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di Ruggero Tumbiolo. La realizzazione dell’opera pubblica sul fondo illegittimamente espropriato è in sé un mero fatto, non in grado di assurgere a titolo dell’acquisto, ed è come tale inidonea, da sé sola, a determinare il trasferimento della proprietà: in tal senso si esprime la Corte Suprema di Cassazione, Seconda Sezione civile, con la decisione n. 705 depositata il 14 gennaio 2013.
Il giudice, al riguardo, richiama la costante giurisprudenza della Corte europea dei diritti dell’uomo (Seconda Sezione, 30 maggio 2000 n. 31524/96; Terza Sezione, 12 gennaio 2006 n. 14793/02), la quale ha più volte affermato la non conformità alla Convenzione (in particolare, al Protocollo addizionale n. 1) dell’istituto della cosiddetta “espropriazione indiretta”, censurando la possibilità di individuare sistemi di acquisizione diversi da quello consensuale del contratto e da quello autoritativo del procedimento espropriativo.
Ad avviso della Corte di Cassazione, non è pertanto più predicabile il principio secondo cui l’occupazione appropriativa per fini di pubblica utilità non seguita da espropriazione determina, comunque, l’acquisto della proprietà in capo alla pubblica amministrazione dell’area occupata per effetto della realizzazione dell’opera pubblica e delle zone accessorie.
Una conferma della correttezza della tesi è rinvenibile, per il Collegio, nell’art. 42 bis del D.P.R. n. 327 del 2001, il quale, anche con riguardo a fatti anteriori alla sua entrata in vigore, disciplina le modalità attraverso le quali, a fronte di una utilizzazione senza titolo di un bene per scopi di pubblico interesse, è possibile, previa valutazione degli interessi in conflitto, pervenire ad una acquisizione non retroattiva della titolarità del bene al patrimonio indisponibile della pubblica amministrazione, sotto condizione sospensiva del pagamento di un importo a titolo di indennizzo per il pregiudizio patrimoniale e non patrimoniale.

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