di Carlo Rapicavoli –
Sulle Province, sull’urgenza della riforma, si è detto e scritto di tutto; negli ultimi anni è stata una gara fra i nostri “giornalisti di inchiesta”.
Il 2011 è l’anno del “salva Italia”: l’Italia si salva grazie anche alla riforma delle Province; e così un crescendo di atti, di decreti – poi dichiarati incostituzionali -, di accorpamenti, di tagli, di riordini.
Si giunge “finalmente” all’approvazione della Legge 56/2014, la legge Delrio, che avrebbe dovuto porre fine alle ipotesi più o meno fantasiose di riforma, dettando un preciso iter per il riordino.
Pur aspramente criticata, anche da chi scrive, (si rinvia a precedenti interventi sull’argomento) per non avere affrontato e risolto molti aspetti critici, tuttavia doveva considerarsi definita la scelta del legislatore.
Fatto sta che con due interventi normativi in meno di sei mesi è stata stravolta e resa inapplicabile la riforma Delrio: prima il D. L. 66/2014, che impone tagli (meglio chiede alle Province di versare allo Stato cifre considerevoli dai bilanci già gravati dagli interventi normativi succedutisi dal 2011) pesanti e poi, soprattutto, con la legge di stabilità (Legge 190/2014) che interviene sulle dotazioni organiche e sui bilanci, prescindendo completamente dall’iter di riordino delle funzioni delineato dalla legge Delrio.
Malgrado questo, con l’eccezione di qualche sporadico intervento correttamente informato, si susseguono le “inchieste” sulle Province.
E’ un tema di sicuro effetto, fa vendere di certo qualche copia in più; in un periodo, ormai troppo lungo, di sistematica demolizione del sistema pubblico, colpire un bersaglio facilissimo è un gioco da ragazzi che, comunque, garantisce sempre qualche applauso.
Ed ecco l’ultima “inchiesta”, quella del settimanale Espresso, lanciata con grande enfasi proprio in concomitanza con l’ennesima celebrazione di anniversari e di promozione per vendere più copie.
Cosa c’è di meglio delle Province? e del richiamo “inedito e originale” al Gattopardo? Il più classico dei classici esempi…
Rinviando all’esaustivo commento nel merito di Luigi Oliveri, che da par suo confuta nel migliore dei modi i contenuti, mi limito ad andare ancora più contro corrente, senza timore di considerare indegna di definirsi “inchiesta giornalistica” una raccolta di luoghi comuni sui dipendenti pubblici, e sui dipendenti provinciali nel caso specifico, di sempre sicuro effetto. Il dipendente che dorme sulla scrivania, quelli che vanno al bar, ecc.
Ottima strategia, raccontata con maestria, per condurre il lettore – “mettetevi comodi, scrive il giornalista, nel leggere questo viaggio nel caos dell’intramontabile Provincia…” – all’unica conclusione possibile: chiudiamo pure le Province, nessuno si accorgerà, evitiamo di avere ancora parassiti della società.
Gli immancabili dati sul “crack” rendono ancora più credibile l’inchiesta, uniti ai dati sul costo del personale.
Nessuno si accorgerà che manca ogni serio approfondimento.
Lo squilibrio finanziario di cui si parla è determinato solo dalla legge dello Stato e dalla riduzione insostenibile della spesa a fronte delle funzioni da svolgere. Dettaglio ignorato dall’inchiesta.
Quando si parla del personale, ci si guarda bene dal ricordare che la spesa comprende il personale tecnico che si occupa della viabilità provinciale (gestione di circa 145 mila chilometri di strade in Italia), dell’edilizia scolastica (gestione di oltre 5000 edifici scolastici, quasi 120 mila classi e oltre 2 milioni e 500 mila allievi), di servizi e infrastrutture per la tutela ambientale (difesa del suolo, prevenzione delle calamità, tutela delle risorse idriche ed energetiche e della qualità dell’aria; smaltimento dei rifiuti); vi sono gli insegnati dei corsi di formazione professionale, il personale che cura la gestione dei servizi di collocamento attraverso 854 Centri per l’impiego, oltre agli addetti alle funzioni in materia di caccia, pesca, agricoltura, sviluppo economico, turismo, cultura, sport, servizi sociali.
Tutto questo non è importante in un inchiesta giornalistica; no, serve sottolineare che c’è un dipendente che dorme sulla scrivania o qualcuno che va al bar.
Se occorre fare una statistica di infedeltà al lavoro, sarà utile anche questo; ma non certo per dimostrare, come recita il titolo, che “l’abolizione dell’ente non ha cambiato nulla. Tra impiegati che dormono sulle scrivanie e dirigenti che saltano su poltrone migliori”.
Semplicemente per alcuni dati di fatto ignorati:
1) Le Province non sono state abolite: è stata approvata una legge di riordino degli organi di governo, non più eletti dai cittadini ma con elezione di secondo grado e delle funzioni;
2) Gli impiegati che dormano sulle scrivanie: l’inchiesta ne rileva due. Ottimo dato per giungere ad una conclusione generalizzata.
Ma davvero può essere questo il giornalismo di inchiesta? Incapace di entrare nel merito delle questioni vere, fermandosi ancora e sempre e soltanto sugli aspetti da dare in pasto ad un’opinione pubblica disorientata e sempre più lontana dalle Istituzioni.
Si fa davvero informazione mettendo alla gogna qualche decina di migliaia di dipendenti pubblici che lavorano ogni giorno, al meglio delle loro possibilità, per continuare ad erogare quei servizi essenziali (scuola, viabilità, ambiente, ecc.), che nemmeno il più integralista dei giornalisti di inchiesta del nostro Paese può giungere a considerare inutili, malgrado ogni giorno siano bersaglio facile di insulti gratuiti, tacciati di parassitismo mai dimostrato, solo per trovarsi, malauguratamente per loro, a lavorare per le tanto vituperate Province.
C’è qualcuno che ha mai seriamente analizzato, con dati scientifici seri, la produttività di questi dipendenti, la qualità dei servizi resi in rapporto ai costi, paragonati, ad esempio, agli stessi servizi resi in altri Paesi europei?
Qualcuno dei tanti soloni che in questi anni insistono sull’esigenza di eliminare i livelli intermedi di rappresentanza dei cittadini che ha mai approfondito quale dovrebbe essere l’ambito territoriale ottimale per gestire la viabilità, l’edilizia scolastica, le difesa del suolo, ecc. e quali dovrebbero essere le risorse minime da assegnare a tali servizi?
E’ stato mai valutato, con dati oggettivi, se il trasferimento, ad altri livelli di governo, di alcune funzioni oggi svolte dalle Province possa migliorare l’efficienza complessiva sia delle prestazioni fornite dalla pubblica amministrazione sia del funzionamento specifico degli organismi provinciali?
Il trasferimento di funzioni può, infatti, essere utile ma anche dannoso. Nelle funzioni “storiche” – viabilità, gestione del territorio, ecc. – la provincia ha svolto negli anni il delicato ruolo di allocare risorse scarse, valorizzando la conoscenza del territorio ma anche il ruolo istituzionale che le deriva dalla rappresentanza democratica.
Spesso, inoltre, questo ruolo è stato esercitato per esplicita delega dello stato e delle regioni: ci si è mai attentamente interrogati sui motivi che hanno portato nel tempo a fare questa scelta per vedere se sono venuti meno o permangono?
Perché si continua soltanto a discutere dell’ente Provincia, ignorando che invece, anche dopo lariforma Delrio, la nuova Provincia potrebbe condurre alla ricomposizione di alcune funzioni oggi disperse in enti come gli ATO, i consorzi di bonifica, le agenzie ed altri enti strumentali, che meglio potrebbero essere gestiti nell’ambito di organismi di maggior dimensioni e soggetti al controllo democratico, anche se di secondo livello?.
Approfondire tutti questi aspetti è molto pericoloso, perché potrebbe condurre a conclusioni non gradite certamente meno spendibili.
Molto più semplice, efficace e produttivo è dunque continuare ad indicare le Province come l’emblema dell’inefficienza del nostro sistema; e allora – “che diamine…? – per dirla con le parole di Manzoni, – ecco l’untore! dàgli! dàgli! dàgli all’untore!”, a quel “provinciale” che ogni giorno continua a fare il suo lavoro malgrado tutto e tutti.