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di Carlo Rapicavoli –

La mafia torna al centro dell’attenzione mediatica negli ultimi giorni per due eventi.

Il primo, senza precedenti, deriva dalla deposizione del Capo dello Stato nel processo sulla cosiddetta trattativa Stato – mafia.

Cosa si è davvero capito di questa vicenda e del ruolo del Presidente della Repubblica dall’informazione?

Poco o nulla, se non vedere accostato il primo rappresentante della Repubblica ad una delle questioni più controverse degli ultimi decenni della nostra storia.

“La Presidenza della Repubblica auspica che la Cancelleria della Corte assicuri al più presto la trascrizione della registrazione per l’acquisizione agli atti del processo, affinché sia possibile dare tempestivamente notizia agli organi di informazione e all’opinione pubblica delle domande rivolte al teste e delle risposte rese dal Capo dello Stato con la massima trasparenza e serenità”, si afferma dal Quirinale.

E’ davvero auspicabile affinché si faccia chiarezza; affinché sia chiaro se il Presidente è stato sentito solo per le intercettazioni che avevano coinvolto il suo consigliere Loris D’Ambrosio; oppure per quelle intercettazioni che avevano dato origine al conflitto di attribuzioni fra la Presidenza della Repubblica e la Procura di Palermo, risolto dalla Corte Costituzionale, malgrado secondo la stessa Procura di Palermo “si trattasse di intercettazioni irrilevanti” tanto da considerare “la comunicazione di Napolitano processualmente irrilevante, tanto da escludere di utilizzarla sia in sede investigativa, sia nel processo”.

Eppure alla fine si è arrivati alla testimonianza di oggi di cui si attende la trascrizione, perché si ha tutti il diritto di conoscere ciò che è davvero avvenuto.

Il secondo deriva dall’intervento di Grillo a Palermo.

“La mafia – ha affermato – è stata corrotta dalla finanza, prima aveva una sua condotta morale e non scioglieva i bambini nell’acido. Non c’è differenza tra un uomo d’affari e un mafioso, fanno entrambi affari: ma il mafioso si condanna e un uomo d’affari no”.

Non è la prima volta.

Già nel maggio 2012 Grillo affermava sempre in Sicilia: “La crisi è peggio della mafia. La mafia non ha mai strangolato le proprie vittime, i propri clienti, si limita a prendere il pizzo. Ma qua vediamo un’altra mafia che strangola la propria vittima”.

Si tratta di evidente provocazione, tanto da essere sottolineata dallo stesso autore come tale, alla facile ricerca del titolo sui giornali.

Ma quanto può essere tollerata la provocazione, fino a che punto può arrivare?

Se si arriva ad affermazioni di questo tenore – per quanto provocatorie esse siano – alla ricerca del consenso di un popolo in affanno e disorientato, per la crisi, la disoccupazione, l’incertezza per il futuro, la crisi del sistema politico, il governo regionale in gravissima difficoltà – allora bisogna fermarsi tutti a riflettere.

Si è perso il senso delle parole, della storia, il rispetto per le migliaia di vittime della mafia: servitori dello Stato, imprenditori, semplici cittadini, morti perché non si sono sottomessi, costretti a chiudere la propria attività, a lasciare la propria terra.

Non si può scherzare con le parole in questo modo, non è uno scherzo e non può essere neanche una provocazione.

Affermazioni di questo tipo avallano quel “pensiero” che è la forza e l’essenza stessa della mafia, quella “mens mafiosa” che è il cancro che colpisce il nostro territorio.

Quel pensiero che vuole fare passare l’organizzazione criminale come una struttura che “protegge” i cittadini, che garantisce quella sicurezza e quel lavoro che lo Stato non è in grado di assicurare; un pensiero che “legittima” di ricorrere alla sua protezione per rivendicare un diritto, per avere un lavoro, per ottenere ciò che sarebbe normalmente dovuto.

Uno Stato parallelo cui riconoscersi ed affiliarsi.

E’ questo perverso modo di pensare che rende forte la mafia, più che i delitti: alla repressione dei delitti lavorano senza sosta le forze dell’ordine e la magistratura; ad estirpare un modo di pensare deve lavorare l’intera società civile, dalla famiglia, alla scuola, alla politica, ai sindacati, agli imprenditori.

Senza indulgenze, senza provocazioni.

Solo affermare che la mafia possa avere avuto una “condotta morale” è riprovevole. Accostare morale e mafia è il più evidente degli ossimori.

A meno che non si voglia intendere per tale il rispetto delle regole della mafia, degli uomini d’onore, della “morale” non scritta ma praticata. Ma, appunto, trattasi di ossimoro.

Ed ecco, proprio quando la lotta alla mafia non è più nell’agenda politica e di governo da tempo, quando la “pax mafiosa” ha raggiunto un suo punto di equilibrio, soffocando l’economia e rafforzando gli affari, lontano dai riflettori puntati (riflettori che si attivano purtroppo solo quando si spara o si usa l’esplosivo), la provocazione diventa ancora più subdola e pericolosa, che certamente va oltre l’intenzione dello stesso autore.

La Sicilia non merita e non tollera questo.

La rivoluzione di cui tanti parlano – da chi amministra la Regione a chi si oppone – brandendo il tema della mafia e dell’antimafia soltanto come provocazione o vessillo, non fa che il bene della mafia vera, quella che controlla l’economia e gli appalti, quella che regola e influenza le decisioni, quella che non ha e non ha mai avuto una condotta morale.

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