L’AFFIDAMENTO IN HOUSE
ED IL SERVIZIO DI GESTIONE DEI RIFIUTI URBANI
Federica Spartera
INDICE
1. Premessa
2. I requisiti per l’affidamento diretto in house dei servizi
2.1. La normativa europea
2.2. L’istituto dell’in house providing nel panorama normativo italiano
2.3 La c.d. “motivazione rafforzata” ex art 192 comma 2 del Codice degli appalti
3. In house providing e servizi di gestione integrata dei rifiuti
4. Conclusioni
PREMESSA
Nel quadro dell’evoluzione legislativa comunitaria e nazionale, l’istituto giuridico dell’in house providing ha costituito un polo di interesse, anche dal punto di vista del dibattito giurisprudenziale.
Si tratta di una forma di gestione di pubblici servizi nata nella giurisprudenza comunitaria con la sentenza Teckal al fine di individuare i casi in cui una pubblica amministrazione affida un servizio pubblico nei confronti di una società equiparabile, dal punto di vista sostanziale, a una propria articolazione (in house, infatti).
L’in house providing, dunque, è un affidamento effettuato in deroga alla normativa comunitaria in materia di contratti pubblici poiché non viene esperita alcuna gara pubblica per lo stesso. Infatti, secondo la Corte di Giustizia non deve applicarsi la normativa comunitaria qualora manchi una vera e propria relazione contrattuale fra due soggetti; in particolare, i giudici affermano che la procedura ad evidenza pubblica non deve essere svolta «nel caso in cui, nel contempo, l’ente locale eserciti sulla persona di cui trattasi un controllo analogo a quello da esso esercitato sui propri servizi e questa persona realizzi la parte più importante della propria attività con l’ente o con gli enti che la controllano».
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I requisiti per l’affidamento diretto in house dei servizi
I requisiti fondamentali dell’in house providing sono i seguenti:
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controllo analogo;
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attività prevalente;
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partecipazione pubblica totalitaria.
Il “controllo analogo” viene definito all’art. 2, comma 1, lett. c) del Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica come quella situazione in cui l’amministrazione esercita «un’influenza determinante sia sugli obiettivi strategici che sulle decisioni significative della società controllata».
Il controllo analogo si inserisce all’interno del potere di direzione e vigilanza appartenente all’ente pubblico e si manifesta tramite strumenti di diritto societario e di diritto pubblico: i primi, in particolare, garantiscono la tipologia e l’intensità del controllo richiesti per giustificare, appunto, l’esenzione dall’obbligo di gara pubblica. Essi si configurano nei patti parasociali e nelle clausole statutarie.
I patti parasociali, disciplinati, nel codice civile, agli artt. 2341-bis e 2341-ter, rappresentano accordi tra soci che permettono all’amministrazione di nominare i propri rappresentanti all’interno degli organi di gestione e controllo delle società e, di conseguenza, esercitare, con poteri speciali, la propria influenza nell’assemblea. I patti parasociali non sono opponibili erga omnes. Tale limitazione, pertanto, può essere superata con apposite clausole statutarie che, al contrario, potendosi opporre erga omnes, garantiscono ai soci una rilevante e piena ingerenza nella gestione della società stessa mediante poteri di direzione e controllo. È rilevante affermare che attraverso i patti parasociali si vuole raggiungere la stabilità del governo della società.
Ai sensi dell’art. 2341-bis del codice civile vengono indicati quali patti parasociali i sindacati di voto, di blocco e di concertazione.
I primi consistono in accordi regolanti l’esercizio di voto nell’assemblea pertanto, con essi, i soci si impegnano a votare ciò che è stato pattuito dalla maggioranza o dalla totalità di coloro che vi hanno aderito.
Tramite i sindacati di blocco, invece, le parti si obbligano a non cedere le proprie azioni o a farlo in presenza di determinate condizioni. La finalità di questa tipologia di accordi è la stabilizzazione degli assetti proprietari al fine di lasciare inalterato il complesso della società e scongiurare l’ipotesi di nuovi soci.
I patti di concertazione, infine, vincolano i soci a consultarsi tra di loro prima del voto in assemblea.
In aggiunta ai patti parasociali, sono state menzionate, altresì, le clausole statutarie.
Si tratta di accordi che, introdotti nello statuto di una data società, riservano ai soci una specifica ingerenza nella gestione della stessa società mediante poteri di direzione e di controllo.
Anche il diritto pubblico, oltre quello societario, offre strumenti che permettano di attuare il controllo analogo. Essi vengono individuati nel contratto di servizio e nel controllo strategico.
Il primo, definito ai sensi dell’art. 14, comma 1, del Regolamento n. 1893/1991, come un «contratto concluso tra le autorità competenti di uno Stato membro ed un’impresa di trasporto allo scopo di fornire alla collettività servizi di trasporto sufficiente», nell’ordinamento italiano si impone, nella sfera dei servizi pubblici locali, come strumento dell’ente locale per esercitare il controllo nell’ambito delle modalità di erogazione del servizio.
Nel campo delle società in house il contratto di servizio è utile per garantire un controllo costante sull’attività tramite un sistema di controlli interni: il controllo di gestione e il controllo strategico sulle società partecipate dall’ente locale.
Il primo consiste nel «verificare l’efficacia, l’efficienza ed economicità dell’azione amministrativa al fine di ottimizzare, anche mediante tempestivi interventi di correzione, il rapporto tra costi e risultati»; il controllo strategico, invece, presuppone la presenza di una struttura con il compito di «valutare l’adeguatezza elle scelte compiute in sede di attuazione dei piani, programmi ed altri strumenti di determinazione dell’indirizzo politico, in termini di congruenza tra risultati conseguiti e obiettivi predefiniti».
Il controllo di gestione si articola, almeno, in tre fasi: predisposizione di un piano dettagliato di obiettivi; rilevazione di dati relativi a costi, proventi e risultati raggiunti; valutazione dei precedenti dati. L’ultima fase, ai sensi dell’art. 198 del D.L.gs. n. 267 del 2000, consiste nel fornire ««le conclusioni del predetto controllo agli amministratori ai fini della verifica dello stato di attuazione degli obiettivi programmati ed ai responsabili dei servizi affinché questi ultimi abbiano gli elementi necessari per valutare l’andamento della gestione dei servizi di cui sono responsabili».
Dunque, il controllo di gestione viene esteso anche agli erogatori di servizi pubblici quali le società in house. In tal caso, il contratto di servizio deve includere l’obbligo, a carico dell’affidatario, di garantire un controllo completo allo scopo di consentire all’amministrazione di verificare la gestione del servizio con riguardo agli obiettivi prestabiliti.
Il controllo di gestione è inteso come supporto alla dirigenza al fine di migliorare la performance gestionale, il controllo strategico, invece, supporta le funzioni di indirizzo politico.
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Il requisito dell’“attività prevalente” è stato definito dagli stessi giudici comunitari, che ne specificano i contorni affermando che «le condizioni in presenza delle quali, secondo la menzionata sentenza Teckal, la direttiva 93/36 è inapplicabile agli appalti conclusi tra un ente locale e un soggetto giuridicamente distinto da quest’ultimo, vale a dire che, al contempo l’ente locale eserciti sul soggetto in questione un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi e che il soggetto di cui trattasi svolga la parte più importante della sua attività con l’ente o gli enti locali che lo detengono, hanno, in particolare, lo scopo di evitare che sia falsato il gioco della concorrenza».
Secondo la Corte di Giustizia, si parla di affidamento in house quando le prestazioni di una determinata impresa siano primariamente destinate all’ente locale che controlla la stessa impresa e le altre attività risultino residuali.
L’art. 5, comma 1, lett. b), del Codice dei contratti pubblici, recependo le novità definite dalle direttive 2014/23/UE e 2014/24/UE, stabilisce che l’attività del soggetto affidatario in house è considerata prevalente qualora oltre l’80% delle attività dell’amministrazione controllata è esercitato nello svolgimento di compiti a esso affidati dalla stessa amministrazione o da altre persone giuridiche controllate dall’ente affidante.
La stessa disposizione prevede, altresì, che ai fini della determinazione della percentuale dell’attività prevalente occorre prendere in considerazione «il fatturato totale medio o una misura idonea alternativa fondata sull’attività, quale i costi sostenuti dalla persona giuridica o amministrazione aggiudicatrice o l’ente aggiudicatore nei settori dei servizi, delle forniture e dei lavori per i tre anni precedenti l’aggiudicazione dell’appalto o della concessione».
In assenza dei dati appena riportati, sempre l’art. 5, al comma 8, considera sufficiente «dimostrare, segnatamente in base a proiezioni dell’attività, che la misura dell’attività è credibile».
Sulla base di quanto riportato fin ad ora, è chiaro che il requisito dell’attività prevalente, congiuntamente a quello del controllo analogo, avvalori l’appartenenza della società in house all’organizzazione dell’ente controllante.
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La partecipazione pubblica totalitaria.
Per lungo tempo è stato ritenuto che la presenza di capitale privato nel modello in house impedisse il soddisfacimento degli interessi pubblici che erano, invece, considerati la principale finalità dell’affidamento in house.
Ad esprimersi su tale questione è stata, inizialmente, la Corte di Giustizia nel 2008.
In tal sede, i giudici hanno osservato che «per quanto riguarda il secondo argomento esposto dalla Commissione, si deve rilevare che la possibilità per i privati di partecipare al capitale della società aggiudicataria, in considerazione in particolare della forma societaria di quest’ultima, non è sufficiente, in assenza di una loro effettiva partecipazione al momento della stipula di una convenzione come quella di cui trattasi nella presente causa, per concludere che la prima condizione, relativa al controllo dell’autorità pubblica, non sia soddisfatta. Infatti, per ragioni di certezza del diritto, l’eventuale obbligo per l’amministrazione aggiudicatrice di procedere ad una gara d’appalto dev’essere valutato, in via di principio, alla luce delle condizioni esistenti alla data dell’aggiudicazione dell’appalto pubblico di cui trattasi».
Sempre sulla scorta di tale ragionamento si è espresso, altresì, il Consiglio di Stato nel 2018 il quale, dopo aver ribadito che «le società in house possono ricevere affidamenti diretti di contratti pubblici da amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo o da ciascuna delle amministrazioni che esercitano su di esse il controllo analogo congiunto solo se non vi sia partecipazione di capitali privati», ha aggiunto «ad eccezione di quella prescritta da norme di legge e che avvenga in forme che non comportino controllo o potere di veto, né l’esercizio di un’influenza determinante sulla società controllata».
Dunque, secondo i giudici amministrativi «il requisito della partecipazione pubblica totalitaria è divenuto autonomo rispetto a quello del controllo analogo e sono state consentite forme di partecipazione diretta di capitali privati ma a condizione che la partecipazione dei capitali privati sia prevista a livello legislativo, in conformità dei Trattati, e non consenta l’esercizio di un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata».
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La normativa europea vigente
L’in house providing (letteralmente: gestione in proprio) è un istituto di matrice giurisprudenziale europea che, per sua natura, è sintesi di precetti tutelati in pari modo dall’ordinamento europeo, conciliando il principio del confronto concorrenziale con quello della autoorganizzazione amministrativa. Tale istituto, successivamente, è stato recepito anche all’interno dell’ordinamento giuridico nazionale italiano.
Tale strumento a carattere eccezionale -da un lato utilizzabile nelle sole ipotesi di fallimento del mercato (market failure) e dall’altro quale ordinaria modalità di affidamento nelle gare pubbliche (del tutto alternativa rispetto alla esternalizzazione) – ha destato non poche perplessità e dibattiti giurisprudenziali, sia a livello interno che Europeo.
L’affidamento in house è stato elaborato dalla giurisprudenza comunitaria a partire dalla pronuncia resa sul caso Teckal nel 1999, in cui la Corte di Giustizia dell’UE stabilì, per la prima volta, i requisiti necessari affinché si potesse procedere all’affidamento diretto di un pubblico servizio ad un soggetto privato (CdG CE, 18 novembre 1999, causa C-107/98, Teckal s.r.l. c. Comune di Viano).
Nella pronuncia de qua, la Corte affermò come, ai fini dell’esclusione dell’applicazione delle disposizioni in materia di gara ad evidenza pubblica, fosse necessario che la società in house presentasse due requisiti fondamentali, identificati nel c.d. “controllo analogo” e nel c.d. “vincolo di prevalenza”.
Il primo requisito (ossia del controllo analogo) si configura allorquando l’ente conferente eserciti nei confronti di quello conferitario un controllo analogo a quello esercitato sui propri servizi.
Viene in essere, così, un rapporto tra l’Amministrazione pubblica e la società in house tale da assimilare quest’ultima ad un organo interno all’Amministrazione; quanto al secondo requisito (ossia quello del vincolo di prevalenza) fa riferimento all’attività svolta dall’ente affidatario in favore dell’ente pubblico che deve sostanziarsi nella parte più rilevante della medesima.
La presenza di ambedue i presupposti, da intendersi in senso cumulativo e non alternativo, rende la società un organismo in house, cioè una struttura non distinta dall’ente affidatario, una specie di longa manus, legittimando l’esclusione della disciplina dettata in materia di appalti pubblici, in virtù dell’influenza dominante esercitata dall’Amministrazione sull’organismo controllato.
La giurisprudenza successiva alla sentenza Teckal, sia europea che nazionale, ha interpretato i requisiti enunciati nel 1999 con particolare rigore, mostrando un sostanziale scetticismo nei confronti dell’istituto in esame.
La ratio sottesa all’ostilità della giurisprudenza è da rivenirsi nella deroga che tale istituto genera rispetto all’ordinario regime previsto in materia di appalti pubblici, traducendosi in una figura distorsiva della concorrenza in materia di affidamenti pubblici, dovendosi pertanto riconoscere la natura eccezionale dell’istituto.
Così, la giurisprudenza “post Teckal”, offre una lettura più rigida dei requisiti elaborati nel 1999.
Quanto al primo requisito, ossia quello del “controllo analogo”, la giurisprudenza successiva lo interpreta in termini di totale partecipazione pubblica del capitale della società controllata.
Pertanto, la semplice presenza di un socio privato escludeva in re ipsa che l’Amministrazione aggiudicatrice potesse esercitare un controllo analogo a quello svolto nei confronti dei propri servizi (in tal senso, CdG Ue, 11 gennaio 2005, causa C-26/03 – Stadt Halle; ex multis, Cons. Stato, Ad. Plenaria, 3 marzo 2008, n. 1).
Quanto al requisito del “vincolo di prevalenza”, la giurisprudenza lo ha interpretato in termini di esclusività e, cioè, l’ente affidatario deve svolgere la propria attività non già prevalentemente in favore dell’Amministrazione aggiudicatrice bensì nel suo interesse esclusivo.
Con le nuove direttive europee in materia di appalti e concessioni (nn. 23, 24 e 25 del 2014) l’istituto dell’in house providing ha ricevuto una prima codificazione normativa con il nuovo pacchetto di direttive europee sugli appalti e le concessioni del 2014.
Le direttive europee, sebbene non utilizzino l’espressione «in house», regolano tale istituto con riguardo alle concessioni tra enti nell’ambito del settore pubblico di cui all’art. 17 della direttiva concessioni 2014/23/UE , agli appalti pubblici tra enti nell’ambito del settore pubblico di cui all’art. 12 della direttiva appalti 2014/24/UE e agli appalti tra amministrazioni aggiudicatrici di cui all’art. 28 della direttiva settori speciali 2014/25/UE, con disposizioni pressoché di analogo tenore.
In tali articoli i principi precedentemente affermati dalla giurisprudenza della Corte di Giustizia in materia di in house sono stati in gran parte recepiti con alcune precisazioni e novità.
Con riferimento ai presupposti per il ricorso all’in house, il legislatore comunitario del 2014 sembrerebbe riconoscere autonomia organizzativa agli Stati membri.
Nel considerando 5 della direttiva 2014/24/UE afferma infatti che «nessuna disposizione della presente direttiva obbliga gli Stati membri ad affidare a terzi o a esternalizzare la prestazione di servizi che desiderano prestare essi stessi o organizzare con strumenti diversi dagli appalti pubblici ai sensi della presente direttiva».
In particolare, il legislatore europeo, dopo aver ribadito la libertà degli Stati membri in ordine alla scelta tra l’autoproduzione di beni e servizi e l’esternalizzazione degli stessi, prevede l’applicazione delle nuove direttive solo nei casi in cui le amministrazioni decidano di rivolgersi al mercato e individua negli articoli sopra richiamati gli ambiti esclusi dall’applicazione delle stesse.
La prima novità rispetto alle regole fissate dalla giurisprudenza europea riguarda il requisito della partecipazione pubblica totalitaria: sono esclusi, infatti, gli obblighi di evidenza pubblica disciplinati dalle nuove direttive europee non solo in caso di affidamenti a soggetti interamente partecipati dal soggetto pubblico committente ma anche in caso di affidamenti a soggetti che presentano partecipazioni di capitali privati, purché siano osservate le condizioni prescritte dal legislatore europeo (ossia, che tali partecipazioni private non comportino controllo o potere di veto, che siano prescritte dalle disposizioni legislative nazionali, in conformità dei trattati e che non determino un’influenza determinante sulla persona giuridica controllata).
La seconda novità riguarda il requisito della prevalenza dell’attività svolta dalla società in house: è stato fissato, infatti, nell’80% il valore quantitativo dell’attività da svolgere in favore del soggetto controllante.
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L’istituto dell’in house providing nel panorama normativo italiano.
Sul piano normativo nazionale, il Testo Unico sulle società a partecipazione pubblica ha definito il controllo analogo, all’art. 2, comma 1, lett. c), come quella situazione in cui l’amministrazione esercita un’influenza determinante sia sugli obiettivi che sulle decisioni significative della società controllante. L’influenza è determinante allorché l’oggetto del controllo non potrebbe essere definito se l’amministrazione controllante non fosse d’accordo. È opportuno dire che viene considerata determinante tanto l’influenza che conforma in positivo un’azione, quanto quella che si manifesta come potere di veto.
Inoltre, sempre l’art. 2, sopra citato, stabilisce che l’influenza determinante deve interessare gli obiettivi strategici e le decisioni significative della società soggetta a controllo: i primi consistono in linee guida che l’organo amministrativo della stessa società dovrebbe perseguire per realizzare l’oggetto sociale di essa; le decisioni significative, invece, concernono materia di rilevanza fondamentale per la società.
Dunque, dopo aver specificato le nozioni di influenza pubblica dominante e controllo analogo, è necessario indicare in base a cosa si differenziano e perché non è possibile sovrapporre le due tipologie di controllo pubblico.
Ed invero, il controllo analogo sembra essere più pregnante e intenso rispetto all’influenza pubblica dominante poiché, il primo, facendo assumere all’amministrazione affidataria la natura di longa manus di quella controllante, si spinge ben oltre quanto richiesto, sotto il profilo del controllo, ai fini della configurazione della natura di organismo di diritto pubblico.
A ulteriore riprova di ciò è utile aggiungere che il controllo analogo si manifesta tramite il controllo sull’attività e il controllo strutturale: il primo si configura quando l’ente aggiudicatore è titolare del potere di indirizzo e direttiva e ha, altresì, facoltà di annullare o autorizzare gli atti più rilevanti della società; il controllo strutturale, riconosce all’amministrazione affidante il potere di nomina e di revoca della maggioranza dei componenti dell’organo di gestione, di amministrazione e di controllo e, quindi, risulta essere di gran lunga più intenso rispetto a quello chiesto per l’organismo di diritto pubblico.
L’iter legislativo ha portato all’emanazione del Decreto Legislativo n. 50, cosiddetto “Codice dei contratti pubblici”, in data 18 aprile 2016 in cui, per la prima volta, una fonte normativa del settore degli appalti pubblici ha regolamentato l’istituto dell’in house providing e, successivamente, del Testo Unico in materia di società a partecipazione pubblica, alias D.lgs. 19 agosto 2016, n. 175.
L’introduzione di specifiche disposizioni sull’in house in seno al d.lgs. n. 50/2016 (artt. 5 e 192) non costituisce, peraltro, una scelta autonoma del legislatore italiano, ma rappresenta il dictat della normativa comunitaria di settore, ovvero delle direttive nn. 23, 24 e 25 del 2014, che hanno introdotto una disciplina positiva dell’istituto, recependo, in gran parte, gli orientamenti espressi in materia dalla Corte di giustizia UE che, con molteplici pronunce, aveva delineato in maniera piuttosto dettagliata la natura giuridica e il perimetro di applicazione dell’in house.
Procedendo ad analizzare il testo normativo, è possibile trovare all’articolo 5 i “Principi comuni in materia di esclusione per concessioni, appalti pubblici e accordi tra enti e amministrazioni aggiudicatrici nell’ambito del settore pubblico”.
In sostanza, l’articolo riporta diligentemente i requisiti dell’istituto, così come specificati nelle Direttive 2014.
È infatti previsto che, un affidamento diretto sia considerato legittimo solo nel caso in cui l’ente pubblico eserciti un controllo analogo – cioè un’influenza determinante sia sugli “obiettivi strategici” sia sulle “decisioni importanti” – tale da rendere il soggetto affidatario una articolazione interna dell’ente stesso; simultaneamente, il soggetto affidatario deve svolgere nei confronti dell’ente affidante (o, in caso di in house pluripartecipato, degli enti affidanti) la parte prevalente della propria attività definita nell’80%.
Per di più, in linea con quanto previsto dal legislatore comunitario, è ammessa la possibile partecipazione di capitali privati – in forza di una puntuale legge e nel rispetto dei Trattati – nel soggetto affidatario, solo se questa rappresenti una minima parte del capitale sociale e, in ogni caso, sia tale da non comportare un’influenza determinante sul soggetto controllato.
All’interno della “Parte IV – Partenariato pubblico privato e contraente generale” del decreto legislativo, troviamo le nuove disposizioni nazionali sull’istituto, al “Titolo II – In house”, articolo 192.
L’articolo 192 “Regime speciale degli affidamenti in house” introduce la creazione, a cura dell’Autorità Nazionale Anticorruzione, dell’“elenco delle amministrazioni aggiudicatrici e degli enti aggiudicatori che operano mediante affidamenti diretti nei confronti di proprie società in house di cui all’articolo 5”.
Lo scopo di questo elenco presso l’ANAC è quello di “garantire adeguati livelli di pubblicità e trasparenza nei contratti pubblici”; il Consiglio di Stato – nel parere 1 aprile 2016, n.855 – ha puntualizzato come la suddetta registrazione abbia una “natura dichiarativa” e, non costituisca un elemento legittimante per la procedura di affidamento. Per essere iscritti nell’elenco, è necessario presentare un’apposita domanda, e quest’ultima legittima fin da subito l’amministrazione aggiudicatrice a praticare affidamenti diretti sotto la propria responsabilità; l’ANAC, accertata l’esistenza dei requisiti provvede all’iscrizione.
L’aspetto innovativo è stato introdotto al comma 2.
Il legislatore ha stabilito che “ai fini dell’affidamento in house di un contratto avente ad oggetto un servizio disponibile sul mercato in regime di concorrenza”, le amministrazioni aggiudicatrici devono preventivamente valutare gli affidamenti stessi, esprimere adeguate motivazioni in merito alla loro convenienza economica, ai benefici da essi apportati alla collettività – “anche con riferimento agli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche” – e alle ragioni che hanno portato al mancato ricorso del mercato.
La nuova disciplina, all’art. 192, comma 2, quindi, ha previsto uno stringente onere motivazionale, non contemplato dall’ordinamento comunitario, per l’affidamento in house dei servizi disponibili sul mercato in regime di concorrenza, che ha comportato, per tali servizi, un sensibile restringimento del campo di applicazione dell’istituto.
La disciplina dell’in house introdotta dall’art. 192 del d.lgs. n. 50/2016 è diretta a restringere il campo di applicazione dell’istituto in favore del ricorso al mercato, sul presupposto della neutralità dell’ordinamento comunitario in relazione alla legislazione adottata dagli Stati membri in materia di modalità di prestazione dei servizi da parte delle autorità pubbliche.
Tuttavia, a seguito della codificazione del principio di libera amministrazione delle autorità pubbliche da parte delle direttive comunitarie del 2014 in materia di appalti pubblici e concessioni, la giurisprudenza, ritenendo mutato il quadro giuridico di riferimento, ha sollevato dubbi circa la compatibilità con l’ordinamento comunitario di una norma interna che, limitando la possibilità per le pubbliche amministrazioni di ricorrere all’affidamento in house, ne limiterebbe, di fatto, l’autonomia organizzativa.
Tali dubbi hanno trovato espressione nell’ordinanza del Consiglio di Stato, sez. V, 7 gennaio 2019, n.138, con cui il giudice amministrativo ha chiesto alla Corte di giustizia UE di pronunciarsi, in via pregiudiziale, ai sensi dell’articolo 267 TFUE, sulla compatibilità con le disposizioni e i princìpi del diritto primario e derivato dell’Unione europea delle previsioni dell’art. 192, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016.
La questione si basa sostanzialmente sull’assunto che dal principio comunitario di libera amministrazione delle autorità pubbliche (codificato dal considerando 5 della direttiva 2014/24/UE e dall’art. 2 della direttiva 2014/23/UE) discenderebbe la necessità per gli Stati membri di adottare una disciplina dell’affidamento in house che riconosca alle pubbliche amministrazioni la libertà di scelta tra ricorso all’istituto e affidamento a terzi tramite gara, con la conseguente incompatibilità con l’ordinamento comunitario di una legislazione nazionale che imponga, ai fini dell’affidamento in house, condizioni ulteriori rispetto ai requisiti del controllo analogo, dell’attività prevalente e della partecipazione pubblica totalitaria, così come attualmente disciplinati dall’art. 12 della direttiva 2014/24/UE, dall’art. 17 della direttiva 2014/23/UE e dall’art. 28 della direttiva 2014/25/UE.
I dubbi di legittimità sollevati dal supremo consesso di giustizia amministrativa sono stati ritenuti privi di fondamento dalla Corte di giustizia dell’Unione europea che, con l’ordinanza Rieco del 6 febbraio 2020, ha affermato la compatibilità delle previsioni dell’art. 192, comma 2, del d.lgs. n. 50/2016 con la disciplina comunitaria dell’affidamento in house e, segnatamente, con l’art. 12, par. 3, della direttiva 2014/24/UE applicabile alla fattispecie esaminata Consiglio di Stato che stabilisce le condizioni per procedere all’affidamento di appalti pubblici nel caso di controllo analogo congiunto da parte di più amministrazioni pubbliche.
Tale norma, osserva la Corte di giustizia, non osta ad una disciplina nazionale che subordini la conclusione di un’operazione in house «all’impossibilità di procedere all’aggiudicazione di un appalto e, in ogni caso, alla dimostrazione, da parte dell’amministrazione aggiudicatrice, dei vantaggi per la collettività specificamente connessi al ricorso all’operazione interna».
Qualora un’amministrazione decidesse di erogare direttamente un servizio pubblico, la stessa adopererà l’in house providing: nella circostanza appena prospettata, poiché l’amministrazione affidante è, sostanzialmente, la medesima di quella che effettivamente svolgerà il servizio, essa non dovrà rispettare le regole di concorrenza.
Al di fuori di questo caso, quando un ente sceglie di ricorrere al mercato deve rispettare la parità imposta dall’ordinamento comunitario.
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La c.d. “motivazione rafforzata” ex art 192 comma 2 del Codice degli appalti
Allo stato attuale, quindi, deve ritenersi perfettamente acquisita ed operante, anche nella sfera domestica, l’idea secondo cui l’in house providing costituisca una delle ordinarie forme organizzative di conferimento della titolarità del servizio, la cui individuazione in concreto è rimessa alle amministrazioni sulla base di un mero giudizio di opportunità e convenienza economica.
Malgrado la persistenza di indirizzi in senso contrario, tale inversione di tendenza interpretativa pare aver trovato nuovo “vigore”, forte anche delle modifiche normative sopraggiunte per effetto del secondo decreto semplificazioni (D.L: nr. 77/2021, convertito con modificazioni dalla Legge nr. 108/2021).
Il Decreto, inspirandosi all’esigenza di “accelerare l’attuazione degli investimenti pubblici, in particolare di quelli previsti dal PNRR e dai cicli di programmazione nazionale e dell’Unione europea 2014-2020 e 2021-2027” nel solco della c.d. legislazione Covid-19, all’art.10 introduce una disposizione ad hoc valevole ad ampliare l’area di ricorribilità all’in house providing, legittimando le amministrazioni interessate ad avvalersi del “supporto tecnico operativo di società in house qualificate ai sensi dell’art. 38 del decreto legislativo del 18 aprile 2016 nr. 50”.
Inquadrato il contesto normativo di riferimento, l’art. 192 configura, come è dato evincere dal suo tenore testuale e secondo l’interpretazione che ne ha fatto la giurisprudenza amministrativa, una duplice condizione cui è subordinata la legittimità del ricorso al modello di gestione in house dei servizi pubblici: (a) la dimostrazione del cd. “fallimento del mercato”, ovvero della incapacità del mercato di offrire il servizio de quo alle medesime condizioni, qualitative, economiche e di accessibilità, garantite dal gestore oggetto del “controllo analogo”; (b) la sussistenza di specifici “benefici per la collettività” derivanti dall’affidamento diretto del servizio in house.
L’art. 192, comma 2, del Codice degli appalti pubblici (d. lgs. n. 50 del 2016) impone, come già anticipato, che l’affidamento in house di servizi disponibili sul mercato sia assoggettato a una duplice condizione, che non è richiesta per le altre forme di affidamento dei medesimi servizi.
La giurisprudenza del Consiglio di Stato ha chiarito, quanto alla condizione per cui si discute (cfr. Cons. St., sez. V, sent. n. 1564 del 3 marzo 2020) che il primo presupposto per procedere mediante l’in house consiste nell’obbligo di motivare le ragioni che hanno comportato l’esclusione del ricorso al mercato.
Tale condizione muove dal ritenuto carattere secondario e residuale dell’affidamento in house, che appare poter essere legittimamente disposto soltanto in caso di dimostrato “fallimento del mercato”, rilevante a causa di prevedibili mancanze in ordine a “gli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza, di economicità e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche”, cui la società in house invece supplirebbe.
La previsione dell’ordinamento italiano di forme di motivazione aggravata per supportare gli affidamenti in house muove da un orientamento di sfavore verso gli affidamenti diretti in regìme di delegazione interorganica, relegandoli ad un ambito subordinato ed eccezionale rispetto alla previa ipotesi di competizione mediante gara tra imprese.
La stessa giurisprudenza ha, inoltre, precisato che, “trattandosi di valutazione unitaria e complessa, in quanto finalizzata a sintetizzare entro un quadro unificante (rappresentato dai vantaggi insiti nell’affidamento in house rispetto a quelli derivanti dal meccanismo concorrenziale) dati molteplici e variegati (secondo lo spettro valoriale dinanzi richiamato), il sindacato del giudice amministrativo non potrà che svolgersi secondo le coordinate tipiche del potere discrezionale, rifuggendo quindi da una analisi di tipo atomistico e parcellizzato della decisione amministrativa portata alla sua cognizione, ma orientandolo verso una valutazione di complessiva logicità e ragionevolezza del provvedimento impugnato”.
Ne consegue che, l’obbligo motivazionale che si impone all’Ente refluisce, sul piano istruttorio, nella attribuzione alla stessa Amministrazione della scelta, anch’essa tipicamente discrezionale, in ordine alle modalità più appropriate a percepire, in relazione alla concreta situazione di fatto, i dati necessari al fine di compiere, in maniera oggettiva, la predetta valutazione di “preferenza”.
L’istruttoria – i cui esiti ricadono sulla individuazione del modello di affidamento più opportuno da adottare – non può arrestarsi all’analisi della sola convenienza economica.
All’opposto, tra le ragioni giustificative del mancato ricorso al mercato devono annoverarsi altresì elementi di socialità, dovendo la stazione appaltante rendere conto dei maggiori benefici per la collettività della forma gestoria prescelta, operando un raffronto comparativo rispetto agli obiettivi che, diversamente, sarebbero stati perseguibili mediante l’outsourcing.
Pertanto, le valutazioni da esprimere (benefici per la collettività e fallimento del mercato) possono essere accorpate in un’unica motivazione che esponga in modo “ragionevole e plausibile le ragioni che, nel caso concreto, hanno condotto l’amministrazione a scegliere il modello in house rispetto alla esternalizzazione” (v. Consiglio di Stato, sent. Nr. 2101/2021).
Naturalmente, la congruità dell’attività istruttoria posta in essere dall’Amministrazione deve essere valutata caso per caso; ciò implica, e così si entra nel vivo della questione controversa, che non potrebbe escludersi la legittima possibilità per l’amministrazione di procedere secondo modalità che non si traducono nell’effettuazione di specifiche indagini di mercato e/o di tipo comparativo.
E invero, la peculiarità del caso concreto, l’esperienza di mercato vissuta in precedenza, l’elaborazione di specifici dati ben possono indurre alla ragionevole valutazione che l’affidamento mediante gara non garantisca (non, quantomeno, nella stessa misura di quello diretto) il raggiungimento degli obiettivi prefissati, traducendosi in plausibili, dimostrabili e motivate ragioni idonee a giustificare la scelta dell’affidamento in house.
Sul versante della congruità economica dell’offerta promanante dall’organismo in house, quest’ultima impone all’ente affidante di chiarire all’interno della motivazione quantitativo-economica le concrete modalità di svolgimento del servizio, raffrontandole con le risultanze di esperienze pregresse in termini di efficienza ed efficacia.
La disponibilità di tali informazioni – acquisite dalla stazione appaltante mediante opportune ricerche di mercato- congiuntamente alla conoscenza di altri elementi tra i quali le caratteristiche dell’affidamento e la natura del servizio da erogare; il grado di incertezza e di variabilità del contesto economico e ambientale, utili alla PA per rendere conto dei vantaggi che l’opzione interorganica sarebbe in grado di offrire nel caso concreto in termini di risparmio di tempo e di risorse economiche rispetto al ricorso al mercato.
Orbene, il test di vantaggiosità della scelta a favore dell’affidamento in house, perché quest’ultimo possa dirsi “economicamente congruo” rispetto alle alternative forme gestionali abbisogna di una minima comparazione idonea a paragonare le performances dell’in house provider con quelle dell’impresa media del settore, gestita in modo efficiente. Utili benchmark sarebbero rintracciabili mediante richiamo ai costi standard definiti dalle Autorità di settore, ai prezzi di riferimento elaborati dall’ANAC ovvero ancora agli elenchi di prezzi definiti mediante prezzari ufficiali, ai prezzi medi di aggiudicazione risultanti da gare per affidamenti identici o analoghi. Resta inteso, ad ogni buon conto, che il soggetto affidatario, pur se trattasi di azienda in house, deve garantire dei minimi quanti-qualitativi (inderogabili).
La scelta strategica dell’affidamento in house, inoltre, necessita di venir “setacciata” anche sotto il profilo della c.d. “convenienza sociale”.
In termini pratici, il Legislatore, come desumibile dal citato art. 192.2, ha espresso la volontà di accludere alla motivazione resa dalla stazione appaltante, una parte che rechi evidenza dei benefici per la collettività conseguibili mediante il ricorso all’operazione interna.
Tali benefici sono scrutinati non soltanto premiando le esigenze di economicità ma, prosegue la norma, prendendo anche a riferimento «gli obiettivi di universalità e socialità, di efficienza…e di qualità del servizio, nonché di ottimale impiego delle risorse pubbliche».
Premesso che ad ogni modo trattasi di un’analisi in concreto, tale da richiedere uno studio caso per caso, sulla base dei dati comparabili, come suggerito dall’Anac nello schema di linee guida, tra i benefici valutabili ricadrebbero i c.d. effetti di rete, suscettibili di determinare vantaggi crescenti in ragione dell’aumento del numero di utenti del servizio o dell’utilizzo di sistemi omogenei e interconnessi. Sempre ai fini della valutazione circa l’efficienza e la qualità della prestazione offerta rilevano la mostrata adattabilità del servizio alle esigenze del territorio come pure l’impiego di attività innovative in grado di favorire, tra le altre cose, la partecipazione del cittadino, attraverso l’accesso alle informazioni e la presentazione di reclami e/o osservazioni.
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In house providing e servizi di gestione integrata dei rifiuti
Scendendo nel dettaglio dei settori regolati, l’affidamento in house di un servizio pubblico locale come la gestione dei rifiuti comporta, per l’ente affidante, una serie di adempimenti e di motivazioni “rafforzate” che richiedono valutazioni spesso articolate e complesse il cui risultato converge nel provvedimento motivazionale previsto dall’art. 34, comma 20, del Decreto legge 179/2012, ma dipende da adempimenti dettati da un articolato sistema di regole (Codice appalti, Testo unico in materia di partecipate pubbliche, art. 3-bis del D.L. 138/2011, Linee guida ANAC).
Con la sentenza del 23/2/2021 n. 1596, infatti, il Consiglio di Stato dichiara la legittimità della scelta di un Comune di affidare in house la gestione del servizio di igiene urbana, sulla base della relazione ex art. 34, c. 20 dl n.179/2012, che evidenzia i punti di forza e di debolezza dei vari modelli attraverso punteggi numerici.
Il Consiglio di Stato evidenzia che, in coerenza con l’onere di istruttoria e motivazione rafforzati imposto alle amministrazioni dai sopra richiamati artt. 34, comma 20, d.l. n. 179 del 2012, e 192, comma 2, del Codice dei contratti pubblici – a sua volta conformi al diritto dell’Unione Europea, come accertato dalla Corte di giustizia nella parimenti richiamata ordinanza del 6 febbraio 2020, C-89/19 e 91/19 (Rieco spa) – l’opzione del Comune per l’in house providing è sorretta da un’adeguata esposizione delle sottostanti ragioni.
Infatti, sottolineano i giudici amministrativi, la relazione approvata dal consiglio Comunale prevede un’analisi comparativa dei punti di forza e debolezza dei tre modelli gestionali (in house, mercato e mista) rispetto agli obiettivi dell’amministrazione nello svolgimento del servizio di igiene urbana.
Nell’ambito di questa analisi la relazione sottolinea i vantaggi della scelta del modello in house, analoga analisi viene svolta per il modello del ricorso al mercato, del quale sono individuati quali punti di forza: la professionalità e l’esperienza nel settore; l’assunzione di responsabilità per l’esecuzione del servizio in via esclusiva in capo all’operatore privato; la competizione sul prezzo in sede di gara; una maggiore capacità di investimenti, cui però si contrappone l’assenza delle sinergie tipiche dell’in house providing derivanti dall’alterità soggettiva dell’appaltatore rispetto all’amministrazione; e i rischi di contenzioso tra le due parti.
Il Consiglio di Stato sancisce quindi che, attraverso le succitate modalità descritte, la relazione enuncia le «ragioni del mancato ricorso al mercato, nonché dei benefici per la collettività della forma di gestione prescelta», come richiesto dall’art. 192, comma 2, del Codice dei contratti pubblici.
Orbene, in questo contesto, l’evidenziazione dei vantaggi economico-qualitativi della prestazione, da esplicitare nel corpo della relazione di cui all’art. 34, passa attraverso una serie di fattori inerenti alle condizioni di erogazione del servizio.
Ad esempio, elemento di indubbio favore per la scelta di internalizzare il servizio è la circostanza che il costo medio per abitante sia in linea con quello praticato in altre realtà territoriali da servizi comunali
Sempre a questo proposito, in un recente caso pratico, il Consiglio di Stato sez. IV – con sentenza nr. 3969 del 22 ottobre 2021- ha ritenuto assolto l’onere motivazionale imposto al Comune per l’affidamento in house del servizio di gestione ambientale ex art. 192, co. 2, avendo quest’ultimo svolto un’approfondita disamina comparativa.
Nel caso di specie, il Collegio ha ritenuto che la congruità della relazione fosse resa palese dal riferimento a dati positivamente valutabili nei termini in cui suscettivi di produrre benefici tanto in ragione della convenienza economica dell’operazione quanto in termini di vantaggi per la collettività, concernendo «l’ attivazione di nuove forme di raccolta puntuale dei rifiuti o nuovi servizi di igiene ambientale senza la necessità di una nuova procedura concorsuale, la possibilità di attivare tutti i servizi complementari al servizio principale che la società offre gratuitamente o con costi predefiniti; l’eliminazione dei costi, diretti ed indiretti » o ancora la previsione di elementi innovativi, quali « attività di consulenza tecnica; servizi informatici; organizzazione di eventi formativi; attività di studio e progettazione della tariffa puntuale; attività di ricerca di mercato per la cessione dei rifiuti recuperabili».
Ciò tanto più in quanto, il Comune affidante, si è avvalso di standards che il giudice amministrativo ha valutato attendibili, per via «dei riferimenti operati e della comparazione effettuata con altri Enti con caratteristiche di omogeneità territoriale e geografica».
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Conclusioni
Al netto di ogni valutazione sull’opportunità l’affidamento in house di un servizio pubblico locale come la gestione dei rifiuti, giova ricordare che nella seduta del Consiglio dell’8 settembre 2021, Anac ha approvato la proposta di Nuove Linee guida in fatto di affidamenti in-house per le società pubbliche.
Prima di ricorrere ad assegnazioni di appalti e concessioni in-house, le stazioni appaltanti dovranno, quindi, fornire e rendere pubbliche con precise motivazioni di convenienza economica e sociale le ragioni che portano a scegliere l’in-house, invece della gara.
In tal modo mettendo in grado anche cittadini e operatori economici esclusi dall’in-house di verificare e controllare se tali motivazioni esistano veramente, o sono soltanto uno strumento fittizio da parte di amministrazioni pubbliche e società controllate per evitare la gara.
L’Anac ,infatti, fornisce indicazioni precise su come debba essere effettuata tale dichiarazione.
Soprattutto ribadisce il principio che senza una motivazione adeguata l’affidamento di appalti e concessioni in-house è da considerarsi illegittimo.
L’utilizzo ampio ed eccessivo, finanche indiscriminato, dell’in-house, che porta gli enti locali ad assegnare in affidamento diretto fino al 93% delle assegnazioni, lasciando alle gare per i servizi una quota irrisoria pari a soltanto il 5% del totale, ha spinto Anac a intervenire con forza.
Infatti, l’abuso dell’in-house significa carenza di trasparenza, eccesso di discrezionalità, applicazione del processo senza gara a situazioni opache. Spesso poi le società affidatarie risultano prive di requisiti soggettivi e oggettivi previsti dalla normativa.
E soprattutto non presentano chiare ragioni di convenienza economica per tale affidamento, mostrando più una volontà di evitare la gara e privilegiare l’assegnazione diretta. Tutto questo senza alcuna preventiva verifica comparativa che spieghi in quale posizione stiano gli affidamenti decisi rispetto al benchmark di settore.
Nell’ambito della gestione dei rifiuti, per esempio, gli affidamenti in-house sono quasi il 70% del totale: settanta affidamenti su 105 nel quadriennio 2016-2020.
Diviene, pertanto, auspicabile un intervento normativo di più ampio respiro, che integri le esigenze della collettività, con le necessità delle pubbliche amministrazioni e con le legittime aspettative degli operatori commerciali, tutti chiamati ad interagire in un mercato con regole certe ed uguali per tutti.