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LIBERALIZZAZIONE DEL MERCATO ELETTRICO: criteri per qualificare come abusiva una posizione dominante in materia di pratiche escludenti, sulla base degli effetti anticoncorrenziali.

LIBERALIZZAZIONE DEL MERCATO ELETTRICO:

criteri per qualificare come abusiva una posizione dominante in materia di pratiche escludenti, sulla base degli effetti anticoncorrenziali del comportamento di un operatore storico.

 

 

La causa si inserisce nel contesto della progressiva liberalizzazione del mercato della vendita di energia elettrica in Italia.

Sebbene, dal 1° luglio 2007, tutti gli utenti della rete elettrica italiana, comprese le famiglie e le piccole e medie imprese (PMI), possano scegliere il loro fornitore, in un primo momento, è stata effettuata una distinzione tra clienti ammessi a scegliere un fornitore su un mercato libero e clienti del mercato tutelato, composti dai clienti domestici e dalle piccole imprese, i quali continuavano  essere soggetti a un regime regolato, ossia il «servizio di maggior tutela», che comportava, in particolare, speciali tutele in materia di prezzi. Solo in un secondo momento questi ultimi sono stati ammessi al mercato libero.

Ai fini di tale liberalizzazione del mercato, l’ENEL, un’impresa fino ad allora verticalmente integrata, monopolista della produzione di energia elettrica in Italia e operante nella distribuzione di quest’ultima, è stata sottoposta a una procedura di separazione delle attività di distribuzione e di vendita, nonché dei marchi (unbundling). Al termine di tale procedura, le varie fasi del processo di distribuzione sono state attribuite a società figlie distinte. Così, alla E-Distribuzione è stato affidato il servizio di distribuzione, la Enel Energia è stata incaricata della fornitura di elettricità nel mercato libero e al Servizio Elettrico Nazionale (SEN) è stata attribuita la gestione del servizio di maggior tutela.

Al termine di un’istruttoria condotta dall’Autorità Garante della Concorrenza e del Mercato (AGCM), nella sua qualità di autorità nazionale garante della concorrenza, la medesima ha adottato, il 20
dicembre 2018, una decisione con la quale ha constatato che il SEN e la Enel Energia, con il coordinamento della loro società madre ENEL, avevano posto in essere, dal gennaio 2012 e fino al maggio 2017, un abuso di posizione dominante, in violazione dell’articolo 102 TFUE, e, di conseguenza, ha inflitto loro, in solido, una sanzione pecuniaria pari a oltre 93 milioni di euro. La condotta contestata è consistita nell’attuazione di una strategia escludente volta a trasferire la clientela del SEN, in quanto gestore storico del mercato tutelato, alla Enel Energia, la quale opera sul mercato libero, al fine di scongiurare il rischio di un passaggio in massa dei clienti del SEN verso nuovi fornitori al momento della successiva apertura del mercato in questione alla concorrenza. A tale scopo, secondo la decisione dell’AGCM, i clienti del mercato tutelato sarebbero stati in particolare invitati dal SEN a prestare il loro consenso a ricevere offerte commerciali relative al mercato libero, con modalità discriminatorie per le offerte dei concorrenti del gruppo ENEL.

L’importo della sanzione pecuniaria è stato ridotto alla somma di EUR 27,5 milioni circa in esecuzione delle decisioni giurisdizionali pronunciate in primo grado nell’ambito di ricorsi presentati dall’ENEL e dalle sue due società figlie contro la decisione dell’AGCM. Adito in appello da queste stesse società, il Consiglio di Stato (Italia) ha sottoposto alla Corte questioni pregiudiziali www.curia.europa.eu relative all’interpretazione e all’applicazione dell’articolo 102 TFUE in materia di pratiche escludenti.

Con la sua sentenza, la Corte fornisce precisazioni sulle condizioni in cui il comportamento di un’impresa può essere considerato, sulla base dei suoi effetti anticoncorrenziali, costitutivo di un abuso di posizione dominante, qualora un simile comportamento si basi sullo sfruttamento di risorse o di mezzi propri di una tale posizione nel contesto della liberalizzazione di un mercato. In tale occasione, la Corte delimita i criteri di valutazione rilevanti e la portata dell’onere della prova gravante sull’autorità nazionale garante della concorrenza che ha adottato una decisione sulla base dell’articolo 102 TFUE.

Rispondendo alle questioni relative all’interesse tutelato dall’articolo 102 TFUE, la Corte precisa, in primo luogo, gli elementi idonei a caratterizzare lo sfruttamento abusivo di una posizione dominante.

A tal fine, essa osserva, da un lato, che il benessere dei consumatori, sia intermedi sia finali, deve essere considerato l’obiettivo ultimo che giustifica l’intervento del diritto della concorrenza per reprimere lo sfruttamento abusivo di una posizione dominante sul mercato interno o su una parte sostanziale del medesimo. Tuttavia, un’autorità garante della concorrenza assolve l’onere della prova a suo carico se dimostra che una pratica di un’impresa in posizione dominante è idonea a pregiudicare, ricorrendo a risorse o a mezzi diversi da quelli su cui si impernia una concorrenza normale, una struttura di effettiva concorrenza, senza che sia necessario che la medesima dimostri che detta pratica ha, in aggiunta, la capacità di arrecare un danno diretto ai consumatori. L’impresa dominante in questione può nondimeno sottrarsi al divieto di cui all’articolo 102 TFUE dimostrando che l’effetto escludente che può derivare dalla pratica di cui trattasi è controbilanciato, se non superato, da effetti positivi per i consumatori.

Dall’altro lato, la Corte ricorda che il carattere abusivo di un comportamento di un’impresa in posizione dominante può essere constatato solo a condizione di aver dimostrato la sua capacità di restringere la concorrenza e, nel caso di specie, di produrre gli effetti escludenti addebitati. Tale qualificazione non impone invece di dimostrare che il risultato atteso di un simile comportamento diretto a escludere i propri concorrenti dal mercato in questione sia stato raggiunto. Ciò premesso, la prova addotta da un’impresa in posizione dominante dell’assenza di effetti escludenti concreti non può essere considerata sufficiente, di per sé, a escludere l’applicazione dell’articolo 102 TFUE. Tale elemento può tuttavia costituire un indizio dell’incapacità del comportamento in questione di produrre gli effetti escludenti dedotti, purché sia corroborato da altri elementi di prova volti a dimostrare tale incapacità.

In secondo luogo, quanto ai dubbi del giudice del rinvio relativamente alla questione se occorra tener conto di un eventuale intento dell’impresa di cui trattasi, la Corte ricorda che l’esistenza di una pratica escludente abusiva da parte di un’impresa in posizione dominante dev’essere valutata sulla base della capacità di tale pratica di produrre effetti anticoncorrenziali. Ne consegue che un’autorità garante della concorrenza non è tenuta a dimostrare l’intento dell’impresa in questione di escludere i propri concorrenti ricorrendo a mezzi o risorse diversi da quelli su cui si impernia una concorrenza basata sui meriti. La Corte precisa tuttavia che la prova di un simile intento costituisce nondimeno una circostanza di fatto che può essere presa in considerazione ai fini della determinazione di un abuso di posizione dominante.

In terzo luogo, la Corte fornisce gli elementi di interpretazione richiesti dal giudice del rinvio per l’applicazione dell’articolo 102 TFUE al fine di distinguere, tra le pratiche attuate da un’impresa in posizione dominante che si basano sullo sfruttamento lecito al di fuori del diritto della concorrenza di risorse o mezzi propri di una tale posizione, quelle che potrebbero sottrarsi al divieto posto da tale articolo, in quanto sarebbero proprie di una concorrenza normale, e quelle che, al contrario, dovrebbero essere considerate «abusive» ai sensi di tale disposizione. A tale riguardo, la Corte ricorda, anzitutto, che il carattere abusivo di tali pratiche presuppone che esse abbiano avuto la capacità di produrre gli effetti escludenti descritti nella decisione impugnata. Le imprese in posizione dominante, indipendentemente dalle cause di una tale posizione, possono senz’altro difendersi dai loro concorrenti, ma devono farlo ricorrendo ai soli mezzi propri di una concorrenza «normale», vale a dire basata sui meriti. Orbene, una pratica che non può essere adottata da un ipotetico concorrente altrettanto efficiente sul mercato in questione, in quanto essa si basa sullo sfruttamento di risorse o mezzi propri di una posizione dominante, non può essere considerata propria di una concorrenza basata sui meriti. Ciò posto, quando perde il monopolio legale che prima deteneva su un mercato, un’impresa deve astenersi, durante tutta la fase di liberalizzazione di tale mercato, dal ricorrere ai mezzi di cui disponeva in forza del suo precedente monopolio e che, a tal titolo, non sono disponibili ai suoi concorrenti, al fine di conservare, con modalità che esulano dai suoi stessi meriti, una posizione dominante sul mercato in questione recentemente liberalizzato.

Ciò detto, una simile pratica può nondimeno sottrarsi al divieto di cui all’articolo 102 TFUE se l’impresa in posizione dominante in questione dimostra che essa era obiettivamente giustificata da circostanze esterne all’impresa e proporzionata a tale giustificazione oppure controbilanciata, se non superata, da vantaggi in termini di efficienza che vanno a beneficio anche dei consumatori.

In quarto luogo, invitata dal giudice nazionale a precisare le condizioni che consentono di imputare la responsabilità del comportamento di una società figlia alla società madre, la Corte dichiara che, quando una posizione dominante è sfruttata in modo abusivo da una o più società figlie appartenenti a un’unità economica, l’esistenza di tale unità è sufficiente per ritenere che la società madre sia anch’essa responsabile di tale abuso. L’esistenza di una simile unità deve essere presunta qualora, all’epoca dei fatti, almeno la quasi totalità del capitale di tali società figlie fosse detenuta, direttamente o indirettamente, dalla società madre. A fronte di simili circostanze, l’autorità garante della concorrenza non è tenuta a fornire alcuna prova aggiuntiva, a meno che la società madre non dimostri che, nonostante la detenzione di una tale percentuale del capitale sociale, essa non aveva il potere di definire i comportamenti delle società figlie, le quali agivano autonomamente.

 

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