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LEGGE “SEVERINO”: sospensione dalla carica di consigliere regionale dopo sentenza di condanna in primo grado.

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CORTE COSTITUZIONALE 9 febbraio – 11 marzo 2021 SENTENZA N. 35

Giudizio di legittimita' costituzionale in via incidentale. 
 
Elezioni - Norme del d.lgs. n. 235 del 2012 (c.d. "legge Severino") -
  Sospensione  di  diritto  dalla  carica  di  consigliere  regionale
  conseguente alla sentenza di condanna in primo grado per i reati di
  cui agli artt. 314 e 478 cod. pen.  -  Valutazione,  da  parte  del
  giudice, della proporzionalita' tra il fatto oggetto di condanna  e
  la sospensione - Omessa  previsione  -  Denunciata  violazione  del
  principio di leale collaborazione, nonche' dei limiti convenzionali
  alle restrizioni dell'elettorato passivo  -  Non  fondatezza  delle
  questioni. 
- Decreto legislativo 31 dicembre 2012, n.  235,  art.  8,  comma  1,
  lettera a). 
- Costituzione,  artt.  117  e  122;  Protocollo   addizionale   alla
  Convenzione per la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
  liberta' fondamentali, art. 3. 

(GU n.11 del 17-3-2021 )

  
 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
composta dai signori: 
Presidente:Giancarlo CORAGGIO; 
Giudici :Giuliano AMATO, Silvana SCIARRA, Daria  de  PRETIS,  Nicolo'
  ZANON, Franco MODUGNO, Augusto Antonio BARBERA, Giulio PROSPERETTI,
  Giovanni  AMOROSO,  Francesco  VIGANO',  Luca   ANTONINI,   Stefano
  PETITTI, Angelo BUSCEMA, Emanuela  NAVARRETTA,  Maria  Rosaria  SAN
  GIORGIO, 
      
    ha pronunciato la seguente 
 
                              SENTENZA 
 
    nel giudizio di legittimita' costituzionale dell'art. 8, comma 1,
lettera a), del decreto legislativo 31 dicembre 2012, n.  235  (Testo
unico delle disposizioni in materia di incandidabilita' e di  divieto
di ricoprire cariche elettive e di  Governo  conseguenti  a  sentenze
definitive di condanna per delitti non colposi, a norma dell'articolo
1, comma 63, della legge 6  novembre  2012,  n.  190),  promosso  dal
Tribunale ordinario di Genova nel procedimento vertente tra M.  R.  e
il Presidente del  Consiglio  dei  ministri,  con  ordinanza  del  27
dicembre 2019, iscritta al  n.  64  del  registro  ordinanze  2020  e
pubblicata nella Gazzetta Ufficiale della  Repubblica  n.  25,  prima
serie speciale, dell'anno 2020. 
    Visti  l'atto  di  costituzione  di  M.  R.,  nonche'  l'atto  di
intervento del Presidente del Consiglio dei ministri; 
    udita nell'udienza  pubblica  del  27  gennaio  2021  la  Giudice
relatrice Daria de Pretis; 
    uditi l'avvocato Gerolamo Taccogna per M. R., in collegamento  da
remoto, ai sensi del punto 1) del decreto del Presidente della  Corte
del 30 ottobre 2020 e l'avvocato dello Stato  Marco  Corsini  per  il
Presidente del Consiglio dei ministri; 
    deliberato nella camera di consiglio del 9 febbraio 2021. 
 
                          Ritenuto in fatto 
 
    1.- Con ordinanza del 27 dicembre 2019, iscritta  al  n.  64  del
registro  ordinanze  2020,  il  Tribunale  ordinario  di  Genova   ha
sollevato questioni di legittimita' costituzionale  dell'art.  8  del
decreto legislativo 31 dicembre  2012,  n.  235  (Testo  unico  delle
disposizioni in materia di incandidabilita' e di divieto di ricoprire
cariche elettive e di Governo conseguenti a  sentenze  definitive  di
condanna per delitti non colposi, a norma dell'articolo 1, comma  63,
della legge 6 novembre 2012, n. 190). 
    1.1.- Il rimettente descrive la controversia oggetto del processo
principale nei seguenti termini. 
    Con decreto del 5 luglio 2019, il Presidente  del  Consiglio  dei
ministri ha accertato nei confronti di M. R., ai sensi  dell'art.  8,
comma 4, del d.lgs. n. 235 del 2012, la sospensione di diritto  dalla
sua  carica  di  consigliere  regionale  della  Regione  Liguria,  in
conseguenza della  sentenza  con  la  quale  il  30  maggio  2019  il
Tribunale ordinario di Genova lo ha condannato in  primo  grado  alla
pena complessiva di 3 anni, 2 mesi e 15 giorni di  reclusione  per  i
reati di cui all'art. 478 (falsita' ideologica commessa  da  pubblici
ufficiali in atti pubblici) e  all'art.  314  (peculato)  del  codice
penale. 
    I fatti di reato per i  quali  e'  intervenuta  la  condanna  non
definitiva  di  M.  R.,  analoghi  ad  altri  addebitati  a   diversi
consiglieri regionali nel contesto di una prassi diffusa,  consistono
nell'avere  speso  per  finalita'  extraistituzionali  i   contributi
economici destinati al funzionamento dei gruppi consiliari regionali,
per una spesa di euro 138,20 personalmente imputabile al  condannato,
e nell'avere falsamente attestato nei rendiconti annuali, in qualita'
di capogruppo, la veridicita' e l'inerenza  di  spese  dichiarate  da
altri consiglieri regionali, per alcune decine di migliaia di euro. 
    Con ricorso presentato al Tribunale di  Genova  nelle  forme  del
processo sommario di cognizione, ex art. 22 del  decreto  legislativo
1° settembre 2011, n. 150 (Disposizioni complementari  al  codice  di
procedura civile  in  materia  di  riduzione  e  semplificazione  dei
procedimenti civili di cognizione, ai sensi  dell'articolo  54  della
legge 18 giugno 2009, n. 69),  M.  R.  ha  impugnato  il  decreto  di
sospensione  chiedendone  la  disapplicazione  «o  per   difetto   di
legittimo presupposto normativo  o  per  entita'  sproporzionata  del
provvedimento», previa rimessione degli atti a questa  Corte  per  la
declaratoria di illegittimita' costituzionale dell'art. 8 del  d.lgs.
n. 235 del 2012. 
    Lo stesso ricorrente ha  contestualmente  presentato  istanza  ex
art.  700  del  codice  di  procedura  civile  per  ottenere  in  via
cautelare, sulla base delle stesse ragioni esposte a  sostegno  della
domanda di merito, la riammissione immediata nel Consiglio  regionale
della  Liguria.  L'ordinanza  non  fa  menzione  dell'esito  di  tale
istanza. 
    1.1.1.- Il rimettente  ritiene  rilevanti  e  non  manifestamente
infondate  due  delle  questioni  di  illegittimita'   costituzionale
proposte nel giudizio a quo. 
    Alla stregua della  prima  eccezione,  diretta  a  una  pronuncia
ablativa, l'art. 8 del d.lgs. n. 235 del 2012, nel prevedere  che  la
sospensione di diritto a  seguito  di  condanna  non  definitiva  per
determinati  reati  si  applichi  anche  ai  consiglieri   regionali,
violerebbe gli artt. 117 e 122 della Costituzione, invadendo la sfera
di  competenza  legislativa  regionale,  «ovvero»  comprimendo   tale
competenza  nell'esercizio  di  una  potesta'   legislativa   statale
incidente in materia regionale «in difetto di  ogni  coordinamento  e
collaborazione». 
    Alla stregua della seconda, diretta a una pronuncia additiva,  il
citato art. 8, nella  parte  in  cui  non  contempla  un  vincolo  di
necessaria proporzionalita' in concreto tra fatto accertato  in  sede
penale e le conseguenze automatiche previste dalla legge,  violerebbe
i  principi  posti  dall'art.  3  del  Protocollo  addizionale   alla
Convenzione  per  la  salvaguardia  dei  diritti  dell'uomo  e  delle
liberta' fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo 1952,  in  quanto
tale norma convenzionale esigerebbe, secondo l'interpretazione  della
Corte europea dei diritti dell'uomo,  una  deliberazione  bilanciata,
individualizzata   e   giudiziaria   di   ogni   forma   di   perdita
dell'elettorato attivo e passivo. 
    1.2.-  Passando  all'esposizione  delle  censure,  il  rimettente
prende le mosse da quella che si incentra sulla mancata previsione di
un vaglio di proporzionalita' tra i fatti oggetto della condanna e la
sospensione dalla carica elettiva. 
    La norma censurata sarebbe connotata  da  un  rigido  automatismo
applicativo,  che  fa  seguire  la  sospensione  alla  condanna   per
determinati reati senza considerare  l'esigenza  di  una  connessione
concreta tra i fatti accertati e la carica  esercitata,  ben  potendo
trattarsi, come nella specie, di fatti risalenti nel tempo e  seguiti
«da condotta difforme nell'esercizio della  medesima  carica,  oppure
generati da una occasione [...] non piu' attuale, oppure  seguiti  da
una nuova elezione a una carica diversa». 
    I titoli di reato per i quali sono previste la sospensione  e  la
successiva decadenza dalla carica sarebbero gravi solo  per  la  pena
edittale, in quanto a essi potrebbero corrispondere fatti di  diversa
gravita', sicche' le anzidette misure troverebbero applicazione anche
per condotte di lieve entita'. Cio' metterebbe in evidenza l'assoluta
insensibilita' della norma censurata alla gravita' del fatto,  acuita
dalla circostanza che a reati come il peculato,  anche  se  di  lieve
entita', e' inapplicabile  la  causa  di  non  punibilita'  ex  «art.
133-bis»  (recte:  art.   131-bis)   cod.   pen.   Sarebbero   dunque
assoggettati alla misura sospensiva anche gli autori di  condotte  di
minima offensivita', nonostante possano ricoprire  cariche  politiche
di notevole rilievo e, per ipotesi, ottenute con larghissimo consenso
di un elettorato consapevole della pendenza del procedimento penale o
della condanna. 
    La natura cautelare della sospensione opererebbe poi  sulla  base
di una presunzione legale assoluta di pericolosita', nonostante  tale
istituto  sia  escluso,  in  ossequio  ai  principi   costituzionali,
dall'ambito di applicazione sia  delle  misure  cautelari  sia  delle
misure di sicurezza. 
    Tale rigido automatismo contrasterebbe con l'art. 3 Prot.  addiz.
CEDU, dal cui contenuto precettivo,  come  interpretato  dalla  Corte
europea  dei  diritti  dell'uomo,  discenderebbe  l'esistenza  di  un
diritto fondamentale di elettorato attivo e passivo. 
    In particolare, diverse pronunce della Corte EDU (sono citate  le
sentenze 27 aprile 2010, grande camera,  Tănase  contro  Moldavia;  8
aprile 2010, Frodl contro Austria;  5  aprile  2007,  Kavakçi  contro
Turchia; 15 giugno 2006, Lykourezos contro Grecia;  6  ottobre  2005,
grande camera, Hirst contro Regno Unito, n. 2) avrebbero affermato la
necessita' che le eventuali limitazioni al diritto  degli  eletti  di
rivestire le loro cariche derivino  solo  da  un  processo  decisorio
individualizzato, di natura tendenzialmente giurisdizionale,  che  si
fondi  su  un  concreto  collegamento  tra  il   fatto   commesso   e
l'impossibilita'  di   ricoprire   la   carica   elettiva   (nozione,
quest'ultima, in cui sarebbe ricompresa anche quella  di  consigliere
regionale prevista dall'ordinamento italiano). 
    Ad avviso del rimettente, la disposizione censurata, pur  diretta
al condivisibile  intento  di  garantire  la  qualita'  morale  degli
eletti,  non  risponderebbe  a  tali  requisiti,  facendo   dipendere
l'adozione della misura dall'astratta  valutazione  del  legislatore.
Infine,  sulla  valutazione  di  non  manifesta  infondatezza   della
questione non inciderebbe la possibilita' di impugnare giudizialmente
il provvedimento di sospensione, in quanto la mancanza  di  parametri
decisionali non consentirebbe al  giudice  adito  di  raggiungere  un
«esito adeguatore» in assenza  dell'auspicato  intervento  correttivo
del Giudice delle leggi. 
    1.2.1.- Quanto all'altra  questione,  il  giudice  a  quo  -  pur
prendendo atto della giurisprudenza costituzionale che  riconduce  la
disciplina su incandidabilita', sospensione e decadenza alla  materia
dell'ordine pubblico e sicurezza, di competenza statale «ex art.  117
comma 2 lettera e) della Costituzione» - censura l'art. 8 del  d.lgs.
n. 235 del 2012 per la sua significativa  incidenza  sull'ordinamento
regionale, comportante la necessita' di  adottare  una  procedura  di
leale  consultazione  con  le  regioni,  in  ossequio  al   principio
affermato da questa Corte con la sentenza n. 251 del 2016. Secondo il
rimettente, il previo coinvolgimento delle regioni sarebbe stato  qui
ancora piu' necessario, potendo incidere l'intervento legislativo sul
loro stesso vertice politico. 
    2.- Con atto depositato il 24 giugno 2020, si  e'  costituito  in
giudizio M. R., ricorrente nel processo principale, che  ha  concluso
perche'  l'art.  8  del  d.lgs.  n.  235  del  2012   «all'occorrenza
unitamente all'art. 1, commi 63 e  64,  della  l.  n.  190/2012»  sia
dichiarato costituzionalmente illegittimo. 
    2.1.- In premessa, M. R. riassume i fatti che hanno portato  alla
sua condanna penale e lo svolgimento del giudizio a  quo,  ricordando
che l'istanza cautelare di riammissione nel Consiglio regionale della
Liguria, presentata contestualmente al ricorso di  merito,  e'  stata
dapprima respinta, per difetto del solo  periculum  in  mora,  e  poi
accolta in sede di reclamo. 
    2.2.- Sulla prima questione, riguardante il  lamentato  contrasto
della norma censurata con gli artt. 117 e 122 Cost., in  rapporto  al
principio  di  leale  collaborazione,  il  ricorrente  nel   processo
principale osserva che, pur  prevedendo  l'art.  122  Cost.  le  sole
ipotesi dell'ineleggibilita'  e  dell'incompatibilita',  si  potrebbe
ricondurre  ad  esso  anche  l'incandidabilita'  per   mancanza   dei
requisiti soggettivi di accesso alla carica,  sussistendo  dunque  in
materia uno spazio di potesta' legislativa  regionale,  al  quale  si
sovrapporrebbe  in  modo  inestricabile  la  sfera   della   potesta'
legislativa statale in materia di ordine pubblico. 
    Tale  inestricabile  intreccio  di   competenze   imporrebbe   un
coinvolgimento delle regioni, secondo quanto affermato dalla sentenza
n. 251 del 2016. La mancata previsione di tale  coinvolgimento  nelle
norme di delega renderebbe costituzionalmente  illegittima  la  legge
delega e, in via derivata, il decreto delegato. Quest'ultimo  sarebbe
peraltro costituzionalmente illegittimo anche «in via  autonoma»,  in
quanto le regioni avrebbero potuto essere comunque coinvolte nel  suo
processo formativo anche in assenza di una previsione  in  tal  senso
della legge delega. In  ogni  caso,  si  sostiene  che  questa  Corte
potrebbe sollevare davanti a se' la questione su di essa. 
    2.3.- Sulla seconda questione, riguardante il lamentato contrasto
con l'art. 3 Prot. addiz. CEDU, «in relazione  all'art.  117  Cost.»,
oltre che «con gli artt. 1, 3, 24, 51 e 97 Cost.», M. R. osserva che,
alla luce dell'interpretazione data a tale norma convenzionale  dalla
Corte EDU, le limitazioni del diritto di  elettorato  passivo  devono
corrispondere a un fine compatibile con il principio  democratico  ed
essere  proporzionate  al  suo  perseguimento.  Di  conseguenza,  sia
l'incandidabilita'  che  la  sospensione   dalla   carica   elettiva,
ancorche' prive di carattere sanzionatorio, non potrebbero discendere
automaticamente da una sentenza di condanna non  definitiva,  essendo
necessaria una procedura, amministrativa o giurisdizionale, ma dotata
di adeguate garanzie di contraddittorio e imparzialita', per valutare
in concreto, secondo le circostanze del caso  specifico,  l'eventuale
pericolo  «rappresentato  dall'eletto-condannato  per   la   funzione
amministrativa affidata all'organo pubblico del quale egli fa parte». 
    Il  caso  concreto  sarebbe   emblematico   della   mancanza   di
proporzionalita' della misura, in quanto adottata sulla base  di  una
valutazione compiuta in astratto dal legislatore, e della  necessita'
di una valutazione specifica che, a fronte della qualificazione  come
peculato  di  condotte  anche  molto  differenti   tra   loro,   sola
consentirebbe di apprezzare l'obiettiva gravita' del reato e  la  sua
idoneita' a giustificare la compressione del  diritto  di  elettorato
passivo. 
    La mancanza di proporzionalita'  della  misura  si  collegherebbe
anche al lungo tempo trascorso tra i fatti sanzionati in sede penale,
risalenti al 2010, e l'adozione della misura. Dovrebbe inoltre essere
considerata la rinnovata legittimazione democratica dell'interessato,
rieletto  nelle  elezioni  regionali   del   2015,   per   apprezzare
l'incidenza  della  misura  sospensiva  sulla  volonta'  popolare   e
l'eventuale pregiudizio all'immagine della regione. 
    2.4.-  Un  ulteriore  profilo  di  illegittimita'  costituzionale
dell'art. 8 del d.lgs. n. 235 del 2012 deriverebbe dall'equiparazione
in esso operata delle  cariche  di  presidente  della  regione  e  di
consigliere regionale, nonostante l'evidente diversita'  tra  le  due
posizioni  quanto  alla  possibilita'  di   influenzare   l'attivita'
legislativa  e  amministrativa  regionale.   Sarebbero   violati   di
conseguenza sia il principio di uguaglianza  ex  art.  3  Cost.,  sia
l'art. 51 Cost. e ancora l'art. 3 Prot. addiz. CEDU,  sempre  per  la
manifesta sproporzione della misura. 
    2.5.- L'art. 8 del d.lgs. n. 235 del 2012 contrasterebbe altresi'
con il principio di buon  andamento  ex  art.  97  Cost.,  in  quanto
l'automatismo applicativo impedirebbe  di  valutare  in  concreto  il
vulnus  che  la  sospensione  cautelare  puo'   arrecare   all'azione
amministrativa regionale. In subordine, la  violazione  dell'art.  97
Cost. - oltre che del principio di eguaglianza  ex  art.  3  Cost.  e
dell'art. 3 Prot. addiz. CEDU -  deriverebbe  dall'omessa  previsione
della possibilita' per la pubblica  amministrazione  di  revocare  la
sospensione (e' citata al riguardo la sentenza n. 184 del  1994,  sul
regime di sospensione automatica dal servizio dei dipendenti pubblici
condannati in via non definitiva per i medesimi reati). 
    3.- Con atto depositato  il  7  luglio  2020  e'  intervenuto  in
giudizio il Presidente del Consiglio dei  ministri,  rappresentato  e
difeso dall'Avvocatura generale dello  Stato,  che  ha  concluso  per
l'inammissibilita'  o,  in  subordine,   per   l'infondatezza   delle
questioni. 
    3.1.- L'interveniente ha eccepito l'inammissibilita' di tutte  le
questioni per genericita' nell'identificazione delle norme censurate.
Il rimettente avrebbe  omesso  di  dedurre  censure  «"puntiformi"  e
mirate»  sull'art.  8  del  d.lgs.  n.   235   del   2012,   operando
«genericissimi rinvii» al testo del d.lgs. n. 235 del 2012 nella  sua
integralita'. 
    Una specifica  inammissibilita'  investirebbe  poi  la  questione
concernente la violazione del principio di leale collaborazione,  per
genericita' del parametro invocato, nonche' per il tenore  dubitativo
della questione stessa. In ogni caso, il fugace riferimento  all'art.
117, secondo comma, lettera  e),  Cost.,  risulterebbe  erroneo,  per
l'estraneita' alla materia della norma censurata. 
    3.2.- Nel merito, non sussisterebbe la violazione  del  principio
di leale collaborazione, in quanto la norma censurata, che si colloca
nell'ambito di una disciplina unitaria dei requisiti di assunzione  e
di mantenimento delle cariche di  pubblico  amministratore,  dovrebbe
essere ricondotta alla competenza  esclusiva  statale  ex  art.  117,
secondo  comma,  lettera  h),   Cost.,   perseguendo   obiettivi   di
salvaguardia dell'ordine pubblico e della sicurezza, di tutela  della
libera determinazione degli organi elettivi e  di  buon  andamento  e
trasparenza della pubblica amministrazione. 
    3.2.1.- Non  sarebbero  violati  neppure  i  principi  di  tutela
dell'eletto ricavabili dall'art. 3 Prot. addiz. CEDU, «per il tramite
dell'art. 117 primo comma della Costituzione». 
    La  norma   perseguirebbe   infatti   un   fine   legittimo,   da
identificare, come visto, nella tutela dell'ordine pubblico  e  della
sicurezza, integranti beni di rango costituzionale. La misura sarebbe
proporzionata per la temporaneita'  dei  suoi  effetti,  destinati  a
cessare decorsi diciotto  mesi  dalla  condanna,  salvo  conferma  in
appello entro tale termine della sentenza di primo grado,  nel  quale
caso la sospensione e' protratta di dodici mesi. Inoltre, non sarebbe
essenziale prevedere una decisione giudiziale sulla meritevolezza  in
concreto della sospensione, essendo sufficiente  che  la  valutazione
compiuta ex ante  dal  legislatore  sia  l'esito  di  un  ragionevole
bilanciamento tra il fine perseguito e la compressione del diritto di
elettorato passivo. 
    L'interveniente richiama la giurisprudenza costituzionale  che  -
con riferimento all'analoga  fattispecie  disciplinata  all'art.  11,
comma 1, lettera a), del d.lgs.  n.  235  del  2012,  ispirato  dalla
stessa  ratio  -  ha  qualificato  la  sospensione  come  una  misura
cautelare posta  a  tutela  oggettiva  del  buon  andamento  e  della
legalita' della pubblica amministrazione, la cui adeguatezza  non  va
commisurata alla  gravita'  del  fatto  commesso,  ma  alle  esigenze
cautelari   perseguite,   in   relazione   alla   possibile   lesione
dell'interesse  pubblico   causata   dalla   permanenza   dell'eletto
nell'organo elettivo (sono citate le sentenze n. 36 del 2019, n.  236
del 2015 e n. 206 del 1999). 
    La ragionevolezza e la proporzionalita'  della  misura  sarebbero
confermate anche  dal  suo  collegamento  a  condanne  per  reati  di
particolare gravita' o compiuti contro la  pubblica  amministrazione,
quindi direttamente connessi alle funzioni che il sospeso e' chiamato
ad assumere. 
    4.- Nella memoria depositata in prossimita' dell'udienza,  M.  R.
ha insistito nelle conclusioni gia' formulate, ribadendo  le  ragioni
esposte  nell'atto  di  costituzione  e  replicando  alle   deduzioni
difensive svolte dal Presidente del Consiglio dei ministri. 
    4.1.- In particolare l'eccezione di genericita'  delle  questioni
non sarebbe fondata, essendo esattamente individuata nell'art. 8  del
d.lgs. n. 235 del 2012  la  norma  sospettata  d'incostituzionalita',
solo per sintesi menzionata dal  rimettente,  talvolta,  come  «legge
Severino». 
    Neppure mancherebbe l'evocazione dei parametri violati, in quanto
l'ordinanza di rimessione li indica, nell'un caso, nell'art. 3  Prot.
addiz. CEDU e, nell'altro, nel principio di leale collaborazione  tra
lo Stato e le regioni, per la forte sovrapposizione sulla materia  di
competenza regionale ex art. 122 Cost. 
    Inoltre, il richiamo fatto dal rimettente  alla  lettera  e)  del
secondo comma dell'art. 117 Cost. si dovrebbe  intendere  palesemente
riferito alla lettera h) dello stesso secondo  comma,  relativa  alla
materia dell'ordine pubblico. 
    4.2.- Quanto alla violazione del citato art. 3 Prot. addiz. CEDU,
M.   R.   osserva   che   le   pronunce   della   Corte    richiamate
dall'interveniente non sarebbero pertinenti,  perche'  espressive  di
principi non contestati,  giacche'  in  questa  sede  alla  Corte  e'
chiesto di affermare che il bilanciamento fra gli interessi in  gioco
avvenga  mediante  una  valutazione  caso  per  caso  di   tutte   le
circostanze concrete, come imposto dalla giurisprudenza  della  Corte
EDU. 
    4.3.-   Quanto   alla   violazione   del   principio   di   leale
collaborazione, il fatto che la  norma  censurata  miri  alla  tutela
dell'ordine pubblico non eliminerebbe la sua incidenza su materie  di
competenza regionale, alla luce dell'art. 122  Cost.,  per  l'effetto
immediato e diretto della sospensione sulla permanenza in carica  dei
titolari di uffici  apicali  del  governo  regionale.  L'esigenza  di
unitarieta' di  disciplina  in  tutto  il  territorio  nazionale  non
escluderebbe  la  necessaria  osservanza  del  principio   di   leale
collaborazione, tramite intesa, in fase  di  formazione  del  decreto
delegato. 
 
                       Considerato in diritto 
 
    1.- Il Tribunale ordinario di Genova  dubita  della  legittimita'
costituzionale dell'art. 8 del decreto legislativo 31 dicembre  2012,
n. 235 (Testo unico delle disposizioni in materia di incandidabilita'
e di divieto di ricoprire cariche elettive e di Governo conseguenti a
sentenze definitive di condanna per  delitti  non  colposi,  a  norma
dell'articolo 1, comma 63, della legge  6  novembre  2012,  n.  190),
ossia della cosiddetta "legge Severino". 
    Le questioni sono sorte nel corso di un giudizio con cui M. R. ha
impugnato il decreto del Presidente del  Consiglio  dei  ministri  di
accertamento nei suoi confronti, ai sensi dell'art. 8, comma  4,  del
d.lgs. n. 235 del 2012, dell'avvenuta sospensione  di  diritto  dalla
carica di consigliere regionale della Regione Liguria. 
    La sospensione e' conseguita alla sentenza di condanna  in  primo
grado dello stesso M. R. alla pena complessiva di 3 anni, 2 mesi e 15
giorni di reclusione, irrogata dal Tribunale di Genova per i reati di
cui agli artt. 314 e 478 del codice penale. 
    I  fatti  di  reato  per  i  quali  e'  intervenuta  la  condanna
consistono  nell'avere  speso  per  finalita'  extraistituzionali   i
contributi economici destinati al funzionamento dei gruppi consiliari
regionali, per una spesa di euro 138,20 personalmente  imputabile  al
condannato, e nell'avere falsamente attestato nei rendiconti annuali,
in qualita' di capogruppo,  la  veridicita'  e  l'inerenza  di  spese
dichiarate da altri  consiglieri  regionali,  per  alcune  decine  di
migliaia di euro. 
    1.1.-  In  primo  luogo,  va  rilevata  l'inammissibilita'  delle
ulteriori questioni prospettate nell'atto di costituzione in giudizio
del ricorrente nel processo principale, in quanto diverse  da  quelle
proposte nell'ordinanza di rimessione, sia per l'oggetto, che investe
disposizioni ulteriori rispetto a quelle censurate dal giudice a  quo
(art. 1, commi 63 e 64, della legge 6 novembre 2012, n. 190,  recante
«Disposizioni per la prevenzione e la repressione della corruzione  e
dell'illegalita' nella pubblica amministrazione»; art. 7  del  d.lgs.
n. 235 del 2012), sia per i parametri invocati (artt. 1, 3, 24, 51  e
97 della Costituzione). 
    Secondo la costante giurisprudenza di questa Corte, l'oggetto del
giudizio di costituzionalita' in via  incidentale  e'  limitato  alle
norme e ai parametri indicati nelle ordinanze di  rimessione,  mentre
non possono essere presi in considerazione, oltre i limiti in  queste
fissati, ulteriori questioni o profili di  costituzionalita'  dedotti
dalle parti, sia che siano stati eccepiti ma  non  fatti  propri  dal
giudice a quo (come nella specie), sia che siano diretti ad  ampliare
o modificare successivamente il contenuto delle stesse ordinanze  (ex
plurimis, sentenze n. 35 del 2017, n. 203 del 2016, n. 56  del  2015,
n. 271 del 2011 e n. 86 del 2008). 
    1.2.- Il Presidente del Consiglio dei ministri ha preliminarmente
eccepito l'inammissibilita'  di  tutte  le  questioni  sollevate  dal
giudice a  quo,  per  genericita'  nell'identificazione  delle  norme
censurate.   Pur   affermando   di   dubitare   della    legittimita'
costituzionale dell'art. 8 del d.lgs. n. 235 del 2012, il  rimettente
avrebbe omesso di dedurre censure «"puntiformi"  e  mirate»  su  tale
disposizione e operato invece «genericissimi  rinvii»  al  testo  del
d.lgs. n. 235 del 2012 nella  sua  integralita',  cosi'  manifestando
l'intento  di  «colpire  l'impianto  della  c.d.  "Legge   Severino",
costantemente richiamata nell'ordinanza». 
    L'eccezione non e' fondata. 
    Nella motivazione dell'ordinanza di rimessione  e'  indicato  con
chiarezza l'art. 8 del d.lgs. n. 235  del  2012  come  oggetto  delle
questioni,  mentre  gli  sparsi  e  generici  richiami  alla   "legge
Severino" nella sua interezza sono  diretti  a  sottolineare  che  la
disposizione  censurata  rispecchia  nel  suo   specifico   contenuto
l'impianto complessivo del d.lgs. n. 235 del 2012. 
    1.2.1.-  L'oggetto   delle   questioni   proposte   va   comunque
circoscritto alla lettera a) del comma 1 dell'art. 8  del  d.lgs.  n.
235 del 2012, perche' questa e' la disposizione  che,  prevedendo  la
sospensione di coloro che hanno riportato una  sentenza  di  condanna
non definitiva per uno dei delitti  indicati  all'art.  7,  comma  1,
lettere a), b) e c), dello stesso d.lgs. n. 235 del 2012, deve essere
applicata  nel  giudizio  a  quo,  relativo  a  un  provvedimento  di
sospensione dalla carica di un consigliere  regionale  condannato  in
primo grado (anche) per il delitto di peculato, compreso  nell'elenco
di cui al citato art. 7, comma 1, lettera c). 
    1.3.- Il petitum delle  questioni,  ancorche'  non  indicato  nel
dispositivo dell'ordinanza di rimessione, e'  ricavabile  dal  tenore
della motivazione, la' dove, nel sintetizzare il contenuto delle  due
questioni di legittimita' costituzionale ritenute non  manifestamente
infondate, il giudice a quo osserva che l'una - che invoca gli  artt.
117 e 122 Cost. e  il  principio  di  leale  collaborazione,  la  cui
violazione  e'  declinata  come  «difetto  di  ogni  coordinamento  e
collaborazione» tra lo Stato e le regioni - tende «alla cancellazione
integrale  del  fondamento  normativo   dell'istituto   adottato   in
concreto», attraverso «una pronuncia soppressiva», mentre  l'altra  -
con  cui  e'  dedotta  la  violazione  dell'art.  3  del   Protocollo
addizionale  della  Convenzione  per  la  salvaguardia  dei   diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo
1952, in tema di elettorato passivo - e' diretta  «alla  introduzione
di un potere di vaglio necessario minimo  della  proporzione  tra  il
fatto ritenuto e l'effetto sull'elettorato passivo», attraverso  «una
pronuncia additiva». 
    Se ne desume che le questioni sono collegate da  un  rapporto  di
logica subordinazione, in quanto l'addizione normativa  e'  richiesta
per il caso in cui non fosse accolta  la  domanda,  prospettata  come
prima, di «pronuncia soppressiva» (id est, totalmente ablativa). Cio'
che non  osta  all'ammissibilita'  delle  questioni,  alla  luce  del
costante orientamento di questa Corte secondo cui «ben puo' [...]  il
giudice rimettente prospettare in termini gradatamente sequenziali, e
quindi  subordinati,   i   possibili   esiti   dello   scrutinio   di
costituzionalita' pur senza una formale e testuale qualificazione  di
ciascuna   conclusione   rispettivamente    come    "principale"    e
"subordinata" (sentenze n. 127 del 2017 e n. 280 del 2011)» (sentenza
n. 175 del 2018; nello stesso senso, sentenza n. 36 del 2019). 
    2.-  Occorre  dunque  esaminare  prioritariamente  la   questione
principale. 
    Con essa, il giudice a quo lamenta che la disposizione  censurata
- pur incidendo su una «materia almeno estremamente affine» a  quella
dell'eleggibilita' e dell'incompatibilita' dei consiglieri regionali,
attribuita alla potesta' delle regioni dall'art.  122,  primo  comma,
Cost. - sia stata adottata senza il previo raccordo con le regioni in
sede di Conferenza unificata, in violazione del  principio  di  leale
collaborazione. 
    Non  appartiene  al  thema  decidendum,  invece,  la  censura  di
invasione della sfera di  competenza  regionale  ex  art.  122  Cost,
anch'essa dedotta dal ricorrente  nel  giudizio  principale,  ma  non
condivisa dal rimettente, che ne critica la  fondatezza,  richiamando
la tesi secondo cui la disciplina  della  sospensione  dalle  cariche
elettive regionali non si inquadra negli istituti  dell'eleggibilita'
e  dell'incompatibilita',  bensi'  in  quello  dell'incandidabilita',
riconducibile alla diversa materia dell'ordine pubblico e  sicurezza,
di competenza esclusiva dello Stato. 
    2.1.- L'eccezione del Presidente del Consiglio  dei  ministri  di
inammissibilita' della questione per erronea e  generica  indicazione
del parametro invocato, nonche' per il suo tenore dubitativo, non  e'
fondata. 
    L'ordinanza  di   rimessione,   nonostante   l'apparente   tenore
dubitativo che ne caratterizza gli snodi, offre esplicite  ragioni  a
sostegno della censura e assume come  propri  i  motivi  esposti  dal
ricorrente nel giudizio principale. 
    Si deve ritenere inoltre  che,  nell'invocare  un  parametro  del
tutto inconferente, quale l'art.  117,  secondo  comma,  lettera  e),
Cost., il giudice a  quo  sia  semplicemente  incorso  in  un  lapsus
calami, essendo palese che esso intendeva richiamare  la  lettera  h)
dello  stesso  secondo  comma  dell'art.  117  Cost.,  come  dimostra
l'esplicito riferimento, nello stesso  contesto  motivazionale,  alla
materia «ordine pubblico e sicurezza» ivi prevista. 
    D'altra parte, nei termini in cui la questione e'  sollevata,  la
censura non investe la norma costituzionale che fonda  la  competenza
esclusiva dello Stato, ma fa valere la lesione del principio di leale
collaborazione,  in  base  al   quale,   nella   prospettazione   del
rimettente,  l'intervento  del  legislatore  statale,   pur   assunto
nell'esercizio dell'indicata competenza in funzione della  disciplina
unitaria della sospensione  dalle  cariche  regionali,  non  potrebbe
incidere su materie di competenza regionale senza  un  coinvolgimento
delle  regioni.  In  questi  termini  la  questione  e'   posta   con
sufficiente  chiarezza  dal  rimettente,  che  dall'assenza  di  tale
coinvolgimento fa derivare  la  violazione  del  principio  di  leale
collaborazione, assolvendo cosi' all'onere di  indicare,  a  pena  di
inammissibilita', il parametro  alla  cui  stregua  questa  Corte  e'
chiamata a valutare la questione. 
    2.2.- Nel merito, la questione non e' fondata. 
    Come visto, secondo il rimettente la disposizione censurata,  pur
espressione della competenza statale esclusiva in materia di  «ordine
pubblico e sicurezza», inciderebbe anche su una materia di competenza
regionale, sicche' il legislatore delegato avrebbe  potuto  adottarla
solo dopo aver previamente coinvolto le regioni. 
    A sostegno dell'assunto il giudice a quo evoca la sentenza n. 251
del 2016, con cui  questa  Corte  ha  affermato  che,  quantunque  il
principio di leale collaborazione  non  si  imponga  al  procedimento
legislativo, «[l]a' dove [...] il legislatore delegato si  accinge  a
riformare istituti che incidono su competenze  statali  e  regionali,
inestricabilmente  connesse,  sorge   la   necessita'   del   ricorso
all'intesa»,  la  quale  «si  impone  quale   cardine   della   leale
collaborazione anche quando l'attuazione delle  disposizioni  dettate
dal legislatore statale e' rimessa a decreti legislativi adottati dal
Governo sulla base dell'art. 76 Cost.», che finiscono  «con  l'essere
attratti nelle procedure di leale collaborazione, in vista del  pieno
rispetto del riparto costituzionale delle competenze». 
    Nel richiamare tale precedente il giudice a quo  omette  tuttavia
di verificare se la disposizione statale censurata, che  esso  stesso
riconduce a un titolo di competenza  esclusiva  dello  Stato,  incida
effettivamente su ambiti materiali nei  quali  concorrono  competenze
statali  e  regionali  legate  da  un  intreccio  inestricabile,  non
risolubile tramite un criterio di prevalenza  di  una  materia  sulle
altre. Solo in un'ipotesi di  questo  tipo,  infatti,  «deve  trovare
applicazione il  principio  generale,  costantemente  ribadito  dalla
giurisprudenza di questa Corte (da ultimo, sentenza n. 140 del 2015),
secondo il quale  in  ambiti  caratterizzati  da  una  pluralita'  di
competenze [...] e, qualora risulti impossibile comporre il  concorso
di competenze statali e regionali, tramite un criterio di prevalenza,
non e' costituzionalmente illegittimo  l'intervento  del  legislatore
statale,  purche'  agisca  nel  rispetto  del  principio   di   leale
collaborazione che deve in ogni caso permeare di se' i  rapporti  tra
lo Stato e il sistema delle autonomie (ex plurimis,  sentenze  n.  44
del 2014, n. 237 del 2009, n. 168 e  n.  50  del  2008)  e  che  puo'
ritenersi congruamente attuato mediante  la  previsione  dell'intesa»
(sentenza n. 1 del 2016). Impostazione, questa, sulla  cui  linea  si
pone la stessa evocata sentenza n. 251 del 2016, che, nel considerare
applicabili  le  procedure  di  leale  collaborazione   all'iter   di
formazione dei decreti delegati nel caso di incidenza dell'intervento
legislativo  su  competenze  statali  e  regionali  inestricabilmente
connesse,   la   condiziona   all'impossibilita'   di   operare   una
«valutazione circa la prevalenza di una materia su tutte  le  altre»,
poiche'  solo  ricorrendo  questo  presupposto  la   concorrenza   di
competenze rende necessario addivenire a un'intesa. 
    2.2.1.- Occupandosi della disciplina  che  si  e'  succeduta  nel
tempo in tema di incandidabilita' alle cariche elettive, di decadenza
di diritto da esse a seguito di condanna definitiva  per  determinati
reati, nonche' di sospensione automatica  in  caso  di  condanna  non
definitiva (istituto che viene qui specificamente in rilievo), questa
Corte ha piu' volte affermato che si tratta di  misure  «dirette  "ad
assicurare la salvaguardia dell'ordine e della sicurezza pubblica, la
tutela della libera determinazione degli  organi  elettivi,  il  buon
andamento e la trasparenza delle amministrazioni pubbliche allo scopo
di  fronteggiare  una  situazione  di   grave   emergenza   nazionale
coinvolgente gli interessi dell'intera  collettivita'"  (sentenze  n.
352 del 2008 e n. 288 del  1993)»  (sentenza  n.  118  del  2013,  in
relazione all'art. 15 della legge  19  marzo  1990,  n.  55,  recante
«Nuove disposizioni per la  prevenzione  della  delinquenza  di  tipo
mafioso e di altre gravi forme  di  manifestazione  di  pericolosita'
sociale», i cui contenuti  risultano  attualmente  trasfusi,  per  la
parte che interessa, negli artt. 7 e 8 del d.lgs. n. 235 del 2012). 
    In ragione di questa sua finalita', il «nucleo essenziale»  della
disciplina qui segnatamente in esame e' stato  ricondotto  all'ambito
della  materia  «ordine  pubblico   e   sicurezza»,   di   competenza
legislativa statale esclusiva ex art. 117, secondo comma, lettera h),
Cost. (sentenza n. 118 del 2013; nello stesso senso, sentenze n.  218
del 1993 e n. 407 del 1992, ancora in  relazione  all'art.  15  della
legge  n.  55  del  1990),  materia  che,  come   questa   Corte   ha
sottolineato,  presenta  carattere   prevalente   pur   quando   essa
interferisca con la competenza regionale ex art.  122,  primo  comma,
Cost. (sentenze n. 36 del 2019 e n. 118 del 2013). 
    Infatti, anche ritenendo che quest'ultima  competenza  «comprenda
la disciplina delle  decadenze  connesse  alla  sopravvenienza  delle
cause di ineleggibilita' dopo l'assunzione del mandato, come pure  la
disciplina delle  ipotesi  di  sospensione  automatica  dalla  carica
collegate,  in  funzione  cautelare  e  preventiva,  alle  cause   di
decadenza», resta «dirimente il rilievo che  le  ragioni  che  stanno
[...] alla base della prevista sospensione di diritto [...] ascrivono
comunque il  nucleo  essenziale  della  disciplina,  sulla  base  del
criterio della prevalenza, alla gia' indicata materia  di  competenza
statale esclusiva "ordine pubblico e sicurezza"» (sentenza n. 118 del
2013). Ne' contrasta con la riconduzione della sospensione in esame a
questa materia la circostanza che si tratti  della  disciplina  delle
condizioni per la permanenza in carica  di  un  eletto,  giacche'  in
questo caso e' proprio  attraverso  la  previsione  di  requisiti  di
onorabilita' degli eletti che si perviene all'obiettivo di garantire,
attraverso  l'integrita'  del  processo   democratico,   nonche'   la
trasparenza e la tutela dell'immagine dell'amministrazione,  l'ordine
pubblico e la sicurezza. 
    In conclusione si deve  dunque  escludere  che,  nel  caso  della
sospensione automatica disciplinata dal censurato art.  8,  comma  1,
lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012, si  versi  in  un'ipotesi  di
intreccio  inestricabile  di  materie,  di   competenza   statale   e
regionale, non risolvibile con il criterio  della  prevalenza  e,  di
conseguenza,  che  sia  stato   violato   il   principio   di   leale
collaborazione  per  mancato  coinvolgimento  delle   regioni   nella
formazione del decreto legislativo in cui la disposizione  contestata
e' contenuta. 
    3.- Con la seconda questione  -  che,  come  visto,  si  pone  in
rapporto di logica subordinazione rispetto alla  prima  -  l'art.  8,
comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012  e'  censurato  nella
parte in cui prevede  l'applicazione  della  misura  cautelare  della
sospensione come automatica conseguenza  della  condanna  penale  non
definitiva per determinati reati e preclude cosi' al giudice chiamato
a pronunciarsi sul provvedimento sospensivo di valutare  in  concreto
la proporzionalita' «tra i fatti oggetto di  condanna»  e  la  stessa
sospensione. 
    Sarebbe pertanto violato l'art.  3  Prot.  add.  CEDU,  alla  cui
stregua, sotto la rubrica «Diritto a  libere  elezioni»,  «[l]e  Alte
Parti  contraenti  si   impegnano   a   organizzare,   a   intervalli
ragionevoli, libere elezioni a scrutinio segreto, in condizioni  tali
da assicurare la libera espressione dell'opinione  del  popolo  sulla
scelta  del  corpo  legislativo».  Ad  avviso  del   rimettente,   la
disposizione  convenzionale,  come  interpretata  dalla  Corte   EDU,
consentirebbe di limitare il diritto di  elettorato  passivo  solo  a
condizione che le eventuali restrizioni  derivino  «da  un  "processo
decisorio   individualizzato"   [...]   tendenzialmente   di   natura
giurisdizionale», perche'  solo  in  questo  modo  sarebbe  possibile
valutare la proporzionalita' della misura e verificare l'esistenza di
un collegamento tra il fatto commesso e l'impossibilita' di ricoprire
la carica elettiva. 
    3.1.- Sebbene il rimettente invochi l'art. 3 Prot.  addiz.  CEDU,
omettendo di  richiamare  esplicitamente  l'art.  117,  primo  comma,
Cost., e' in riferimento a tale ultima  previsione  -  rispetto  alla
quale la citata norma convenzionale  funge  da  parametro  interposto
(sentenze n. 348 e n. 349 del 2007) - che  la  censura  puo'  e  deve
intendersi   effettivamente    proposta.    Secondo    la    costante
giurisprudenza di questa Corte, infatti, la questione di legittimita'
costituzionale  deve  essere  scrutinata  avendo  riguardo  anche  ai
parametri costituzionali non formalmente  evocati  ma  desumibili  in
modo univoco dall'ordinanza di rimessione, qualora tale atto faccia a
essi chiaro, sia pure implicito, riferimento mediante il richiamo  ai
principi da questi enunciati (ex plurimis, sentenze n. 5 del 2021, n.
227 del 2010, n. 170 del 2008, n. 26 del 2003, n. 69 del 1999 e n. 99
del 1997). 
    Questo e' quanto accade nel caso in esame, in cui  il  giudice  a
quo, pur avendo formalmente indicato solo l'art. 3 Prot. addiz. CEDU,
mostra di avere censurato l'art. 8, comma 1, lettera a),  del  d.lgs.
n.  235  del  2012  con  univoco,  ancorche'  implicito,  riferimento
all'art. 117, primo comma, Cost., come e' agevole desumere dal tenore
complessivo dell'ordinanza di rimessione, in  cui  si  sottolinea  la
necessita' costituzionale  che  l'ordinamento  nazionale  osservi  la
citata norma convenzionale, e come e'  del  resto  significativamente
confermato dal fatto che  lo  stesso  Presidente  del  Consiglio  dei
ministri  intervenuto  in  giudizio  ha  impostato  la   sua   difesa
richiamando testualmente l'art. 117, primo  comma,  Cost.,  e  dunque
assumendone anch'esso come pacifica l'evocazione. 
    3.2.- Nel merito, nemmeno la seconda questione e' fondata. 
    3.2.1.- I termini in cui e' prospettata impongono un  preliminare
riferimento all'interpretazione dell'art.  3  Prot.  addiz.  CEDU  ad
opera dalla Corte EDU e ai  principi  dalla  stessa  formulati  sulla
portata generale della garanzia in esso prevista e sulle  limitazioni
che gli Stati possono introdurre in ragione della particolare  natura
del diritto di elettorato, in specie di quello passivo. 
    In via generale, la Corte  di  Strasburgo  ha  affermato  che  la
disposizione contenuta nell'art. 3 Prot. addiz. CEDU,  pur  formulata
in termini di impegno degli Stati contraenti «a organizzare  elezioni
[...]  in  condizioni  tali  da  assicurare  la  libera   espressione
dell'opinione del popolo sulla scelta del  corpo  legislativo»,  deve
essere interpretata - alla luce dei lavori preparatori e  nel  quadro
della Convenzione considerata nel suo insieme - nel  senso  che  essa
garantisce diritti soggettivi, comprendenti il diritto di  voto  (che
ne rappresenta l'aspetto "attivo") e il diritto di  presentarsi  alle
elezioni  (costituente  l'aspetto  "passivo")  (ex  plurimis,   Corte
europea dei diritti dell'uomo,  grande  camera,  sentenza  6  ottobre
2005, Hirst contro Regno Unito, n. 2, paragrafi 56 e 57;  sentenza  2
marzo 1987, Mathieu-Mohin e Clearfayt contro Belgio, paragrafi da  46
a 51). 
    Ha precisato ancora che il diritto di presentarsi  alle  elezioni
copre anche il periodo post-elettorale, convertendosi nel diritto  di
esercitare il mandato come membro del corpo legislativo  (Corte  EDU,
sentenza 24 maggio 2016,  Paunović  and  Milivojević  contro  Serbia,
paragrafo 58), e che quest'ultima nozione, a sua volta,  deve  essere
interpretata alla luce della  struttura  costituzionale  del  singolo
Stato (Corte EDU, sentenza Mathieu-Mohin e Clearfayt  contro  Belgio,
paragrafo 53), includendo in  particolare,  per  quanto  riguarda  il
nostro Paese, i consigli regionali, in quanto dotati di  attribuzioni
e di  poteri  sufficientemente  ampi  da  essere  qualificabili  come
elementi del corpo legislativo dello Stato nel suo  complesso  (Corte
EDU, sentenza 1° luglio  2004,  Vito  Sante  Santoro  contro  Italia,
paragrafo 52). 
    Quanto alle limitazioni apportabili dal legislatore nazionale  ai
diritti di elettorato attivo e passivo, la Corte EDU ha precisato che
si tratta di diritti non assoluti, che possono essere  fatti  oggetto
di «limitazioni implicite», rispetto alle quali gli Stati  contraenti
godono di un ampio margine di valutazione, in ragione,  tra  l'altro,
delle  peculiarita'  storiche,  politiche  e  culturali  di   ciascun
ordinamento  (ex  plurimis,  Corte  EDU,  sentenza  15  giugno  2006,
Lykourezos contro Grecia, paragrafo 51; sentenza Hirst  contro  Regno
Unito, n. 2, paragrafi 61 e 62; sentenza  Mathieu-Mohin  e  Clearfayt
contro Belgio, paragrafo 52). 
    Il carattere «implicito» delle limitazioni  ammissibili  consente
agli Stati  contraenti  di  introdurre  misure  restrittive  di  tali
diritti anche per finalita' non  incluse  in  elenchi  precisi,  come
quelle enumerate agli articoli da 8 a 11 della  CEDU,  purche'  nelle
particolari  circostanze  del  caso  concreto   sia   dimostrata   la
compatibilita' del fine perseguito con il principio del primato della
legge e con gli obiettivi generali della Convenzione. Per  la  stessa
ragione, nel vagliare la compatibilita' delle  possibili  limitazioni
con le garanzie  assicurate  dalla  Convenzione,  la  Corte  EDU  non
applica i test tradizionali usati nella verifica del  rispetto  degli
stessi articoli da 8 a 11 della Convenzione, basati sui criteri della
necessita' o  dell'urgente  bisogno  sociale,  ma  fa  riferimento  a
criteri diversi e specifici. In base  ad  essi,  in  particolare:  le
limitazioni del diritto di voto  e  del  diritto  di  candidarsi  non
devono  violarne  la  sostanza,  ne'  privarli  di  effettivita';  le
restrizioni devono perseguire un fine legittimo, compatibile  con  il
principio del primato della legge e con gli obiettivi generali  della
CEDU, e segnatamente con la protezione dell'indipendenza dello Stato,
dell'ordine  democratico  e  della  sicurezza  nazionale;   i   mezzi
impiegati non devono essere sproporzionati (ex plurimis,  Corte  EDU,
grande camera, sentenza  27  aprile  2010,  Tănase  contro  Moldavia,
paragrafo 161; sentenza 6 novembre 2009, Etxeberria  e  altri  contro
Spagna, paragrafo 47; sentenza 5 aprile 2007, Kavakçi contro Turchia,
paragrafo  41;  sentenza  Lykourezos  contro  Grecia,  paragrafo  52;
sentenza Vito Sante Santoro contro  Italia,  paragrafo  54;  sentenza
Hirst contro Regno Unito, n. 2, paragrafo 62). 
    Quanto in particolare alle restrizioni al diritto di voto nel suo
aspetto "passivo", il controllo della Corte EDU e'  poi  ancora  piu'
prudente, sul dichiarato presupposto  che  al  legislatore  nazionale
deve essere riconosciuto il potere  di  disciplinare  il  diritto  di
presentarsi alle elezioni, circondandolo di cautele  rigorose,  anche
piu' stringenti di quelle predisposte per il  diritto  di  elettorato
attivo (Corte EDU, grande camera, sentenza  16  marzo  2006,  Ždanoka
contro Lettonia, paragrafo 115; sentenza Hirst contro Regno Unito, n.
2, paragrafi da 57 a 62). In questa ipotesi viene infatti in gioco la
peculiare esigenza di garantire  stabilita'  ed  effettivita'  di  un
sistema democratico nel quadro del  concetto,  del  quale  la  stessa
Corte ha riconosciuto  la  legittimita',  di  «democrazia  capace  di
difendere se stessa» (Corte EDU, sentenza  Ždanoka  contro  Lettonia,
paragrafo 100). 
    A tale riconosciuta possibilita'  per  gli  Stati  contraenti  di
imporre in questi casi requisiti piu' stringenti  corrisponde  dunque
in sostanza, nella valutazione della Corte di Strasburgo  ex  art.  3
Prot.  addiz.  CEDU,  una  minore  severita'  nel   sindacato   sulla
proporzionalita' dei mezzi impiegati  nella  limitazione,  nel  senso
che, mentre quando si tratti del  diritto  di  elettorato  attivo  la
verifica consiste normalmente in  un'approfondita  valutazione  della
proporzionalita' delle previsioni che  escludono  una  persona  o  un
certo gruppo di persone, quella operata sulle limitazioni al  diritto
di elettorato passivo e' mantenuta nei limiti dell'accertamento della
non arbitrarieta' delle misure nazionali  che  privano  un  individuo
dell'eleggibilita' (ex plurimis, Corte  EDU,  sentenza  Etxeberria  e
altri contro Spagna, paragrafo 49; sentenza Ždanoka contro  Lettonia,
paragrafo 115). 
    3.2.2.- Cio' premesso, si puo' passare all'esame della  specifica
violazione dell'art. 3 Prot. addiz. CEDU lamentata dal rimettente. 
    Secondo il giudice a quo, l'art. 8,  comma  1,  lettera  a),  del
d.lgs. n. 235  del  2012,  precludendo  al  giudice  di  valutare  in
concreto, secondo il criterio della proporzionalita', la gravita' del
fatto accertato penalmente rispetto all'esigenza  perseguita  con  la
sospensione, si porrebbe in contrasto  con  la  giurisprudenza  della
Corte di Strasburgo, secondo cui le limitazioni di qualsiasi tipo  al
diritto di  voto  dovrebbero  conseguire  a  un  "processo  decisorio
individualizzato",   e   piu'   precisamente   a   un   provvedimento
giurisdizionale personalizzato, idoneo a garantire una verifica sulla
proporzionalita' della  misura  e  la  sussistenza  di  un  effettivo
collegamento tra essa e i fatti a causa dei quali essa e' applicata. 
    Al riguardo occorre tuttavia osservare che, nei termini  indicati
dal rimettente, la Corte di Strasburgo si e' espressa soltanto in una
isolata pronuncia (Corte EDU, sentenza 8 aprile  2010,  Frodl  contro
Austria, paragrafi 34 e 35), a fronte della quale si  e'  consolidato
invece un diverso  orientamento  della  grande  camera  della  stessa
Corte, che  riconosce  la  possibilita'  che  sia  il  legislatore  a
determinare nel dettaglio lo scopo e  le  condizioni  di  una  misura
restrittiva, e che, in questo caso, sia lasciato ai giudici  solo  il
compito di verificare se un determinato soggetto  appartenga  o  meno
alla categoria o al gruppo contemplato nella  previsione  di  cui  si
tratta,  con  esclusione  di  apprezzamenti   giurisdizionali   sulla
proporzionalita' della singola misura (Corte EDU, sentenza 22  maggio
2012, grande camera, Scoppola contro Italia, n. 3, paragrafi da 97  a
102, dove  si  confuta  l'interpretazione  assunta  in  Frodl  contro
Austria; sentenza Ždanoka contro Lettonia, paragrafi da 112 a  115  e
125). 
    Nei  suoi  sviluppi  piu'  recenti   e   compiuti,   dunque,   la
giurisprudenza della Corte EDU non postula affatto la necessita'  che
l'applicazione in concreto delle misure restrittive  del  diritto  di
voto  avvenga  attraverso  un  provvedimento  giurisdizionale,   come
sostiene il rimettente, e afferma invece  che  gli  Stati  contraenti
possono scegliere se affidare alla giurisdizione la  valutazione  del
carattere  proporzionale  della  misura  o  se   "incorporare"   tali
apprezzamenti nel testo delle loro leggi, con la precisa definizione,
direttamente in esse, delle circostanze in cui la misura stessa  puo'
essere  applicata.  In  questo  secondo  caso,  il  legislatore  puo'
bilanciare a priori gli interessi in gioco, con il limite del divieto
di introdurre restrizioni generali e indiscriminate. Spettera' poi in
ogni caso alla Corte EDU di stabilire se, in una determinata ipotesi,
il risultato sia stato raggiunto, se il limite sia stato rispettato e
se, in generale, la soluzione regolativa prescelta ovvero, nell'altro
caso, la decisione giudiziale siano conformi all'art. 3 Prot.  addiz.
CEDU (Corte EDU, sentenza Scoppola contro  Italia,  n.  3,  paragrafo
102). 
    Alla luce di quanto esposto si deve  pertanto  escludere  che  la
disposizione censurata contrasti con l'art. 3 Prot. addiz. CEDU  solo
perche' non affida ai giudici nazionali il potere di individualizzare
pienamente la sua applicazione alla luce della  specifica  situazione
di un soggetto e delle  circostanze  particolari  del  caso  concreto
(Corte EDU, sentenza Ždanoka contro Lettonia,  paragrafo  125).  Essa
costituisce invero legittimo  esercizio,  da  parte  dell'ordinamento
nazionale, del margine di apprezzamento  che  la  Convenzione  lascia
agli Stati nella disciplina della materia, in ragione del  fatto  che
le  particolari  condizioni  di  sviluppo  storico,   di   diversita'
culturale e  di  pensiero  politico  che  caratterizzano  le  singole
esperienze nazionali modellano, per ciascuna, una sua propria visione
democratica (Corte  EDU,  sentenza  Scoppola  contro  Italia,  n.  3,
paragrafo 102). La soluzione adottata  in  concreto  nell'ordinamento
nazionale,  di  individuare  legislativamente   le   condizioni   per
l'applicazione della restrizione e di riservare ai  giudici  solo  la
verifica della loro sussistenza - in particolare  se  un  determinato
soggetto appartenga alla categoria  o  al  gruppo  contemplato  nella
previsione legislativa - senza  apprezzamenti  da  operare  nel  caso
specifico, non risulta priva di  ragioni,  attese  la  portata  e  la
delicatezza, anche in termini di conseguenze politiche, del  giudizio
sulla permanenza in carica degli  eletti,  cosi'  come,  nelle  altre
ipotesi disciplinate nella medesima normativa del  2012,  sulla  loro
candidabilita'. Si tratta in ogni caso di una scelta legislativa  che
supera agevolmente il controllo di non arbitrarieta', stante  che  la
prevista restrizione del diritto di elettorato passivo  non  presenta
portata ne' generalizzata ne' indiscriminata, essendo circoscritta  a
una precisa e alquanto limitata categoria di soggetti, costituita  da
coloro che hanno subito condanne per determinati tipi di reati  -  la
cui individuazione ad opera del legislatore resta  comunque  estranea
alle censure del rimettente - particolarmente gravi  o  di  specifico
rilievo  in  funzione  dell'attitudine  a  incidere  sull'immagine  e
l'onorabilita'  della  pubblica  amministrazione,   come   si   dira'
appresso. 
    Nella sua sostanza, infine, la scelta operata  con  il  censurato
art. 8, comma 1, lettera a), del d.lgs. n. 235 del 2012  si  pone  in
linea con le finalita' che, secondo la  stessa  giurisprudenza  della
Corte EDU, possono legittimare misure di questo tipo, come quella  di
proteggere   l'integrita'   del   processo    democratico    mediante
l'esclusione  dalla   partecipazione   all'attivita'   degli   organi
rappresentativi di individui che possono  pregiudicarne  il  corretto
funzionamento (Corte EDU, sentenza Ždanoka contro Lettonia, paragrafo
122). 
    3.2.3.- Si deve ancora escludere che la norma censurata contrasti
con l'art. 3 Prot.  addiz.  CEDU  sotto  il  diverso  -  e  in  parte
concorrente  -  profilo  della  mancata  previsione  in  essa  di  un
collegamento tra la sospensione e  i  fatti  oggetto  della  condanna
penale,  tenuto  conto  della  loro  gravita'  nonche'   della   loro
connessione con la carica esercitata al  momento  della  sospensione.
Cio' che piu' precisamente il giudice a quo lamenta e'  il  carattere
potenzialmente   sproporzionato   della   misura,   derivante   dalla
presunzione assoluta di pericolo operata dalla  norma,  pericolo  che
potrebbe in concreto non sussistere, «come ad esempio nel caso in cui
l'illecito fosse relativo ad  una  carica  pregressa  e  mutata,  con
impossibilita' nella nuova carica di reiterare la condotta». 
    Secondo il costante orientamento di questa Corte - che si colloca
nel solco tracciato da sentenze su analoghe disposizioni previgenti -
le misure dell'incandidabilita', della decadenza e della  sospensione
dalle cariche elettive previste nel d.lgs. n. 235 del 2012, ancorche'
collegate alla  commissione  di  un  illecito,  non  hanno  carattere
sanzionatorio e rappresentano solo conseguenze del venir meno  di  un
requisito   soggettivo   per   l'accesso   alle   cariche   pubbliche
considerate. La sospensione dalla carica, in  particolare,  «risponde
ad esigenze proprie della funzione amministrativa  e  della  pubblica
amministrazione presso cui il soggetto  colpito  presta  servizio»  e
costituisce, per  la  sua  natura  provvisoria,  «misura  sicuramente
cautelare» (ex plurimis, sentenze n. 276 del 2016 e n. 236 del 2015).
Il legislatore ha infatti considerato che la permanenza in carica  di
chi sia stato condannato anche in via non definitiva per  determinati
reati che offendono la pubblica amministrazione - come  il  peculato,
per  il  quale  e'  stato  condannato  il  ricorrente  nel   giudizio
principale - puo' comunque incidere  sugli  interessi  costituzionali
protetti  dall'art.  97,  secondo  comma,  Cost.,   che   affida   al
legislatore il compito di organizzare i pubblici uffici in  modo  che
siano    garantiti    il    buon    andamento    e    l'imparzialita'
dell'amministrazione, e  dall'art.  54,  secondo  comma,  Cost.,  che
impone ai cittadini cui sono affidate funzioni pubbliche il dovere di
adempierle con disciplina ed onore (sentenza n.  36  del  2019,  resa
sull'art. 11, comma 1, lettera a, del d.lgs. n. 235 del 2012, ma  con
argomenti estensibili all'analoga misura  prevista  dalla  norma  qui
censurata). 
    Se questo  e'  il  fine  perseguito  dal  legislatore  -  la  cui
legittimita' non e' dubitabile, come  visto,  ai  sensi  dell'art.  3
Prot. addiz. CEDU - la modalita' prescelta per realizzarlo non e'  in
contrasto con il criterio della proporzionalita', costituendo  invece
il frutto di un  ragionevole  bilanciamento  tra  gli  interessi  che
vengono in gioco nella disciplina dei requisiti per  l'accesso  e  il
mantenimento delle cariche in questione, e quindi tra il  diritto  di
elettorato passivo, da un lato, e il buon andamento e l'imparzialita'
dell'amministrazione, dall'altro. 
    Come gia' osservato, la sospensione cautelare in esame non  trova
applicazione generalizzata e indifferenziata, ma e' riservata  a  una
platea delimitata di soggetti, costituita dai condannati in  via  non
definitiva  per  reati  direttamente  connessi  alle   funzioni   che
sarebbero chiamati ad assumere, perche' di particolare  gravita'  (ex
art. 7, comma 1, lettere a e b, del d.lgs. n. 235 del 2012) o perche'
commessi contro la pubblica amministrazione  (ex  art.  7,  comma  1,
lettera c, del d.lgs. n. 235 del 2012). In ordine  a  tali  reati  le
esigenze di  tutela  del  buon  andamento  e  della  legalita'  della
pubblica amministrazione, anche sotto il  profilo  della  perdita  di
immagine degli apparati pubblici, sono di immediata  evidenza  e  non
richiedono indagini  o  apprezzamenti  ulteriori  rispetto  a  quelli
operati dal legislatore. 
    In secondo luogo, si tratta di una misura caratterizzata  da  una
strutturale provvisorieta' e dalla gradualita' nel tempo  dei  propri
effetti,  in  attesa  che  l'accertamento  penale  si  consolidi  nel
giudicato, determinando la decadenza dalla carica (art. 8,  comma  6,
del d.lgs. n. 235  del  2012).  La  sospensione,  infatti,  cessa  di
diritto di produrre effetti decorsi diciotto mesi,  salvo  che  entro
questo termine la sentenza di condanna sia confermata in appello, nel
quale caso decorre un ulteriore periodo di sospensione di dodici mesi
(art. 8, comma 3, del d.lgs. n. 235 del 2012). Come questa  Corte  ha
gia' osservato con  riguardo  all'analoga  previsione  dell'art.  11,
comma 4, del d.lgs. n. 235 del 2012 (sentenza n. 36 del  2019,  punto
4.1. del Considerato in diritto),  la  disciplina  richiamata  e'  il
risultato di un ulteriore bilanciamento delle descritte  esigenze  di
tutela della pubblica amministrazione,  da  un  lato,  e  dell'eletto
condannato, dall'altro, diretto a temperare  gli  effetti  automatici
della sentenza di condanna non definitiva in ragione del  trascorrere
del tempo e della progressiva stabilizzazione della stessa pronuncia,
con l'obiettivo di evitare un'eccessiva compressione del  diritto  di
elettorato passivo. 
    Inoltre,  le  esigenze  cautelari  che  la  sospensione  mira  ad
assicurare non vanno identificate nel pericolo  di  reiterazione  del
reato, come erroneamente ritiene il giudice a quo,  ma,  come  visto,
nella mera possibilita' che  la  permanenza  dell'eletto  nell'organo
elettivo determini una lesione dell'interesse pubblico  tutelato.  La
misura non assolve invero  a  funzioni  sanzionatorie  o  di  cautela
penale,  ma  e'  semplicemente  diretta   a   garantire   l'oggettiva
onorabilita' di chi riveste la carica  pubblica  di  cui  si  tratta,
sicche' nei suoi riguardi - come questa Corte ha piu' volte affermato
- se un'esigenza di proporzionalita' e' prospettabile, questa non  e'
rispetto al reato commesso (e, si deve  precisare  qui,  al  pericolo
della sua reiterazione, di cui la norma censurata non si occupa),  ma
rispetto all'esigenza cautelare perseguita (ex plurimis, sentenze  n.
276 del 2016 e n. 25 del 2002, quest'ultima sull'analoga  sospensione
gia' prevista dall'art. 15 della legge 19 marzo 1990, n. 55,  recante
«Nuove disposizioni per la  prevenzione  della  delinquenza  di  tipo
mafioso e di altre gravi forme  di  manifestazione  di  pericolosita'
sociale»), in una logica che prescinde dalla gravita'  del  fatto  di
reato e dalla pena in concreto irrogata. 
    Se percio' il collegamento tra sospensione e condanna e'  operato
all'esclusivo scopo di realizzare le esigenze  cautelari  costituenti
il fine legittimo della misura,  la  sospensione  non  dipende  dalla
concreta gravita' dei fatti per i quali vi e' stata condanna, ma solo
da quest'ultima, che costituisce l'oggettivo presupposto  perche'  si
produca  l'effetto  ulteriore  e  distinto  previsto   dalla   norma,
destinato a operare in modo autonomo ed "esterno" rispetto all'azione
pubblica di repressione penale (sentenza n. 276 del 2016).  Ne',  per
le medesime ragioni, rileva che il fatto di reato accertato abbia una
qualche incidenza, anche temporale, sull'esercizio del mandato. 
    Esaminata da questo angolo visuale, la sospensione dalla  carica,
rigorosamente  circoscritta  nel  tempo   e   destinata   a   cessare
immediatamente nel  caso  di  sopravvenuti  non  luogo  a  procedere,
proscioglimento  o   assoluzione   dell'eletto,   non   puo'   essere
considerata inadeguata o eccedente rispetto al fine perseguito. 
    3.2.4.- In conclusione, anche tenuto conto dell'ampio margine  di
apprezzamento riconosciuto al legislatore nazionale nella  disciplina
del diritto di elettorato passivo, si deve ritenere che  la  concreta
regolazione della misura della sospensione cautelare contenuta  nella
norma censurata operi - per la platea delimitata di soggetti ai quali
si applica, per la temporaneita' e la gradualita' dei  suoi  effetti,
per la legittimita' dei suoi fini e per la sua  adeguatezza  rispetto
alle specifiche esigenze cautelari perseguite - un non  irragionevole
bilanciamento degli interessi in gioco e in ogni  caso  non  presenti
sintomi di arbitrarieta' tali da determinarne il contrasto con l'art.
3 Prot. addiz. CEDU come interpretato dalla Corte EDU. 
      
 
                          per questi motivi 
                       LA CORTE COSTITUZIONALE 
 
    dichiara non fondate le questioni di legittimita'  costituzionale
dell'art. 8, comma 1, lettera a), del decreto legislativo 31 dicembre
2012,  n.  235  (Testo  unico  delle  disposizioni  in   materia   di
incandidabilita' e di divieto di  ricoprire  cariche  elettive  e  di
Governo conseguenti a sentenze definitive di condanna per delitti non
colposi, a norma dell'articolo 1, comma 63, della  legge  6  novembre
2012, n. 190),  sollevate  dal  Tribunale  ordinario  di  Genova,  in
riferimento agli artt. 117 e 122 della Costituzione e al principio di
leale collaborazione, nonche'  in  riferimento  all'art.  117,  primo
comma, Cost., quest'ultimo in relazione  all'art.  3  del  Protocollo
addizionale  alla  Convenzione  per  la  salvaguardia   dei   diritti
dell'uomo e delle liberta' fondamentali, firmato a Parigi il 20 marzo
1952, con l'ordinanza indicata in epigrafe. 
 
    Cosi' deciso in Roma,  nella  sede  della  Corte  costituzionale,
Palazzo della Consulta, il 9 febbraio 2021. 
 
                                F.to: 
                   Giancarlo CORAGGIO, Presidente 
                     Daria de PRETIS, Redattrice 
                    Filomena PERRONE, Cancelliere 
 
    Depositata in Cancelleria l'11 marzo 2021. 
 
                           Il Cancelliere 
                       F.to: Filomena PERRONE 
 
 
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