La funzione “complementare” delle intese interregionali nella cooperazione territoriale
LISA LANZONI
(Phd Diritto Costituzionale Italiano ed Europeo – Doctor Europaeus – Università degli Studi di Verona)
SOMMARIO: 1. La via legislativa alla cooperazione interregionale-2. Le intese interregionali nella Costituzione.-2.1. Le tipologie idi intese interregionali nell’esperienza dei territori.-3. La cooperazione interregionale nel sistema delle fonti.
1. La via legislativa alla cooperazione interregionale – Il penultimo comma dell’art. 117 Cost., introdotto dalla l. cost. n. 3/2001, ha previsto la facoltà delle Regioni di addivenire ad intese con altre Regioni per il migliore esercizio delle proprie funzioni, anche attraverso l’individuazione di organi comuni e mediante ratifica con legge regionale. Il disposto così formulato assume il duplice, impegnativo compito di dare copertura costituzionale ad una stagione di oltre trent’anni di cooperazione territoriale tra Regioni e, nel contempo, di inaugurare un nuovo periodo nella gestione degli interessi ultraterritoriali, come testimoniato dalle più recenti politiche di sviluppo regionale.
Sin dall’istituzione delle Regioni, la funzione di governo territoriale è stata costantemente connotata dalla presenza di forme di cooperazione interregionale regolate da differenti fonti normative e diversamente denominate, ma tutte finalizzate alla migliore gestione di interessi ultraterritoriali di natura omogenea. Non infrequente era, ad esempio, la conclusione tra Regioni dei cosiddetti “accordi prelegislativi”, definibili, in sostanza, come atti politici di intento per la definizione delle attività di coordinamento degli interessi comuni, nonché dei criteri direttivi per l’eventuale regolazione in via normativa di talune discipline di settore riguardanti gli interessi medesimi1.
In tale contesto, la figura giuridica dell’intesa ha costituito il meccanismo cooperativo complessivamente più invalso nei rapporti tra le Regioni, affiancandosi ad altri strumenti stabiliti dalla legge – quali accordi e convenzioni – sostanzialmente di identico contenuto2.
Precedentemente alla l. cost. n. 3/2001, la collaborazione interregionale rinveniva il proprio fondamento costituzionale nei principi del pluralismo istituzionale dell’art. 5 Cost.3, dell’autonomia regionale di cui al previgente art. 115 Cost.4, nonché nel principio di leale collaborazione, elaborato dalla giurisprudenza costituzionale per la regolazione dei rapporti tra Stato e Regioni ed estensibile ai rapporti tra le Regioni5.
Dopo una prima fase giurisprudenziale più prudente, orientata a sostenere le azioni di valorizzazione territoriale purché contenute nei confini politico-amministrativi regionali, a garanzia del rispetto del limite dell’interesse nazionale6, la Corte costituzionale ha determinato un forte impulso all’utilizzo di strumenti volti a favorire la cooperazione tra Regioni, radicando la legittimità degli interventi ultraterritoriali nell’interesse oggettivo sotteso alle funzioni esercitate7. Con la sent. n. 142/1972, la Corte si spinse addirittura a sottolineare l’assenza di un intervento significativo del legislatore in materia, auspicando l’intervento di «provvedimenti legislativi in tale direzione, essendo esatto quello che le difese delle Regioni fanno valere circa la convenienza di una disciplina dei rapporti interregionali»8.
Le relazioni di collaborazione instaurate tra le Regioni attraverso accordi, intese e ulteriori forme di natura convenzionale venivano, dunque, da subito riconosciute come una importante manifestazione della concreta esponenzialità dell’ente in riferimento agli interessi generali della propria collettività9.
Sin dalle prime pronunce della Corte in materia, veniva comunque espressamente richiamato il limite del rispetto dei principi di unità ed invisibilità dell’art. 5 Cost., in risposta ai frequenti dubbi dottrinali circa lo sviluppo di una eccessiva differenziazione dei territori e di un indebolimento nella titolarità delle funzioni in capo alle singole Regioni, quale diretta conseguenza della condivisa regolazione degli interessi comuni10.
Tra le più rilevanti disposizioni legislative in materia precedenti la riforma costituzionale del 2001, si ricorda l’art. 1, l. n. 382/1975, che sanciva il definitivo passaggio verso una gestione condivisa tra centro e periferia nella regolazione degli interessi comuni11. La norma stabiliva che le Regioni potessero addivenire ad intese e costituire uffici ossia gestioni comuni, anche in forma consortile, per le attività ed i servizi riguardanti territori finitimi. Pur presentando il significativo limite della contiguità delle aree di localizzazione degli interessi, il disposto consentiva il superamento della precedente disciplina della l. 281/1970 che, nel delegare talune funzioni amministrative alle Regioni, manteneva in capo allo Stato la regolazione degli interessi di carattere interregionale12.
Successivamente, l’art. 8 del D.P.R. n. 616/1977 riprendeva quanto stabilito dalla l. n. 382/1975, specificando la possibilità delle Regioni di addivenire tra esse alla conclusione di intese di carattere dichiaratamente settoriale, in materia, ad esempio, di agricoltura e foreste (art. 66), di difesa boschiva (art. 69), di sviluppo delle reti di trasporto (art. 84)13.
Le previsioni del D.P.R. n. 616/1977 riportavano sempre il limite della prossimità dei territori, ma vale sottolineare che esso venne ben presto applicato in senso elastico dallo stesso legislatore, che consentiva l’utilizzo delle intese come strumento generale per l’attività programmatica delle Regioni, a prescindere dal requisito della vicinanza dei territori coinvolti nelle azioni di cooperazione14. Tale fattore fu fondamentale nel sollecitare una collaborazione orizzontale che nascesse dall’iniziativa delle Regioni e non costituisse una mera esecuzione di intenti di sviluppo delle aree interregionali così come stabiliti dal centro15.
Già nei primi anni successivi all’entrata in vigore di quest’ultima disciplina, i Consigli di diverse Regioni deliberarono l’adozione di schemi per la conclusione di intese atte a regolare taluni gruppi di interessi interregionali, impegnandosi a recepirne in seguito il contenuto attraverso leggi regionali. In proposito, una delle ipotesi più significative è rappresentata dal caso delle idrovie padane, che vide coinvolte nelle azioni di cooperazione le Regioni Lombardia, Veneto ed Emilia Romagna. I rispettivi Consigli regionali approvarono gli schemi per la conclusione di intese in materia, recependo il contenuto di cui all’art. 98 D.P.R. n. 616/1977 per la gestione comune della navigazione interna tra Regioni finitime16.
La successiva legislazione statale perfezionò tali orientamenti, prevedendo, oltre all’intesa, diversi ed ulteriori strumenti rientranti nel cosiddetto fenomeno dell’“amministrazione contrattata”. Tra essi vale senz’altro ricordare gli accordi di programma di cui all’art. 27, l. n. 142/1990, come modificati dalle previsioni di cui al vigente art. 34, l. n. 267/2000 (Testo unico degli enti locali), che prevedono una specifica procedura per la gestione comune degli interessi allocati, attraverso un’azione integrata di Regioni, Comuni, Province ed Amministrazioni statali17.
L’iter legislativo che precede la costituzionalizzazione delle intese interregionali pare, dunque, rappresentare un passaggio essenziale nella definizione di un regionalismo cooperativo e concretamente rispondente alle esigenze di sviluppo funzionali agli interessi localizzati sui singoli territori. Tale assunto viene supportato soprattutto dal celere superamento, avvenuto in via legislativa, delle previsioni relative al limite della contiguità dei territori regionali per l’attuazione di forme di cooperazione tramite intese, a sostegno di una valorizzazione dei territori in grado di guardare agli effetti di crescita degli interessi allocati oltre la contingenza delle singole aree.
Vedi la pubblicazione integrale su AmbienteDiritto.it (Pubblicato il 16/12/2013 su AmbienteDiritto.it – Rivista Giuridica Telematica – Electronic Law Review – ISSN 1974-9562)