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Le criticità del disegno di legge Delrio su Province e Città Metropolitane

di Carlo Rapicavoli –

E’ all’esame della Commissione Affari Costituzionali della Camera dei Deputati il disegno di legge AC 1542 “recante disposizioni sulle città metropolitane, sulle province, sulle unioni e fusioni di comuni”.

E’ in corso la presentazione degli emendamenti. Il 25 novembre il testo dovrebbe passare all’esame dell’aula.

L’Unione delle Province Italiane ha in più occasioni e con dati ufficiali, provenienti dal Ministero dell’Economia e dalla Corte dei Conti, dimostrato le criticità della proposta di riforma ed i maggiori costi che ne deriverebbero, oltre ai vari dubbi legati alla carenza di un disegno organico e di chiare disposizioni sull’assetto delle funzioni, sul patrimonio, sul personale, sui mutui contratti dalle Province, sulle partecipazioni societarie, sul patto di stabilità.

Ma è utile evidenziare che nel corso delle audizioni informali dinnanzi alla Commissione, sono numerose ed autorevoli le voci critiche, sia politico-amministrative che giuridiche e contabili.

Segnaliamo alcune tra le principali osservazioni critiche.

Il Servizio Studi della Camera dei Deputati nel documento n. 77 in data 8 ottobre 2013 elenca una serie di criticità del disegno di legge.

Va ricordato l’appello sottoscritto da 44 tra i migliori giuristi del Paese, tra cui alcuni componenti della Commissione per le Riforme Costituzionali nominata dal Presidente del Consiglio Letta, in cui si sottolinea come “ogni ipotesi di soppressione o decostituzionalizzazione delle Province appare contraddittoria e in contrasto con i principi autonomistici della Costituzione e con la Carta europea delle autonomie locali: infatti, le funzioni di area vasta che caratterizzano il livello provinciale non sono attribuibili né ai Comuni (nei cui confronti sono esercitate) né alle Regioni (enti di programmazione, non di gestione). Ma appare anche incoerente con gli obiettivi proclamati, perché produrrebbe aggravi di costi, paralisi o complicazioni decisionali (si pensi a enti intermedi in forma associativa tra Comuni), rischi di distruzione di apparati e di competenze tecniche oggi essenziali sul territorio, anche per la tutela della legalità contro la corruzione e la criminalità organizzata e la qualità dell’amministrazione”.

Nel corso dell’audizione del 6 novembre scorso, la Corte dei Conti, in un articolato documento depositato agli atti della Camera, ha affermato come “si profilano dubbi sugli effettivi risparmi” della riforma in quanto “dal punto di vista finanziario il disegno di legge si basa sull’assunto della invarianza degli oneri in quanto si tratterebbe di un passaggio di risorse e funzioni dalla Provincia ad agli altri enti territoriali. Una costruzione, questa, il cui presupposto appare però tutto da dimostrare nella sua piena sostenibilità”.

La stessa Corte pone piuttosto l’attenzione sull’esigenza di dare “attuazione delle disposizioni sulla razionalizzazione del fenomeno degli organismi partecipati, da tempo oggetto di molteplici interventi normativi sotto il profilo sia della tutela della concorrenza sia del contenimento dei costi connessi alla esternalizzazione dei servizi pubblici e delle funzioni strumentali”.

Andrebbero ricordati al riguardo i dati riferiti alle società partecipate e agenzie varie di Stato, Regioni e Enti Locali diffusi recentemente: si tratta di circa 7.800 Enti; oltre 19.000 consiglieri di amministrazione; 15 miliardi solo di stipendi per oltre 300.000 addetti.

Molte delle funzioni svolte dalle varie partecipate potrebbero essere gestite direttamente da Regioni, Province e Comuni, così sfoltendo immediatamente – senza alcuna necessità di riforme costituzionali – presidenti e consiglieri di amministrazione, non eletti dal popolo, ma nominati dalla politica, con risparmi che andrebbero ben oltre quelli che si immagina possano derivare dalla riforma voluta dal Ministro Delrio.

La Corte dei Conti fornisce quindi, nello stesso documento i dati reali relativi alle spese delle Province e lo sforzo notevolissimo di razionalizzazione della spesa compiuto dalle Province negli ultimi anni.

Sempre a proposito di spese, il Ministro Delrio, in audizione, ha ricordato che il costo degli organi politici delle Province è pari a 133 milioni di Euro.

La Corte dei Conti ha invece attestato che nell’anno 2012, il comparto Province ha pagato per il funzionamento degli organi istituzionali 89 milioni di euro (indennità, gettoni, oneri riflessi, etc.).

Inoltre, in prospettiva, si dovrebbe tenere conto della futura composizione degli organi delle Province che deriverebbe prima dell’applicazione del Decreto Legge n. 2/2010, che ha ridotto del 20% il numero di consiglieri ed assessori, e poi del Decreto Legge n. 138 del 2011 che ha ridotto della metà il numero di consiglieri ed assessori.

Una Provincia, con popolazione superiore a 700.000 abitanti avrebbe un Consiglio Provinciale di 14 componenti e 4 assessori.

Pertanto in caso di rinnovo di tutti gli organi delle Province, il costo non supererebbe i 40 milioni di Euro.

Il prof. Mario Bertolissi, nel corso dell’audizione del 23 ottobre ha affermato: “Non esiste alcun nesso tra quanto previsto dal disegno di legge e il “buon andamento” (art. 97 Cost.) dell’amministrazione. Non a caso, forse, la relazione sorvola sui risparmi. Vi saranno pochi – risibili – risparmi a motivo della gratuità delle cariche. Un ritorno al passato di carattere puramente formale: perché le attività da compiere (anche quelle limitate previste dal testo legislativo) sono oggi comparativamente di maggior rilievo; perché vi è, comunque, assunzione di responsabilità in chi le esegue; perché la carica non dà alcun prestigio (semmai, è vero il contrario).

La gratuità corrisponde a pura e semplice demagogia, che un vocabolario qualunque definisce come “forma degenerata di governo secondante le inclinazioni popolari”.

Le città metropolitane continuano a rimanere un oggetto misterioso. Non se ne percepiscono i caratteri, che non possono ridursi a declamazioni generiche. L’elenco è obsoleto, probabilmente, e nulla si dice a proposito del relativo perimetro.

E’ opportuno ricordare che:

a) Non è un bene disporre senza tenere conto che il Paese è variamente articolato e che tra nord, centro e sud vi sono differenze destinate ad incidere sui tempi e modi di realizzazione della riforma;
b) Va dato un significativo rilievo alle attuali gravi condizioni in cui versa l’amministrazione locale, la quale non sa come fare a quadrare i conti. Relazione di accompagnamento e disegno di legge ne danno un cenno, ma puramente simbolico;
c) È indispensabile una maggiore chiarezza normativa;
d) Non si possono passare sotto silenzio, limitandosi a richiami formali, questioni decisive, quali quelle che riguardano le risorse o il personale;
e) Si ha un bel discorrere, in astratto, di funzioni che dovranno essere riassegnate. Qui sta il punto. Non v’è alcuna consapevolezza dei rischi che si correranno quando i procedimenti in atto o da avviare si arresteranno, con danno ulteriore di un sistema già disastrato.

Perché non ragionare, una volta tanto, in grande – come il Costituente – e occuparsi seriamente non di persone giuridiche (enti), ma di persone fisiche (collettività)?”.

Il prof. Gian Candido De Martin, sempre nel corso dell’audizione del 23 ottobre ha affermato: “Nel suo complesso, nonostante la proposta abbia un’apparenza di organicità per struttura e numero degli articoli, si tratta sostanzialmente di una ipotesi di “legge tampone”, che si aggiunge ai molteplici interventi erratici, occasionali e approssimativi, della XVI legislatura in materia di enti locali, per lo più frutto della “legislazione della crisi”, e non certo di un approccio sistematico volto a realizzare, in base ad una Carta delle autonomie, il disegno di semplificazione amministrativa e di valorizzazione delle autonomie locali prefigurato dalla riforma costituzionale del 2001, tuttora di fatto inattuata, anzi per molti versi contraddetta dal legislatore ordinario, specie negli interventi degli ultimi anni, per lo più approvati con inammissibili decreti di necessità e urgenza del Governo, radicalmente censurati dalla sentenza n. 220/13 della Corte costituzionale. Una “legge tampone” resa necessaria dall’esigenza di fare in qualche modo fronte alla sequenza sconcertante di interventi o proposte, spesso disomogenee, specie sulle province – bersaglio da qualche anno di una furia iconoclasta, alimentata da campagne di stampa spesso disinformate e fuorvianti, che hanno indotto via via a ipotizzarne lo svuotamento di funzioni, o la soppressione o la riduzione di numero o il riordino a livello nazionale o la loro regionalizzazione –, ma anche in ordine alle città metropolitane (talora concepite come un vero e proprio ente unitario di governo, talaltra invece legate a forme associative dei comuni metropolitani) e alle unioni (specie) dei piccoli comuni, per le quali si sono prefigurate soluzioni assai diversificate, spesso smentite o abbandonate in interventi successivi. L’effetto complessivo, che il ddl 1542 contribuisce ad aumentare, è di grande confusione e disorientamento, con un disagio crescente non solo per gli studiosi, ma anzitutto per gli amministratori e gli operatori coinvolti in questa temperie, in questo diluvio di innovazioni, spesso destinate ad avere vita assai breve, senza una tenuta ordinamentale, anche perché annegate dentro provvedimenti finanziari volti a ridurre in qualche modo i costi della politica e delle istituzioni.

La provincia, ente territoriale intermedio tra comuni e regioni, non è un ente inutile, una istituzione datata, né è una anomalia italiana. Anzi, la “nuova provincia” va riconosciuta come la indispensabile istituzione di riferimento rispetto all’intreccio tra sviluppo economico e coesione sociale calibrato sui fenomeni e problemi di area vasta in campi decisivi per l’equilibrio ambientale e socioeconomico, come sottolineato di recente da un esperto riconosciuto di sistemi locali (Giuseppe De Rita). E si può aggiungere (con Paolo Carrozza) che le province sono l’ente costituzionalmente garantito più uniformemente costruito sul territorio nazionale, costituendo un’ottima base – ove elettive – per uniformare responsabilità e gestione delle funzioni di area vasta oggi di asserita titolarità regionale o comunale, ma in realtà spesso affidate, al di fuori di qualsiasi logica di funzionalità e razionalità, ad una pletora di consorzi, ato, organismi vari, costosissimi e in larga misura sottratti alla trasparenza e ai controlli democratici. Si può poi osservare, sul versante comparato, che un’istituzione territoriale di area vasta è presente in tutti gli ordinamenti di Stati europei di dimensione simile a quella italiana (ed è ad esempio significativo che di recente siano emerse proposte per rafforzare il ruolo dei dipartimenti in Francia).

Emergono, a vario titolo, ragioni di forte perplessità sulla costituzionalità del ddl in esame, non solo per il forte ridimensionamento del ruolo e delle funzioni delle province, ma soprattutto per la loro degradazione da enti autonomi a rappresentanza di secondo grado, con organi eletti dai sindaci dei comuni ricompresi nel territorio e non direttamente dai cittadini della comunità provinciale. Verrebbe meno, in sostanza, quel rapporto politico tra rappresentanti e rappresentati che dovrebbe caratterizzare tutte le istituzioni autonome previste dall’art. 114 Cost., a parte l’osservazione che un’assemblea provinciale di sindaci e gli organi da questi espressi sarebbero ovviamente meno in grado di operare scelte di governo unitarie del territorio provinciale e più portati a cercare soluzioni di mediazione o compromesso, come fisiologicamente avviene nei modelli associativi di enti locali“.

Sulla compatibilità del disegno di legge con la Costituzione, ci limitiamo infine a ricordare l’intervento del prof. Felice Ancora, in audizione il 6 novembre 2013, che ha ricordato come “la Provincia è una componente dell’ordinamento generale della Repubblica italiana (evidentemente ben individuato in tutti i suoi elementi, primo fra tutto il territorio ed operativo nei rapporti internazionali), insieme ad altre a tutt’oggi ben individuate, quali i Comuni, le Regioni e lo Stato (art. 114 Cost.). Di queste entità, elencate in sottolineato ordine inverso di grandezza, l’articolo statuisce che sono “enti” con propria organizzazione e propri poteri. Proseguono gli altri articoli nell’affermare che: le Province hanno organi di governo e funzioni fondamentali (art. 117, lett. p); le Province hanno funzioni amministrative proprie (art. 118); le Province hanno autonomia finanziaria e di spesa (art. 119); il mutamento dell’ambito territoriale delle Province deve essere disposto con legge dello Stato assistita dalla iniziativa dei Comuni e dal parere delle Regioni (art. 133). Pertanto si dubita che la configurazione delle province fornita dal disegno di legge corrisponda alla fattispecie costituzionale”.

Sulla prospettata trasformazione delle Province in enti di secondo grado, il prof. Ancora ha ricordato come “La elettività degli organi delle Province e dei Comuni è un presupposto della Costituzione del 1948: essa, quando si è riferita alle Province, si è riferita ad istituzioni che nella primavera del 1946 erano state costituite con il diretto apporto del corpo elettorale per effetto di una precisa scelta effettuata nel periodo immediatamente precedente le votazioni per l’Assemblea costituente, contestualmente alla transizione verso la democrazia delineata dal decreto legislativo 16 marzo 1946, n. 98. In aggiunta, per quanto riguarda la riforma costituzionale del 2001, un ulteriore presupposto nel senso della elettività delle cariche provinciali sta nell’indirizzo in tal senso recato dalla Carta delle autonomie locali sottoscritta dagli appartenenti al Consiglio d’Europa del 15 ottobre 1985 (ratificata con legge n. 489 del 1989)”.

Varie criticità sono state rilevate dalle Regioni e dall’Associazione dei piccoli Comuni.

Il Censis, tramite il Presidente Giuseppe De Rita, ha dimostrato con dati concreti, frutto di uno studio accurato come “La dimensione territoriale provinciale rimarrà centrale nei destini del nostro Paese. E questo vale a maggior ragione oggi, nell’attuale fase di crisi economica e finanziaria e di grande difficoltà della società civile”.

Il livello provinciale – prosegue il Censis – è quello più adeguato ad assicurare il funzionamento dell’area vasta. L’intervento non può risolversi in una sequenza di meri atti amministrativi pensati da soggetti legittimati a operare in aree differenti da quelle di applicazione. Per comprenderlo basta pensare alla gestione e manutenzione della rete stradale provinciale (pari al 72,3% della rete viaria complessiva). Si tratta di un’attività che non può basarsi su asettici automatismi. L’adeguamento della rete deve seguire lo sviluppo del tessuto insediativo, deve leggere i pesi urbanistici e accompagnare l’evoluzione dei territori produttivi. Deve integrarsi con la domanda di trasporto che viene dalla crescita del pendolarismo per studio o lavoro. Deve valutare l’impatto di questi processi e garantirne l’armonizzazione con le esigenze di tutela ambientale”.

Il caso più emblematico – scrive il Censis – è quello delle scuole superiori. Se la loro gestione passasse ai Comuni, oltre a una riduzione delle economie di scala nel campo della manutenzione, si presenterebbero sicuramente altri problemi. Solamente il 18,3% dei Comuni italiani ha sul proprio territorio almeno una delle 7.036 scuole superiori (ubicate in circa 5.000 edifici scolastici). Trasferendo le competenze ai Comuni si determinerebbe una moltiplicazione dei soggetti di gestione: da 107 Province che si occupano degli edifici ospitanti le scuole superiori (in media, 65 scuole per Provincia) si passerebbe a 1.484 Comuni che intervengono nella gestione di 4,7 scuole in media ciascuno, dovendo trovare l’accordo e ripartire gli oneri con una media di 9,8 Comuni. In definitiva, oggi un ente – la Provincia – gestisce 65 istituti superiori, con tutte le economie di scala connesse e la possibilità di realizzare una programmazione formativa. Domani – senza le Province – i Comuni sede di istituti superiori si troveranno a gestire in media solo 5 scuole e dovranno condividere scelte e costi con il loro bacino d’utenza in media di 10 altri Comuni. Nella sola Provincia di Napoli, ad esempio, la parcellizzazione porterebbe a un reclutamento gestionale di ben 69 diversi enti”.

Numerosi altri interventi potrebbero essere ricordati.

Il Ministro Delrio, intervenuto in Commissione il 29 ottobre, liquida in poche parole le obiezioni: “innanzitutto, intendo dire qualcosa in merito alla questione di costituzionalità sollevata da alcuni dei soggetti intervenuti nelle audizioni informali come da alcuni di coloro che hanno preso parte al dibattito pubblicistico intono al disegno di legge del Governo. È stato detto che la trasformazione delle province in enti di secondo grado non sarebbe compatibile con il titolo V della parte II della Costituzione e in particolare con l’articolo 114, che menziona le province come enti autonomi costitutivi della Repubblica insieme ai comuni e alle regioni, i quali sono enti i cui organi sono eletti direttamente dai cittadini. Al riguardo fa presente, in primo luogo, che il Governo ha presentato al Parlamento, come complemento del disegno di legge ordinaria in esame, anche un disegno di legge costituzionale tendente ad eliminare dalla Costituzione ogni riferimento alle province (atto C. 1543), per evitare in radice ogni dubbio di costituzionalità. A parte questo, sottolinea come diversi autorevoli costituzionalisti ritengano discutibile e nient’affatto certa l’interpretazione secondo cui il testo vigente della Costituzione vieterebbe la trasformazione delle province in enti di secondo grado: in tal senso si pronunciano una serie di memorie di esperti costituzionalisti, che deposita agli atti della Commissione”.

Dice il Ministro che “per evitare in radice ogni dubbio di costituzionalità” è stato presentato un disegno di legge costituzionale, come se, adesso, per verificare la legittimità costituzionale di una norma non bisogna fare riferimento solo alla Costituzione ma anche ai disegni di legge presentati dal Governo.

Che fosse questa l’idea, è confermato dall’incipit stesso della riforma ordinamentale, tanto declamata con instancabile attività dal Ministro, contenuta nell’art. 1, comma 1: “La presente legge detta disposizioni …anche in attesa della riforma costituzionale ad esse relativa”.

La creatività dei novelli legislatori cresce di giorno in giorno.

Si detta una riforma ordinamentale di enorme portata “… anche in attesa di una riforma costituzionale” di cui, a meno di non essere veggenti, non si conoscono tempi e contenuti.

Al contrario, a meno di non voler stravolgere i principi costituzionali, si tratta invece di una riforma a costituzione vigente, alle cui disposizioni – piaccia o no – anche il Governo Letta e il Ministro Delrio devono attenersi.

Quindi il Ministro si sofferma sui presunti risparmi, peraltro smentiti dalla Corte dei Conti.

Occorrerebbe invece che sulla riforma delle Province e dell’intero assetto delle istituzioni locali si apra un confronto serio, che parta dalla Costituzione, e che affronti fuori dagli slogan e con i conti in mano una questione tanto importante per il Paese.

Anziché respingere in modo sprezzante ogni obiezione critica, sarebbe opportuno un dialogo aperto, serio, senza la fretta ossessiva di realizzare un annuncio.

Da tempo sottolineiamo che bisognerebbe partire dalle competenze e quindi ad una riforma organica del sistema, sulla base di quattro punti fondamentali:

1. Valorizzazione dell’autonomia come responsabilità. Comuni e Province e Città Metropolitane devono essere considerati come enti di governo delle rispettive comunità, titolari di una sfera di autonomia riconosciuta direttamente dalla Costituzione.

2. Riconoscimento di centralità e pari dignità dei soggetti costitutivi della Repubblica ai sensi dell’art. 114 Cost. senza alcuna gerarchia, ma semmai qualificando i ruoli istituzionali dei diversi soggetti del sistema. Da qui, allora, la necessità che il ruolo delle Regione si limiti al carattere legislativo e programmatorio, mentre l’amministrazione e la gestione dei servizi pubblici deve essere incentrata sulle amministrazioni comunali e provinciali.

3. Chiarificazione delle funzioni dei diversi soggetti del sistema, che sono poi l’aspetto che comporta la maggiore spesa ed i maggiori costi, evitando sovrapposizione di interventi sulla medesima materia. La nuova Carta delle Autonomie, il cui esame si è bloccato nel corso della passata legislatura, dovrebbe essere la base fondamentale di una vera riforma, fuori dagli slogan e dalle proposte demagogiche.

4. Eliminazione di tutti gli Enti intermedi non elettivi. Molte delle funzioni svolte dalle varie partecipate potrebbero essere gestite direttamente da Regioni, Province e Comuni, così sfoltendo immediatamente – senza alcuna necessità di riforme costituzionali – presidenti e consiglieri di amministrazione, non eletti dal popolo, ma nominati dalla politica. Con risparmi che andrebbero ben oltre quelli che si immagina possano derivare dalla riforma voluta dal Ministro Delrio.

C’è ancora tempo per evitare un salto nel buio.

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