di Luigi De Valeri*. Uno dei quesiti ricorrenti che mi vengono posti nell’ambito dei rapporti di lavoro riguarda la possibilità di controllare la posta elettronica del lavoratore e se l’esito della verifica può legittimamente fondare un licenziamento per giusta causa.
A questa problematica va aggiunto come contemperare la tutela della privacy del dipendente con la necessità del datore di difendere la propria reputazione aziendale nei confronti dei clienti.
Per trattare questo tema, in forma non esaustiva in questa sede, tra le varie decisioni intervenute nel corso del 2012 mi riferisco ad una vicenda che riguarda il licenziamento per giusta causa di un dipendente di una banca, con la qualifica di quadro direttivo, accusato di aver divulgato notizie riservate di un cliente mediante e-mail ad estranei e di averne tratto un vantaggio mediante operazioni finanziarie personali.
Il lavoratore aveva violato l’obbligo di segretezza e correttezza, il regolamento interno e il codice deontologico attuando un comportamento di assoluta gravità, lesivo dell’elemento fiduciario proprio del rapporto di lavoro giovandosi anche della sua elevata posizione professionale nell’organico dell’istituto bancario.
Il licenziamento, impugnato dal dipendente dinanzi il Tribunale di Brescia, era stato confermato quanto a legittimità sia dal giudice di primo grado che dalla Corte di appello lombarda per cui costui si rivolgeva alla Corte di Cassazione.
Il ricorso in Cassazione del lavoratore, articolato in vari motivi di cui accenno per brevità ai più interessanti, tra l’altro adduceva la violazione dell’art. 4 dello Statuto dei lavoratori in quanto il licenziamento era basato su una prova derivante dal controllo della posta elettronica del dipendente messo in opera senza il preventivo accordo con le rappresentanze sindacali aziendali o l’autorizzazione del servizio ispettivo della direzione provinciale del lavoro e di conseguenza la violazione dell’art. 114 del Codice per la protezione dei dati personali che ha confermato le prescrizioni dell’art. 4 citato.
L’art. 4 della Legge 300/1970 vieta l’uso degli impianti audiovisivi e delle altre apparecchiature aventi finalità di controllo a distanza dell’attività lavorativa e disciplina le modalità della loro adozione per esigenze organizzative, produttive o di sicurezza del lavoro da cui può derivare indirettamente il controllo a distanza dei lavoratori.
La Corte di Cassazione ha ritenuto che l’art.4 dello Statuto “ fa parte di quella complessa normativa diretta a contenere le manifestazioni del potere organizzativo e direttivo del datore di lavoro che, per le modalità di attuazione incidenti nella sfera della persona, si ritengono lesive della dignità e della riservatezza del lavoratore (…) sul presupposto che la vigilanza sul lavoro, ancorchè necessaria nell’organizzazione produttiva, vada mantenuta in una dimensione umana e cioè non esasperata dall’uso di tecnologie (…) eliminando ogni zona di riservatezza e di autonomia nello svolgimento del lavoro” (ex multis Cass. civ. 15982/2007).
La procedura prevista dall’art. 4 per impianti ed apparecchiature ricollegabili ad esigenze produttive concilia l’esigenza di tutela del diritto del lavoratore a non essere controllato a distanza e quello del datore di lavoro relativamente alla produzione e sicurezza del lavoro.
La possibilità di questi controlli si ferma davanti al diritto alla riservatezza del lavoratore per cui l’esigenza di evitare condotte illecite da parte di questi non può comunque giustificare un annullamento di ogni forma di garanzia della dignità e riservatezza.
Nel caso esaminato dai giudici di legittimità il datore di lavoro aveva attuato un’attività di controllo sulle strutture informatiche aziendali diretta ad accertare eventuali comportamenti illeciti dei dipendenti superando nei fatti la semplice sorveglianza dell’esecuzione della prestazione lavorativa.
L’accertamento era stato compiuto dopo il verificarsi del comportamento illecito addebitato al dipendente quando erano emersi elementi che giustificavano l’avvio di una indagine sui fatti accaduti.
Il datore di lavoro mediante il c.d. controllo difensivo, non rientrante nell’art. 4 dello Statuto, intendeva tutelare la propria immagine esterna come accreditata presso la clientela.
I giudici di legittimità pertanto hanno ritenuto che il potere di controllo attuato con l’acquisizione dei messaggi di posta elettronica scambiati dal dipendente con soggetti estranei era stato esercitato correttamente visto il fine indicato.
Con un secondo motivo addotto dal lavoratore ricorrente si contestava la tempestività della contestazione dell’addebito da parte del datore di lavoro.
Il procedimento disciplinare di cui fu oggetto il lavoratore non sarebbe stato corretto, tuttavia la Corte, precisando che la valutazione del requisito dell’immediatezza è riservata al giudice di merito, ha considerato che la contestazione immediata deve essere intesa in un’accezione relativa compatibile con l’intervallo di tempo necessario al datore per l’accertamento delle infrazioni commesse dal dipendente.
Il giudice del lavoro della Curia bresciana aveva ritenuto non irragionevole il lasso di tempo di 10 giorni intercorso tra la sospensione cautelare e la contestazione dell’addebito alla luce del fatto che la complessità dell’azienda avevano provocato un rallentamento dei tempi del procedimento disciplinare.
In conclusione il ricorso del dipendente è stato respinto, confermata la legittimità del licenziamento per giusta causa con la condanna del ricorrente alle spese del giudizio in favore dell’istituto bancario.
Che dire ai lettori ? Certamente va ricordato l’art. 2105 del codice civile con il dovere di fedeltà del dipendente verso il datore di lavoro il quale, nell’esercizio della propria attività imprenditoriale, farà bene a tutelare l’immagine aziendale con evidenti riflessi sulla gestione economica, nei limiti imposti dalla normativa vigente sulla privacy e secondo i canoni pratici elaborati dalla giurisprudenza giuslavoristica.
*avvocato del Foro di Roma.