di Luigi Oliveri –
Il disegno di legge di riordino delle province e di istituzione delle città metropolitane presenta almeno tre elementi di fortissima irrazionalità.
Il primo aspetto riguarda l’effetto di risparmio della spesa pubblica. A ben vedere, la norma non quantifica nemmeno un centesimo di euro, ma si affida, come si legge dalla relazione tecnica, a futuribili effetti di risparmio, senza mai sbilanciarsi nel fissarli.
Poiché introduce la gratuità delle cariche nelle città metropolitane e nelle province, l’unico vero risparmio quantificabile è la somma equivalente alla spesa sostenuta dalle province per indennità e gettoni di presenza, 104,7 milioni di euro, che corrisponde allo 0,0130 della spesa pubblica.
Non un granchè per una riforma/abolizione da molti giustificata come l’occasione per un contenimento serio e duraturo della spesa pubblica. Ricordiamo che un solo F35 costa 120-130 milioni.
Il secondo aspetto delicato coinvolge la riorganizzazione dell’assetto delle competenze.
L’eliminazione delle province, si dice, consentirebbe di ridurre di ben 107 unità il numero dei decisori, sopprime un livello di governo, garantisce maggiore fluidità delle procedure, evidando sovrapposizione di competenze.
Infatti, la relazione di accompagnamento del ddl ne magnifica le capacità di perseguire “lo sforzo di riorganizzazione e chiarificazione” compiuto.
A leggere, però, la norma, si resta colpiti dall’effetto totalmente contrario: si crea un dedalo inestricabile, fitto, intricato, incomprensibile di competenze e sovrapposizioni.
Le città metropolitane che subentreranno alle province svolgeranno tutti i loro compiti; ma se ne aggiungeranno alcuni di specifici. Tuttavia, le città metropolitane potranno attribuire (e in forma differenziata!) alcune funzioni ai comuni o alle unioni di comuni del territorio (con tanto di risorse e personale). Ma, a loro volta, comuni e unioni di comuni potrebbero decidere di conferire proprie funzioni alla città metropolitana.
Le province sono ridotte ad enti embrionali, con pochissime competenze. Tutte le altre saranno distribuite, ma capire come è un rompicapo. Andranno, infatti, ai comuni e alle unioni dei comuni le competenze che sono state assegnate alle province da leggi dello Stato. Ma, esse non sono note: sicchè, come già previsto dalle manovre Monti, si rinvia ad un Dpcm il compito di elencarle. Le competenze che le province svolgono nelle materie attribuite alla potestà legislativa delle regioni dall’articolo 117, commi 3 e 4, della Costituzione, saranno assegnate, sempre a comuni e unioni di comuni, da leggi regionali. Ma le regioni potranno decidere di tenerne per sé alcune. Però, comuni, unioni di comuni e regioni potrebbero decidere di delegare alle province alcune specifiche funzioni. Ovviamente, poi, i comuni potrebbero stabilire di svolgere funzioni ricevute dalle province affidandole alle unioni di comuni e nulla esclude che risulterà necessario attivare convenzioni tra tutti questi enti, per organizzare la loro gestione.
Insomma, un cittadino, un’impresa, un interlocutore non avrà davanti a sé un quadro sinottico chiaro ed unico per capire a chi rivolgersi e quale ente o ufficio svolgerà una funzione un tempo assegnata alle province. Gli si presenterà un magma di leggi, leggine, convenzioni, deleghe, atti di conferimento e altro ancora, nel quale perdersi per provare ad indovinare chi sarà il suo interlocutore. Non certamente un inno alla chiarezza ed alla razionalizzazione. Anzi, esattamente l’opposto.
Il terzo elemento riguarda la formidabile disparità di trattamento tra cittadini e lavoratori. I cittadini, come visto sopra, saranno costretti ad affrontare un moloch intricatissimo per capire a chi rivolgersi.
Ma, queste forche caudine saranno più strette per i cittadini delle province non assorbite dalle città metropolitane, perché in quei territori esse subentreranno in universum ius alle funzioni provinciali, il che renderà comunque un po’ più semplice il sistema ordinamentale e delle relazioni. Specie se le città metropolitane non abuseranno della possibilità di diversificare l’esercizio delle funzioni.
Per quanto concerne i lavoratori, quelli delle province di Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Roma, Bari, Napoli e Reggio Calabria non subiranno sostanzialmente scossoni dalla riforma. Il datore di lavoro cambierà, sì, nella natura, ma non nella struttura. Le dotazioni organiche, gli uffici, i modelli programmatori ed organizzativi resteranno immutati, e, di conseguenza, immutato il rapporto di lavoro.
Per i dipendenti delle altre 97 province, invece, si apre una fase di incertezza: alcuni resteranno temporaneamente nelle province a gestire le poche funzioni residue, in attesa della definitiva abolizione; altri andranno ai comuni; altri alle unioni di comuni; altri potrebbero essere assunti dalle regioni.
Non si capisce, oggettivamente, come possa sostenersi e fondarsi legittimamente, sul piano anche costituzionale, una similare disparità di trattamento di cittadini e lavoratori.
Un ultimo, ma non secondario, aspetto estremamente critico riguarda il principio democratico e di rappresentanza.
Il disegno di legge introduce anche in questo caso profonde incisioni negative e inaccettabili disparità.
Le città metropolitane e le province di nuova concezione saranno enti di “secondo livello”. Si elimina, dunque, la possibilità che i cittadini, mediante l’espressione del voto, formino il consenso necessario per la realizzazione di programmi; saranno privati della possibilità di determinare gli indirizzi e di esprimere, col voto, il giudizio sull’efficacia dell’azione amministrativa, che subiranno dall’alto.
Tuttavia, questo non varrà per tutti. Infatti, i cittadini dei comuni che acquisiranno le funzioni provinciali conserveranno l’opportunità di esprimere consenso o dissenso in merito alle politiche ed ai risultati pro quota conseguiti dai comuni su quelle specifiche funzioni una volta provinciali. Ci sarà, insomma, una democrazia di serie A ed una di serie B, a seconda dell’ente competente a svolgere servizi. Il principio di eguaglianza consiglierebbe di scegliere una sola strada, per non creare simili solchi tra cittadini.
Non solo. Anche la rappresentanza di “secondo grado” di città metropolitane e province creerà cittadini di serie A, B o C, a seconda del comune di residenza.
Il disegno di legge introduce inediti criteri di partecipazione agli organi collegiali degli enti. Il diritto di prendervi parte (nei consigli metropolitani e provinciali), infatti spetterà solo agli eletti in base ad un sistema di “voto ponderato”, che assegna maggior peso ai voti dei consiglieri dei comuni con popolazione maggiore. Nelle assemblee che coinvolgeranno tutti i sindaci sarà introdotto il voto ponderato per l’approvazione delle delibere: anche qui conterà di più il voto del sindaco di comuni più grandi, a discapito di quelli più piccoli.
Pare evidente che il riordino del sistema degli enti locali sia incentrato sui soggetti che più di tutti hanno spinto per la soppressione delle province e l’introduzione delle città metropolitane o, comunque, la riduzione delle province ad una sorta di ente servente: i sindaci dei grandi comuni. E’ un vecchio disegno dell’Associazione Nazionale Comuni Italiani (Anci), della quale il Ministro Delrio è stato presidente e dalla quale ha tratto un discreto numero di funzionari messi, ora, nei posti chiave del Ministero degli affari regionali.
E’ una visione che confligge drasticamente col concetto di gestione per area vasta. L’ente provincia, nello svolgere i suoi compiti, considera paritariamente i cittadini e gli enti del territorio ed eroga i servizi in modo paritario ed indifferenziato: nel prevedere un collegamento viario e di trasporto da un comune all’altro, nel programmare l’offerta formativa o svolgere politiche del lavoro o classificare le strutture ricettive, non fanno differenza sul “peso” che i comuni avrebbero in relazione alla popolazione residente.
Col modo di concepire la rappresentanza proposto dal disegno di legge elaborato da Delrio, invece, si legittimerà decidere sulle questioni concernenti i servizi di area vasta (in primis, ovviamente, l’allocazione delle risorse, la loro acquisizione e destinazione) in base a “rapporti di forza”. I servizi, dunque, non saranno destinati a “cittadini della provincia”, ma a cittadini di ciascun singolo comune o, quando va bene, di unioni. In un medievale ritorno alla conflittualità dei campanili, che potrebbe vanificare totalmente gli eventuali residui postivi effetti di razionalizzazione.