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La prova che un’operazione realizzata all’estero tramite società collegate sia reddito grava sull’Ufficio.

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E’ l’Agenzia delle entrate che deve dimostrare i maggiori ricavi che presume sulla base di costi di pubblicità maggiori dei ricavi generati in un Paese all’estero.

 
Decisione: Sentenza n. 6656/2016 Cassazione Civile – Sezione V

 

Il caso.

L’Agenzia delle Entrate contestava a una società di non aver contabilizzato ricavi derivanti da operazioni intercorse con imprese collegate.

La ripresa a tassazione si basava sull’argomentazione dell’ìUfficio che la società ha sostenuto costi per la pubblicità ai prodotti attraverso una impresa collegata nella Repubblica Ceca, in misura superiore ai ricavi ivi conseguiti.

La società ricorre e le ragioni della contribuente vengono accolte in primo e secondo grado.

L’Agenzia delle Entrate ricorre per la cassazione della sentenza di appello, lamentando il difetto di motivazione della stessa.

La Cassazione rigetta il ricorso.

 
La decisione.

Anzitutto, il Collegio ricorda che «L’onere di dimostrare che un’operazione economica realizzata all’estero, fatta tramite una controllata o controllante avente per l’appunto sede all’estero, costituisce reddito, è posto a carico della Amministrazione, per consolidato orientamento di questa Corte (Cass. 1_3.10.2006, n. 22023; Cass. 16.5.2007, n. 11226)».

Poi precisa che, essendo la questione relativa a una asserita elusione, «Va ribadita la regola per cui la prova dell’elusione, e dei suoi presupposti, grava sull’Amministrazione che intende operare le conseguenti rettifiche».

E chiarisce meglio la qualificazione della pretesa, da cui discende la non applicabilità della tesi sostenuta dall’Ufficio in merito all’onere della prova: «è irrilevante la giurisprudenza citata in tema di costi deducibili, e che pone l’onere di dimostrare la deducibilità in capo al contribuente, poiché non si tratta qui di costi deducibili, ma dell’assumere come reddito occulto una differenza tra costi e ricavi realizzati all’estero».

Ne deriva la verifica dell’operato dei giudici di merito: «Con apprezzamento di fatto non censurabile in Cassazione, la Commissione ha ritenuto che l’Agenzia non ha adeguatamente dimostrato perché, sulla base dei valori normali delle merci vendute, il ricavo avrebbe dovuto essere superiore alla spesa sostenuta per vendere, ritenendo invece che l’Agenzia abbia agito sulla base di una presunzione non convincente: quella per cui la spese sostenute per la pubblicità avrebbero dovuto far conseguire alla società ricavi perlomeno pari alla spesa affrontata. La motivazione fa, sia pure sinteticamente, la comparazione tra due presunzioni: quella usata dall’Amministrazione e quella, di segno contrario, per cui sarebbe più verosimile che in fase di start up il costo per promuovere il prodotto sia superiore ai ricavi delle vendite».

L’Amministrazione lamentava che il giudice non avesse valutato correttamente l’uso delle comuni regole di esperienza su un fatto determinante, ma il Collegio la pensa diversamente: «In sostanza, la ricorrente Agenzia assume un impiego non corretto delle regole di esperienza su un fatto determinante. In generale, non può ritenersi insufficiente, però, la motivazione quando si comprende quali siano state le ragioni che hanno giustificato la decisione assunta. La sentenza impugnata mostra di motivare perché ritiene che non è presumibile che da un costo di pubblicità debba ricavarsi necessariamente un guadagno almeno di pari ammontare, in quanto ritiene non correlato quel costo al ricavo dovuto alle vendite».

E precisa ulteriormente: «Nel caso di impiego di regole di esperienza, il vizio denunciato presuppone che il giudice non abbia adeguatamente illustrato quali siano tali regole e come lo hanno portato a far ritenere provato (o non provato) il fatto controverso e decisivo. In realtà, il giudice di merito adduce una ragione che sta al fondo della regola di esperienza utilizzata per valutare il fatto controverso».

Da ultimo, la Suprema Corte ricorda che le spese di pubblicità non necessariamente assicurano ricavi tali da coprirle: «Da un lato infatti ritiene che l’Agenzia non abbia sufficientemente dimostrato il valore normale delle merci, ma soprattutto, dall’altro, assume che dal costo di pubblicità non si può dedurre, come ha fatto l’Agenzia, che si debba avere, necessariamente, pena la non economicità della operazione, un ricavo corrispondente o maggiore, trattandosi di due voci non correlate, nel senso che la spesa di pubblicità non necessariamente assicura ricavi tali da coprirla. Il giudice di merito ha dunque motivato sulle ragioni che lo hanno indotto a ritenere non fondata la presunzione cui ha fatto ricorso l’Agenzia».

Il ricorso viene quindi rigettato.

 
Osservazioni.

La sentenza ribadisce che la motivazione di una sentenza non può ritenersi insufficiente quando si possono comprendere le ragioni che hanno giustificato la decisione.

E ricorda che quando si sostiene un costo, non ne derivano automaticamente ricavi in misura pari o maggiore: se l’Ufficio ritiene di accertare maggiori ricavi, deve dimostrare adeguatamente che tali ricavi siano stati conseguiti.

 
Disposizioni rilevanti.

Nota: nel caso oggetto di decisione, l’Agenzia delle Entrate faceva riferimento all’art. 76, comma 5 del D.P.R. n. 917/1986 nella sua formulazione previgente.

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