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La “bozza non corretta” dei saggi del Governo sulle riforme costituzionali

di Carlo Rapicavoli –

Dopo l’approvazione in prima lettura da parte della Camera dei Deputati e del Senato della Repubblica del disegno di legge costituzionale per l’istituzione del Comitato parlamentare per le riforme costituzionali ed elettorali, ecco presentato il documento dei “saggi” individuati dal Governo.

Si tratta della Commissione per le riforme costituzionali, nominata dal Presidente del Consiglio dei Ministri con proprio decreto dell’11 giugno 2013, con il compito di formulare proposte di revisione della Parte Seconda della Costituzione, Titoli I, II, III e V, con riferimento alle materie della forma di Stato, della forma di Governo, dell’assetto bicamerale del Parlamento e delle norme connesse alle predette materie, nonché proposte di riforma della legislazione ordinaria conseguente, con particolare riferimento alla normativa elettorale.

La Commissione, con anticipo rispetto al termine fissato per il 15 ottobre 2013, ha consegnato la relazione finale al Presidente del Consiglio il 17 settembre scorso.

Il lavoro è stato concluso – non se ne conoscono i motivi – in gran fretta tanto da presentare e pubblicare una “bozza non corretta in corso di coordinamento formale”.

La bozza della Relazione finale è articolata in sei capitoli:
1) Bicameralismo;
2) Procedimento legislativo;
3) Titolo V;
4) Forma di governo;
5) Sistema elettorale;
6) Istituti di partecipazione popolare.

La Commissione unanime ritiene necessari interventi di riforma costituzionale, i cui punti principali sono stati così individuati:

1. Il rafforzamento del Parlamento attraverso la riduzione del numero dei parlamentari, il superamento del bicameralismo paritario, una più completa regolazione dei processi di produzione normativa e in particolare una più rigorosa disciplina della decretazione di urgenza.
2. Il rafforzamento delle prerogative del Governo in Parlamento attraverso la fiducia monocamerale, la semplificazione del processo decisionale e l’introduzione del voto a data fissa di disegni di legge.
3. La riforma del sistema costituzionale delle Regioni e delle Autonomie Locali che riduca significativamente le sovrapposizioni delle competenze e si fondi su una maggiore collaborazione e una minore conflittualità.
4. La riforma del sistema di governo, che viene prospettata in tre possibili diverse opzioni:
a) la razionalizzazione della forma di governo parlamentare;
b) il semipresidenzialismo sul modello francese;
c) una forma di governo che cerca di farsi carico delle esigenze sottese alle prime due soluzioni, che conduca al governo parlamentare del Primo Ministro.

Al di là dei principi generali, la relazione offre varie ipotesi possibili di riforma, senza contenere approfondite valutazioni critiche delle varie opzioni, né analisi comparate delle diverse proposte. Rimette al Governo un’illustrazione di possibili riforme, ovviamente non inedite, da attuare.

Il risultato finale è chiaramente frutto di mediazione come peraltro espressamente dichiarato nella premessa, che probabilmente non si addice ad illustri costituzionalisti quali sono i componenti della Commissione.

Tuttavia, nell’intento del Governo, vi è probabilmente l’esigenza di avere “copertura” da parte della migliore dottrina al discutibile processo di riforma costituzionale avviato.

Discutibile per tempi e metodo come abbiamo già avuto modo di evidenziare.

Un aspetto particolare – ricordato recentemente da alcuni costituzionalisti (cfr. Michela Manenti, Il valore (negativamente) esemplare del percorso prescelto per le riforme istituzionali, su Costituzionalismo.it) – attiene alla precedente iniziativa di ampia riforma costituzionale approvata definitivamente in seconda lettura, ai sensi dell’art. 138 della Costituzione, nel novembre 2005 e bocciata ad ampia maggioranza dai cittadini chiamati ad esprimersi nel referendum costituzionale del 25 e 26 giugno 2006, con il 61,32% (pari a 15.791.293 di voti) di no ed un’affluenza alle urne del 52,30%.

Ebbene quella riforma bocciata dai cittadini conteneva gran parte delle proposte (di seguito le principali) di cui oggi si discute e contenute nella relazione della Commissione:
– riforma del Senato quale Camera rappresentativa degli interessi del territorio e delle comunità locali, con componenti eletti contestualmente ai rispettivi Consigli regionali e rappresentanti dei Consigli regionali e delle autonomie locali;
– riduzione del numero complessivo dei parlamentari (518 alla Camera dei Deputati, 252 al Senato);
– snellimento dell’iter di approvazione delle leggi: salvo alcune materie, riservate al procedimento collettivo delle due Camere, il modello prevalente è quello dei procedimenti monocamerali, rispettivamente di competenza della Camera e del Senato sulla base delle materie trattate.
– modifica delle modalità di elezione e delle funzioni del Presidente della Repubblica;
– rafforzamento del ruolo dell’Esecutivo, sia attraverso l’indicazione diretta del Primo ministro da parte del corpo elettorale, sia attraverso il ruolo che questi assume all’interno del Consiglio dei ministri, sia all’interno del procedimento legislativo.

Rigettando ad ampia maggioranza la riscrittura di parti importanti della Carta repubblicana, quel voto ha dimostrato che quest’ultima non solo ha messo radici nella società civile, ma ha anche fatto apprezzare ai cittadini la natura e la funzione della rigidità costituzionale. E ciò almeno sotto due profili: quello, formale, dell’unitarietà del documento, in virtù della quale una revisione pur formalmente limitata alla parte organizzativa vale anche come revisione dei diritti inviolabili; e quello, sostanziale, della necessaria stabilità del testo, che sola consente alle garanzie dei diritti medesimi di radicarsi nella prassi dell’intero ordinamento giuridico.

Eppure adesso si pretende di modificare sostanzialmente la Carta Costituzionale, senza un mandato costituente, malgrado la bocciatura di analoga iniziativa da parte dei cittadini, in una fase di grave crisi politica, da parte di un Parlamento eletto probabilmente – lo deciderà a breve la Consulta – con legge incostituzionale.

L’attivismo della Presidenza della Repubblica ed il ruolo centrale del Governo, in tale ipotetico processo di riforma sostanziale della Costituzione, pongono ulteriori seri interrogativi sul ruolo del Parlamento.

Ma è certo però che una revisione di largo respiro della Costituzione, sull’onda di “emergenze” puramente politiche, non sia adesso proponibile, se mai lo è stata.

La relazione – o meglio la bozza di relazione – non aiuta a superare le perplessità.

In merito alla relazione ci sia consentito un breve approfondimento sul paragrafo dedicato alle autonomie locali.

Si legge: “In relazione al travagliato tema delle Province, soprattutto a seguito della sentenza della Corte costituzionale che ha dichiarato l’illegittimità della riforma operata con decreto legge, si propone perciò di eliminare la parola “Provincia” dagli artt. 114 e segg. della Costituzione, abrogando conseguentemente il primo comma dell’art. 133. In questo senso, l’opinione prevalente della Commissione riflette sostanzialmente l’orientamento già emerso in ambito governativo che, nello stabilire la soppressione delle Province, demanda allo Stato (per i principi) e alle Regioni (per la loro attuazione) la disciplina dell’articolazione di enti di area vasta per la gestione e il coordinamento delle funzioni che insistono sul proprio territorio.

In materia di Città metropolitane, secondo alcuni sarebbe opportuno rimettere la relativa disciplina alla legge statale bicamerale che dovrebbe definirne territorio, ordinamento, sistema elettorale, funzioni fondamentali, disciplina dell’autonomia finanziaria.

Per i piccoli Comuni, la scelta recentemente operata a favore dell’esercizio obbligatoriamente associato (di tutte le funzioni per i Comuni fino a 1.000 abitanti, e delle funzioni fondamentali fino a 5.000, o 3.000 nelle zone montane) ha segnato un positivo avanzamento verso l’affermazione di un imprescindibile criterio di adeguatezza”.

Francamente deludente. Non vi è alcun approfondimento, ma un mero appiattimento – espressamente dichiarato – sull’orientamento del Governo.

La commissione ribadisce l’esigenza di un ente di area vasta, ma “in relazione al travagliato tema delle Province”, ne propone la cancellazione dalla Costituzione.

Cancellata la parola, risolto il problema. Semplicistico e non rispondente alle effettive esigenze di riordino delle autonomie locali.

Restano le Città metropolitane e le funzioni associate dei Comuni.

Però qui si tratta di delineare l’assetto costituzionale della Repubblica, la rappresentanza democratica, il livello ottimale di governo delle funzioni sul territorio.

Nulla di tutto questo, nessuna visione organica, solo una risposta alla prevalente richiesta demagogica fatta propria dal Governo ed espressa chiaramente nel d.d.l. Delrio.

Purtroppo ancora una volta persa un’occasione per un vero approfondimento della tematica fondamentale delle autonomie locali.

Dunque la proposta di revisione costituzionale, sostenuta dalla Commissione, e da realizzare attraverso l’iter speciale proposto dal Governo ed in fase di approvazione da parte del Parlamento desta gravi perplessità.

Il limite temporale posto alla riflessione parlamentare si traduce in un limite alla comprensione e alla discussione della riforma da parte dell’opinione pubblica. Né l’informazione e la partecipazione possono ritenersi soddisfatte con il sondaggio on-line promosso dal Governo, che anzi sembra avere lo scopo di orientare i cittadini verso soluzioni precostituite.

E non lo è fino in fondo il referendum, qualora richiesto e ammesso, per il quale si corre il rischio che si vada a votare su questioni complesse sulla base di alternative semplificate e insincere.

Non è una questione sulla quale si possa sorvolare, se si ricorda che per la Corte costituzionale, a far data dalla sentenza n. 155 del 2002, l’informazione e la consapevolezza dell’elettore rispetto alle alternative di voto che gli sono sottoposte forma oggetto di un diritto, ledendo il quale si pone in dubbio la genuinità del voto nel suo complesso.

La recente esperienza della riforma costituzionale che ha introdotto il pareggio di bilancio nella Costituzione, con la Legge Costituzionale 20 aprile 2012 n. 1, dovrebbe costituire un monito per tutti.

Una riforma di enorme portata, di cui non si apprezzano ancora gli effetti, in quanto le disposizioni della legge costituzionale si applicheranno a decorrere dall’esercizio finanziario relativo all’anno 2014, realizzata nel più assoluto silenzio, mentre in altri Paesi Europei su questi temi e sul connesso Fiscal Compact si sono sviluppati discussioni e confronti assai vasti.

Due commenti su tutti per rendere un’idea della portata di tale riforma.

Il costituzionalista dell’Università Bocconi, Lorenzo Cuocolo, in una intervista ha dichiarato: “Se, al di là dei tecnicismi, scriviamo in Costituzione che vogliamo il pareggio, una possibile interpretazione è di funzionalizzare la garanzia dei diritti a prestazione, quindi dei diritti conquista dello stato sociale, al pareggio di bilancio. Potrebbe passare il principio che se non ci sono soldi non si pagano le prestazioni sanitarie. E non so quanto sarebbe una conquista democratica”.

Il docente della Scuola Universitaria Professionale della Svizzera Italiana, Christian Marazzi, ha affermato: “Credo che sia un’operazione deleteria che espone un paese come l’Italia – e come gli altri che seguiranno – nell’impossibilità di avere la necessaria flessibilità per far fronte alle situazioni di crisi congiunturali o meno che richiedono degli interventi pubblici per poter salvaguardare determinati servizi. E’ una camicia molto stretta, una gabbia d’acciaio, che mette a repentaglio i servizi pubblici più primari, dalla scuola ai mezzi di trasporto alla sanità”.

L’iter avviato dal Governo Letta ed oggi in corso, con il sostegno e la sollecitazione del Presidente della Repubblica, è molto più ampio e complesso e riguarda tutti i principi fondamentali su cui si fonda oggi l’organizzazione e l’ordinamento repubblicano.

Credo sia un dovere per ogni cittadino informarsi e vigilare.

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