motivo oggettivo, «puo' altresi' applicare» - invece che
«applica altresi'» - la disciplina di cui al medesimo art. 18, quarto
comma. 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 24 febbraio 2021. 
 
                                F.to: 
                   Giancarlo CORAGGIO, Presidente 
                     Silvana SCIARRA, Redattore 
                    Filomena PERRONE, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria il 1° aprile 2021. 
 
                           Il Cancelliere 
                       F.to: Filomena PERRONE 

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