LA PRUDENZA NELLA GIUSTIZIA.
Sergio Benedetto Sabetta
SOMMARIO: Sulla giustizia – Parte prima – Parte seconda
Aristotele nel libro V dell’Etica Nicomachea distingue tra giustizia politica, intesa quale rispetto della legge, e la giustizia quale equità, vi è qui la necessità di definire un criterio di giustizia nelle possibili varie concezioni.
L’uomo per Aristotele è di per sé un animale politico essendo teso alla socialità, una teoria messa in discussione nell’età moderna, dove lo steso concetto di giustizia distributiva intesa quale equità perde la sua naturalità per diventare con Hobbes un artificio umano, prodotto della volontà.
Già Machiavelli e Guicciardini superano il concetto di buon governo quale frutto di una collaborazione fondata sulla “iuris-prudentia”, per affermare la “ ragion di Stato”, spezzando il rapporto tra ragione e giustizia, ossia la necessità aristotelica della concordia sociale.
La prudenza non è più quella virtù necessaria per distinguere tra bene e male, non essendovi più criteri comunemente accettati, la storia corre veloce verso nuove forme istituzionali e agli individui spetta il rischio delle decisioni, finendo per legittimare fraudolenza e violenza quali mezzi per acquisire e conservare il potere.
Mezzi sempre usati nel privato ma pubblicamente biasimati e non da esibire nella necessità di una legittimazione, ma la stessa simulazione e dissimulazione è specularmente concessa per difendersi da leggi ed ordini ritenuti ingiusti.
Se non vi è più la capacità della “iuris-prudentia” di congiungere il generale al particolare, subentra la necessità del conformarsi negando la possibilità di un giudizio autonomo per dedicarsi alla conoscenza privata, come Cartesio nelle Episteme, il quale osserva nel “Discorso sul metodo” che molti uomini non nascondono ma semplicemente ignorano il perché del loro agire.
Se neghiamo la possibilità della “parrhesia” greca, in quanto rischio, non resta che l’astuzia, come osserva Hobbes, conseguenza dell’uso di mezzi ingiusti o disonesti.
La trasformazione del concetto di prudenza da capacità di valutare i fatti e le circostanze, al fine di mantenere una giusta concordia, in cautela e astuzia, porta al deperimento della facoltà del giusto giudicare, quindi del pensare ed agire in conseguenza.
Nell’età contemporanea la disgregazione delle identità tradizionali, collegata ai bruschi e rapidi cambiamenti in atto, conduce alla necessità di una riflessione, rimangono tuttavia consuetudini necessarie all’agire inserite nell’uomo in cui viene a calarsi la prudenza.
Da modello naturale la politica diviene un artificio umano e conseguentemente artificiali le istituzioni che ne derivano, come già osservato da Hobbes.
Si pone quindi il problema della giustizia, quando si ha giustizia, che cosa è la giustizia, Rawls individua nella giustizia sociale e nella verità di pensiero le virtù fondamentali dell’attività collaborativa umana, in quanto coinvolgono sia la cooperazione che la distribuzione dei benefici che ne conseguono, il loro venire meno destabilizza e corrode nel tempo il tessuto sociale.
Si ha pertanto con la teoria della giustizia di Rawls il superamento della teoria politica normativa dominante nel secolo scorso, fondata sull’utilitarismo, la giustizia si declina nella libertà di pensiero e nel principio distributivo, puntando alla cittadinanza democratica quale equità sociale.
Nasce tuttavia un problema culturale, quello della capacità critica e dell’educazione alla cittadinanza nel rispetto della libertà, in quanto la libertà è qualcosa di delicato che può facilmente trasformarsi in arbitrio e divenire, quindi, causa essa stessa di disgregazione.
Contrapposta alla teoria della giustizia di Rawls viene a porsi la teoria libertaria dei diritti negativi di Nozick, in cui si richiama la necessità di uno Stato minimo al fine di evitare la compressione della libertà del singolo, la sua possibilità di scelta a seguito dell’intervento pubblico, una reazione all’eccesso di regolamentazione che rientra nell’aspetto ondulatorio dell’agire umano.
La giustizia diviene quindi commutativa e non distributiva, nel confronto tra egualitarismo democratico, principio di equità sociale, e libertarismo, libertà economica di mercato in uno Stato minimo.
La conciliazione tra questi due estremi sembra avvenire con il recupero aristotelico della comunità, che nel definire i confini crea una lealtà civile, le comuni radici permettono di identificarsi ed acquisire un proprio senso di giustizia mediante la tradizione.
Vi è tuttavia il problema della globalizzazione che, favorita dallo sviluppo tecnologico, crea una multi-identità, una impossibilità di un unico “soggetto” nella libertà.
Sen prova a superare teoricamente questo blocco spostando l’attenzione dal quantitativo di possesso dei beni allo stare bene nel contesto di vita, questo in virtù della conversione dei beni in funzionamento.
Il tasso di conversione dipende dai vari contesti sociali, culturali, economici in cui si divide l’umanità, torna pertanto rilevante la prudenza quale “iuris-prudentia”, elemento di congiunzione tra il generale e il particolare.
SULLA GIUSTIZIA
Seconda parte
Osserva John Milton “ Sicuramente noi non portiamo l’innocenza nel mondo, vi portiamo l’impurità, piuttosto. Quello che ci purifica è la prova, e la prova consiste nel volere il contrario di quello che ci piace. [….] La libertà che io cerco è quella di apprendere, di parlare e di discutere, liberamente secondo coscienza” ( Areopagetica. Discorso per la libertà della stampa.)
Vi è in queste parole l’affermazione della virtù quale contrasto con il vizio, la virtù nasce dal conoscere il male ma negarlo, il male quale dissoluzione della concordia nell’affermazione assoluto del proprio sé, emerge chiaramente la necessità della temperanza quale capacità critica e coscienza.
Questa non può essere imposta dall’esterno ma deve essere formata nell’individuo, educata, una virtù che è tuttavia in contrasto con il modello attuale di società dove viene esaltata la superbia quale modello vincente di una propria affermazione.
La libertà può quindi trasformarsi in arbitrio e venire a coinvolgere anche il senso di giustizia del singolo.
La mancanza di temperanza si risolve pertanto nelle premesse per futuri scontri, ricorso alla violenza quale espressione ultima dell’intemperanza, come ci ricorda Locke nel saggio “Il secondo trattato sul governo”.
Se in epoche precedenti la temperanza era imposta dall’autorità politica o religiosa secondo propri modelli, attualmente essa risulta superata nella ricerca di un proprio super essere alla Nietzsche, ma qui si pone un problema nel rapporto con la responsabilità individuale.
La mancanza di equilibrio, temperanza, porta all’irresponsabilità nel non sapere temperare il proprio sé con l’altro, ecco il tentativo di contrattualizzare tutto l’agire umano, disperso in un senso economicamente pianificato di onnipotenza.
Su questi modelli la temperanza comporta il coraggio morale di opporsi al modello prevalente, quale giusto mezzo aristotelico tra l’immobilità e il temerario lanciarsi seguendo in esso un istinto manipolato, viene a recuperarsi in termini attuali quella virtù definita fortezza che permette di resistere a richiami falsi delle sirene senza per questo bloccarsi.
L’eroismo moderno non è più sacrificarsi per gli altri ma riuscire a far sì che la propria gloria momentanea risieda sul sacrificio degli altri, ossia sulla manipolazione dell’altrui agire, la negazione della verità.
La mancanza di una identità comune rende indifferenti a quello che accadrà dopo di noi, concentrando l’attenzione sul presente e la gloria immediata quale immagine.
Non è coraggio quello che non è sacrificio di una parte di sé, rinuncia, ma il coraggio comporta anche indipendenza di giudizio, talvolta solitudine, senza la ricerca del plauso e dell’ammirazione immediata nel conformarsi al momentaneo giudizio prevalente.
Il coraggio è il superamento di un timore, contiene in sé la compassione nell’identificarsi con la sofferenza dell’altro, affermando senza una utilità la propria posizione fino ad accettare se stessi senza piegarsi al successo sociale immediato, una gloria effimera che nasconde molte volte uno scacco esistenziale (Marzano).
In tutto questo rientra ancora la capacità di imporre a sé ed usare la “iuris-prudentia” quale elemento di congiunzione tra il particolare e il generale senza tuttavia rinunciare ai propri principi.
In una “società deregolata e personalizzata di consumatori” (35, Z. Bauman, Per tutti i gusti. La società nell’età dei consumi, Laterza 2021) non vi è utopia se non nell’immediato, una fuga in avanti che dal possedere beni passa a sostituire in un perenne movimento.
Il sovrapporsi tra necessità lavorative, aspetti finanziari, la non volontà di vedersi (Pascal ) che favorisce la commercializzazione, la stessa accelerazione tecnologica, fa sì che nel perdersi di una forte identità collettiva in un frantumarsi di realtà autonome, anche i T.U. vengono a perder coerenza, divenendo superati e impossibili a realizzarsi, essendo assorbiti da una serie infinita di eccezioni.
BIBLIOGRAFIA
-
B. Pascal, Pensieri, a cura di P. Serini, Einaudi 1962;
-
P. Bourdieu, La distinzione. Critica sociale del gusto, Mulino 1983;
-
J. Habermas – C. Taylor, Multiculturalismo. Lotte per il riconoscimento, Feltrinelli 1998.