Coppia di fatto famiglia
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L’ AMMINISTRAZIONE DELLA COMUNIONE NEL DIRITTO DI FAMIGLIA

Sergio Benedetto Sabetta

Premessa

L’attuale pandemia nell’accelerare i cambiamenti in atto ha anche evidenziato i punti di forza e le debolezze del sistema Nazione.

Il tentativo di superare il blocco delle relazioni fisiche con l’uso massiccio dell’informatica ha comportato l’accrescere di questa anche nel settore commerciale, risultato ultimo è stato per il momento la chiusura di molti dei negozi di prossimità e la riduzione qualitativa dell’offerta di lavoro.

La reazione è l’organizzazione di molti negozi in rete al fine di offrire servizi e merci in prossimità, questo in contrasto con la grande rete, a parte i problemi di un mancato coordinamento centrale del sistema non solamente formale.

Questo si affianca ad una forte delocalizzazione delle attività produttive già in atto da alcuni decenni, tutte circostanze che hanno avuto un forte impatto anche sulle gestioni patrimoniali delle famiglie, le quali d’altra parte sono mutate nell’organizzazione interna e nelle proprie finalità, entrando in crisi secondo il modello tradizionale, sostituito dalle unioni di fatto, a questo si aggiunge la forte pressione fiscale che si è creata sui patrimoni immobiliari, beni di rifugio delle famiglie, con conseguente ulteriore impoverimento economico delle famiglie.

Dottrina

Il primo problema è costituito dalla delimitazione del concetto di amministrazione, al riguardo è preliminare l’osservazione che il coniuge conserva la propria autonomia di volontà e quindi la propria libertà di contrattare e obbligare sé oppure la comunione, solo entro certi limiti, anche se vive in regime di comunione legale.

Pacifica è la rientranza nell’attività amministrativa di tutti quegli atti che incidono su beni già esistenti nella massa comune, Schlesinger sembra, peraltro, ammettere implicitamente in questa categoria anche gli atti di acquisto, quando si chiede “se regola dell’amministrazione congiuntiva vada applicata pure al compimento di atti di acquisto che eccedano l’ordinaria amministrazione” (1).

Più espliciti sono Comporti e Navarra, i quali Autori includono gli acquisti tra gli atti di amministrazione, seppure circostanziandoli a quelli di straordinaria amministrazione” (2) (3).

Considerano senz’altro questi atti rientranti in amministrazione ai sensi del 2° comma dell’art. 180 Cian e Villani, secondo i quali non può valere il criterio fissato per l’impresa dall’art. 2208 cc., non essendo possibile l’individuazione degli atti amministrativi in base alla loro natura ed oggetto.

Da queste premesse gli autori traggono la conclusione che l’atto di amministrazione della comunione può essere individuato solo in quell’atto “posto in essere in nome e per conto della comunione: con la precisazione, [….], che il medesimo viene compiuto per i due coniugi in quanto viventi in comunione” (4), diversamente saranno i coniugi singolarmente ad essere parte del rapporto.

La spendita del nome potrà avvenire singolarmente, nei limiti dei poteri conferiti dagli artt. 180-183, oppure congiuntamente dai due coniugi, quello che conta è che vi sia riferimento alla comunione che potrà essere implicito oppure esplicito, in altre parole non necessiterà l’impiego di formule solenni ma l’indicazione che si agisce per la comunione potrà risultare dallo stesso contesto della negoziazione.

Tuttavia la necessità della spendita del nome della comunione non è del tutto pacifica, infatti Schlesinger (5) osserva che “vi sia stato o meno tale spendita, entrambi i coniugi congiuntamente risponderanno con l’intero loro patrimonio.

Analogamente i Finocchiaro (6) negano tale necessità per determinare obbligazioni contratte nell’interesse della famiglia e precisamente: a) per il mantenimento della famiglia; b) per l’istruzione e l’educazione dei figli; c) nell’interesse della famiglia in generale.

Sono gli stessi Cian e Villani che al fine si preoccupano di circostanziare i limiti della loro tesi precisando che la mancata spendita del nome della comunione non implica che in capo ad essa non sorga alcuna obbligazione, questa avrà una propria responsabilità qualora l’obbligo sia tale da rientrare nelle categorie previste dall’art. 186 (7).

Dopo questa breve digressione, dovuta all’esposizione della teoria degli Autori citati, ritorniamo al problema originario della delimitazione della categoria degli atti amministrativi.

L’acquisizione a questa categoria degli atti di acquisto dei beni immobili o mobili registrati è contestata dai Finocchiaro (8) che pervengono ad affermare l’estraneità dell’art. 180, che disciplina l’amministrazione dei beni della comunione, da tali atti rientrando questi in una fase anteriore, disciplinata dagli artt. 177 e 178, in cui i beni fanno ingresso nella comunione.

Sebbene gli autori dai beni immobili o mobili registrati, la conclusione a cui giungono si attaglia perfettamente anche ai beni mobili in generale.

In una analoga posizione è Atlante (9) che definisce l’atto di acquisto come un possibile atto di straordinaria amministrazione, ma solo relativamente al denaro che si impiega nell’acquisto e non con riferimento al bene acquistato.

Più espliciti sono De Paola e Macrì (10) i quali escludono categoricamente dall’ambito dell’amministrazione gli atti qui considerati.

Questa categoria è riconosciuta anche da Corsi ma con alcune sfumature e precisazioni.

La prima è data dalla negazione di un tale problema con riferimento agli “acquisti che rientrano tra i carichi dell’amministrazione o tra le spese per il mantenimento della famiglia (articolo 186, lett. b e c)”, al contrario degli “acquisti che sono suscettibili di rappresentare un duraturo incremento di ricchezza” (Corsi – 11).

La seconda è costituita dall’eccezione dell’ipotesi in cui il denaro utilizzato per l’acquisto sia comune, “In questa ipotesi, se l’acquisto integri gli estremi dell’atto eccedente l’ordinaria amministrazione, il consenso dell’altro coniuge sarebbe necessario” (Corsi – 12).

Norma fondamentale in materia amministrativa è l’art. 180 nel quale si stabilisce l’amministrazione disgiunta dei coniugi per gli atti ordinari e la relativa rappresentanza in giudizio, mentre per gli atti straordinari, nonché per i contratti riguardanti i diritti personali di godimento, oltre naturalmente la relativa rappresentanza in giudizio, l’amministrazione spetta congiuntamente ad entrambi i coniugi.

E’ stato sostenuto da più parti che il secondo comma della norma in questione costituisce la regola generale, mentre il primo comma, che prevede l’amministrazione disgiuntiva, è una deroga al principio generale, con la conseguenza che, estendendo analogamente tale principio all’art. 177, lett. a, l’acquisto compiuto “separatamente”, come indicato nella norma, sarebbe “solo l’acquisto di bene mobile che rientri nell’ambito dell’ordinaria amministrazione” (Acquaderni, Bignossi, Bonoli, Candito, Ferioli, Iosa, Montanari, Nicoletti – 13).

Coordina l’art. 180 con l’art. 186, lett. c , Falzea, limitando il potere di amministrazione disgiuntiva agli atti riguardanti il mantenimento della famiglia, l’istruzione e l’educazione dei figli, nonché l’adempimento di ogni obbligazione contratta dai coniugi nell’interesse della famiglia.

Inoltre la soddisfazione delle obbligazioni familiari potrà avvenire mediante l’utilizzo dei beni comuni e dei frutti derivanti da essi senza che questo comporti alcun atto straordinario. “Queste regole discendono dal regime di contribuzione nel suo specifico atteggiamento in presenza della comunione” (Falzea – 14).

In contrasto con tale posizione sembra porsi l’art. 181, che offre al coniuge la possibilità di superare il rifiuto di consenso dell’altro coniuge mediante l’autorizzazione del giudice. Ritiene l’autore di superare l’ostacolo applicando anche a questa norma i concetti di interesse della famiglia e dovere di contribuzione, ma con riferimento alla loro proiezione futura nella vita familiare.

In realtà la difficoltà non è tanto nell’art. 181 quanto nel tenore letterale dello stesso art. 180, da cui si deduce chiaramente che è regola ordinaria l’amministrazione disgiuntiva.

Lo stesso Schlesinger afferma a chiare lettere che “il potere di disposizione accordato ai coniugi non è stato in alcun modo condizionato alla ricorrenza di interessi della famiglia” (15), come pretende Falzea, e a controprova di questo richiama l’art. 186, lett. d in cui i coniugi, purché d’accordo tra loro, possono assumere liberamente, anche per motivi puramente egoistici o capricciosi, qualunque tipo di obbligazione a carico della comunione.

Comunque il motivo più diffusamente addotto a sostegno della riduzione dell’amministrazione disgiuntiva a regola speciale è che tale interpretazione è un espediente tendente ad evitare lo scardinamento dell’attuale sistema di pubblicità immobiliare, dovuto ai pressoché impossibili accertamenti.

Questo se si considera la conseguente estensione per analogia di tale principio agli acquisti previsti nell’art. 177, lett. a .

Replica Busnelli (16) che l’aumento del numero degli accertamenti da eseguirsi da parte dei terzi acquirenti non vuol dire che tali accertamenti siano impossibili, in quanto l’unico punto certo è che l’acquirente, oltre al normale controllo sulla iscrizione e trascrizione dell’atto a carico dell’alienante, dovrà accertare quale era lo stato civile dell’alienante quando il bene fu da lui acquistato. Deve quindi concludersi che l’art. 180, comma 1°, ha valore di regola generale, mentre il 2° comma è una pura deroga.

La norma non chiarisce se al singolo coniuge sia concesso o meno la facoltà di disposizione sulla quota di sua spettanza.

Schlesinger motiva la risposta negativa con la necessità di coinvolgere anche l’altro coniuge “nell’assunzione dei rispettivi obblighi in modo da estendere la garanzia del creditore anche ai beni comuni (art. 186, lett. d)” (17).

Ad una analoga conclusione perviene Busnelli estendendo alla comunione legale le regole di “indisponibilità, non ipotecabilità ed inespropriabilità” proprie delle quote delle società di persone, che costituiscono “il riflesso del principio di tendenziale autonomia del patrimonio sociale nonché del vincolo di destinazione che ad esso inerisce” (18).

Oltre a questi motivi non bisogna dimenticare che in regime di comunione legale il patrimonio della famiglia è un patrimonio comune e come tale dovrà essere amministrato.

Non sussistendo vincolo alcuno a carico dei coniugi nell’interesse della famiglia Schlesinger li ritiene “pienamente liberi di comportarsi come normali compratori, salvo il rischio di violare i doveri verso la prole”.

Di diverso avviso è Busnelli per cui, in analogia con l’art. 2256, l’uso dei beni comuni non può avvenire per motivi estranei a quelli familiari se non vi è consenso dell’altro coniuge.

Giusta l’impostazione deve tuttavia tenersi conto che tale applicazione può avvenire con buoni risultati solo su beni mobili registrati o immobili, mentre per quanto riguarda i beni mobili in generale, tranne qualcuno di particolare valore, è impossibile ottenere risultati soddisfacenti.

I criteri in base ai quali deve essere valutata l’amministrazione ordinaria e quindi disgiuntiva di ciascuno dei coniugi sono tanto da Busnelli che da Alpa, Bessone, D’Angelo, Ferrando individuati nella regola stabilita dall’art. 2260, comma 1°, che rinvia alle norme sui mandati.

Consegue che il coniuge dovrà agire con la “diligenza del buon padre di famiglia”; dovrà rendere conto al partner del suo operato, “anche se con modalità sufficientemente elastiche al fine di non trasformare i coniugi in contabili” (Busnelli – 19); non potrà sostituire altri a sé nell’amministrazione.

Rifacendosi alla normativa in materia societaria, in analogia all’art. 2257 può porsi il problema della possibilità di un diritto reciproco di veto, ma questa possibilità appare del tutto inattuabile se si tiene presente la giusta osservazione di Corsi per cui il diritto di veto presuppone una apposita procedura, presente nell’art. 2257 ma di cui non vi è traccia nell’art. 180.

Distinzione tra amministrazione ordinaria e straordinaria

Veniamo alla questione centrale della norma, ossia la distinzione operata dal legislatore tra atti di amministrazione ordinaria ed atti di amministrazione straordinaria.

La categoria degli atti di amministrazione straordinaria ha una notevole importanza imponendo il sistema dell’amministrazione congiuntiva, che permette “al coniuge più debole, generalmente la donna, la possibilità di una effettiva partecipazione alle maggiori decisioni gestionali” (Schlesinger – 20).

Questo è particolarmente rilevabile nel principio di inderogabilità mediante convenzione delle regole amministrative dei beni comuni (art. 210, 3° comma), resta la difficoltà di una chiara distinzione tra atti di ordinaria e straordinaria amministrazione.

Criteri di distinzione

I criteri adoperati sono dei più vari e vanno dal parametro del valore economico dell’atto in rapporto alla situazione economica della famiglia (Frazzini), “alle norme proprie della comunione ordinaria, pur se con gli adattamenti e le deroghe, espressamente previste dal legislatore della riforma” (21) (Finocchiaro), ai principi valevoli per l’amministrazione del patrimonio dei minori (Cian e Villani).

Addirittura vi è chi, come Schlesinger, non si pronuncia con precisione, limitandosi a propendere nel dubbio “per l’amministrazione congiuntiva, come quella che maggiormente tutela il diritto di partecipazione” (22) dei coniugi.

Tuttavia, considerata l’importanza dell’argomento, occorre un criterio distintivo al fine di orientarsi e senz’altro uno dei più chiari e coerenti è quello proposto da Busnelli e ripreso da Bessone, Alpa, D’Angelo, Ferrando e Ricca.

Partendo dal fatto che nelle società la distinzione fra atti di straordinaria e ordinaria amministrazione si realizza “in rapporto alla ‘normalità’ degli eventi che costituiscono l’oggetto della società volta a volta considerata” (Busnelli) (23), l’Autore perviene a riferire l’ordinarietà o la straordinarietà dell’atto di amministrazione “alla situazione familiare nel suo complesso” (24) e non al singolo bene.

Lo stesso dicasi di Corsi per il quale la valutazione “non può essere compiuta in rapporto ai singoli beni, ma in rapporto al complesso” (25), confermando quindi, sebbene credendo indirettamente l’Autore di corrispondere alla piuttosto vaga tesi di Schlesinger, la bontà della tesi da ultimo esposta.

Per quanto riguarda la donazione di un bene della comunione, non vi è dubbio che questa costituisce atto di straordinaria amministrazione se realizzata a favore di terzi.

Poiché i diritti di obbligazione esulano dai beni che possono essere oggetto di comunione tra i coniugi, deve escludersi che appartengano al novero degli atti eccedenti l’ordinaria amministrazione i contratti bancari. Se essi possono essere stipulati ed amministrati disgiuntamente da ciascun coniuge, non può negarsi all’altro coniuge il diritto alla informazione sulla situazione patrimoniale del partner, sebbene i Finocchiaro abbiano un’opinione del tutto contraria.

Del tutto irrilevante, poi, per i terzi (l’istituto di credito) se le somme impiegate nelle operazioni bancarie siano effettivamente personali o piuttosto distorte dalla comunione, infatti, essendo questi beni mobili non registrati, in base al disposto degli artt. 180, 1153, 1147 C.C. l’istituto risponderà solo se sia provata la sua colpa grave, fatto che sembra piuttosto difficile anzi impossibile, rimanendo quindi gravato del generico obbligo risarcitorio il solo coniuge.

IL 2°comma dell’art. 180 contiene, tra l’altro, un riferimento alla “stipula di contratti con i quali si concedono o si acquistano diritti personali di godimento”.

Lo strano inciso deriva dall’allargamento ad opera della Commissione Giustizia del Senato del precedente principio che stabilisce il necessario comune accordo nella scelta della residenza familiare, infatti la Commissione non chiarisce il perché di una tale disposizione, ma si può pensare alla “ volontà legislativa di dare massima ampiezza alla partecipazione dei coniugi alla gestione dei beni comuni e ad ogni decisione che li riguarda” (Schlesinger – 26).

Non può ritenersi che la norma in questione abbia privato il singolo coniuge della capacità di stipulare autonomi contratti di locazione, anche con riguardo a “beni di uso strettamente personale” (art. 179. Lett. c) o a “beni che servono all’esercizio della sua professione” (art. 179, lett. d). Deve quindi intendersi la disposizione con riferimento esclusivo “ai contratti con i quali si acquistano diritti di godimento per la comunione” (Schlesinger – 27), contro i Finocchiaro che fanno riferimento ai beni utilizzati per l’acquisto del diritto.

Rapporti patrimoniali tra coniugi di nazionalità differenti

L’analisi dell’art. 180 non può dirsi completa se non si considera quali regole amministrative debbano applicarsi ai rapporti patrimoniali tra coniugi di nazionalità diversa.

Norma fondamentale in materia è l’art. 19 delle disposizioni preliminari al Codice Civile nel quale si determina che “i rapporti patrimoniali tra coniugi sono regolati dalla legge nazionale del marito al tempo della celebrazione del matrimonio” (comma 1°).

E’ stato sollevato il problema se in realtà non sia l’art. 22 disp. prel. C.C., riguardanti le leggi regolatrici del possesso, della proprietà e degli altri diritti sulle cose a disciplinare l’amministrazione dei beni oggetto di comunione tra coniugi.

Sull’argomento si è pronunciato il Tribunale di Roma con sentenza del 24 marzo 1980. Il quesito è risolto dal Tribunale mediante un parallelo con l’art. 18 disp. prel. C.C., come questi “a carattere di specialità rispetto all’art. 22 disp. prel. C.C.” riguardo ai rapporti personali tra i coniugi, così l’art. 19 disp. prel. C.C. acquista carattere di specialità per quanto concerne i rapporti patrimoniali.

Avendo le leggi speciali prevalenza sulle leggi generali ne consegue che la norma applicabile nei rapporti patrimoniali tra coniugi sarà l’art. 19 delle disposizioni preliminari al codice civile.

Tuttavia, prosegue la motivazione della sentenza, se il marito è straniero avrà l’onere non solo di invocare ma anche di dimostrare con ogni mezzo idoneo il contenuto della legge stessa, non essendo obbligo del giudice, né tanto meno del coniuge, conoscere le disposizioni degli ordinamenti stranieri.

Quanto contenuto nel 1° comma dell’art. 19 disp. prel. C.C. non è altro che la conferma di quanto in precedenza disposto dal 1° comma dell’art. 2 della Convenzione de L’Aia, 17 luglio 1905.

Queste disposizioni sono giustificate dalla necessità di assicurare unicità alla disciplina da applicarsi ai rapporti patrimoniali tra coniugi, quale garanzia atta ad evitare circostanze di disaccordo in un settore tanto delicato già di per sé focolaio di contrasti.

Anzi il comma 2° dell’art. 19 disp. prel. C.C., con l’espressione “salve le convenzioni tra i coniugi in base alla nuova legge nazionale comune”, prevede la necessità di una esplicita e concorde manifestazione di volontà dei coniugi, da esprimersi mediante un’apposita convenzione, per la modifica del regime patrimoniale.

La Corte di Cassazione è intervenuta sull’argomento con una propria pronuncia in data 8 gennaio 1981, n. 131.

Questa, considerando quanto innanzi esposto ed il contenuto del 2° comma dell’art. 19 disp. pre. C.C., dichiara che il cambiamento di cittadinanza non è sufficiente per il mutamento del regime patrimoniale, non potendosi quest’ultimo realizzare mediante una manifestazione di volontà implicita, come si può anche dedurre, oltre che dalla legge italiana, dall’art. 9 della predetta Convenzione de L’Aia.

Rifiuto del consenso

L’art. 181 prevede la possibilità che uno dei coniugi rifiuti il consenso per la stipulazione di un atto di straordinaria amministrazione o per altri atti in cui è richiesto il suo consenso, concedendo all’altro coniuge di rivolgersi al giudice per ottenere l’autorizzazione, nel caso in cui la stipulazione dell’atto è necessaria alla famiglia o all’azienda facente parte della comunione.

“La norma rappresenta una significativa innovazione rispetto a quelle generali in tema di comunicazione” (Bessone, Alpa, D’Angelo, Ferrando) (28), in conformità con le altre disposizioni che prevedono l’intervento del giudice nel contrasto tra coniugi.

Sia Schlesinger che Cian e Villani sottolineano l’importanza del termine “necessario”, usato nella norma, al fine di delimitare l’intervento del giudice nell’ambito familiare quale sostituto del coniuge.

La stretta interpretazione del termine in questione fa sì che non lo si debba confondere con la semplice “utilità” dell’atto, come osservato dagli stessi Autori, anche se su una tale distinzione hanno sollevato dubbi i Finocchiaro, ma la loro posizione non appare accettabile se si tiene presente quanto detto da Schlesinger: “l’art. 181 non costituisce lo strumento per assicurare la migliore amministrazione della comunione, che spetta ai coniugi e non al giudice, bensì rappresenta soltanto il mezzo per rendere innocua una eventuale opposizione capricciosa o immotivata contro una scelta ‘necessaria’ per l’interesse della famiglia” (29).

Si può aggiungere che il giudice deve intervenire per evitare i guai che deriverebbero dal rifiuto del consenso da parte del coniuge, il suo intervento non deve essere fonte di litigiosità tra coniugi, permettendo loro un ricorso continuo per motivi non rilevanti.

Il rifiuto illegittimo di un coniuge a dare il proprio consenso ad un atto necessario nell’interesse della famiglia costituisce un’ipotesi di cattiva amministrazione della comunione, prevista dalla legge quale causa di separazione dei beni (art. 193), comunque è da escludersi qualsiasi risarcimento del danno .

Secondo Schlesinger “al giudice non sono affidati poteri arbitrali di fronte a contrastanti valutazioni degli sposi, […] Qualora […] ritenga pregiudizievole il mancato accordo dei coniugi, ma risulti che entrambe le soluzioni proposte risolvono, sia pure in modo diverso, il problema, il giudice non può operare una scelta discrezionale tra le contrastanti proposte affacciate dagli interessati, né può nominare un amministratore giudiziario con il compito di compiere quella scelta” (30).

Impossibilità del consenso per lontananza o altro impedimento

Altro caso in cui vi è l’intervento del giudice è quello del successivo art. 182 che prevede l’ipotesi della richiesta da parte del coniuge, in mancanza di procura risultante da atto pubblico o da scrittura privata autenticata, dell’autorizzazione, a seguito della lontananza o altro impedimento di uno dei coniugi, a compiere atti di amministrazione straordinaria per i quali è necessario il consenso di entrambi i coniugi.

Il vero problema della norma in esame è l’ammissibilità e l’estensione dell’eventuale procura distinguendo tra procure rilasciate a terzi e procure rilasciate al coniuge.

Prendiamo in esame il primo caso e notiamo immediatamente il possibile confronto con l’art. 183, ultimo comma, in forza del quale il coniuge non può essere sostituito dal tutore nell’amministrazione della comunione.

Schlesinger si pone la domanda se la norma qui richiamata non riguardi esclusivamente la rappresentanza legale essendo, invece, pienamente consentita la rappresentanza volontaria.

La risposta alla domanda, è nella ratio dell’art. 183 che l’Autore individua in due possibili soluzioni: la prima è data dall’inammissibile imposizione al coniuge di una continua cogestione con un estraneo, che è poi il tutore; la seconda nel “carattere strettamente personale dell’amministrazione della comunione, in quanto gestione che obbedisce anche a valutazioni dell’interesse familiare nelle quali un terzo non può sostituirsi al coniuge” (Schlesinger – 31).

Nel primo caso si dovrebbe concludere per il legittimo conferimento di procedure speciali a terzi, mentre nel secondo caso vi dovrebbe essere il divieto di una qualsiasi procura a terzi, ma giustamente osserva Schlesinger che un divieto assoluto di conferimento di procure a terzi è eccessivo, anche tenendo presente le esigenze pratiche di tutti i giorni, oltretutto le due ratio non sembrano doversi escludere tassativamente a vicenda ma possono benissimo integrarsi essendo due facce di una stessa esigenza di tutela del nucleo familiare.

Da quanto detto può dedursi l’ammissibilità di procure speciali a terzi, limitate a determinati atti o tipi di atti, e contemporaneamente l’inammissibilità delle procure generali conferite dal coniuge a terzi per l’amministrazione della comunione.

Oltre a Schlesinger concordano pienamente per una tale soluzione Busnelli, De Paola e Macrì (32), questo non toglie che alcuni Autori, facendo forza sugli eventuali intralci alla libera circolazione dei beni che comporterebbe la negazione della possibilità di conferimenti di procure generali a terzi, abbiano ammesso tale possibilità, in tal senso sia Marsano che Corsi (32).

Procura al coniuge

Dobbiamo ora considerare l’ipotesi del conferimento di procura al coniuge. La dottrina è concorde nell’ammettere la possibilità di conferimenti di procura speciale a favore di un coniuge, viceversa le opinioni sono le più discordanti su una eventuale procura generale.

Decisamente contrari al conferimento di una procura generale sono Schlesinger e Busnelli, sebbene con diverse motivazioni. Il primo trae conclusioni decisive dal confronto tra i due commi dell’art. 182 e dall’esame dell’art. 210, comma 3°; il secondo trae spunto dalle osservazioni sulla amministrazione in tema di società di persone.

Considerando il secondo comma dell’art. 182 come una ampia eccezione a favore dell’azienda, Schlesinger considera dimostrato il carattere di eccezionalità che devono avere le altre procure a favore del coniuge, essendo una tale “previsione inutile se fossero ammissibili procure generali” (Schlesinger – 34); per il terzo comma dell’art. 210 osserva l’Autore che il carattere di inderogabilità delle norme sull’amministrazione dei beni della comunione che se ne ricava, “potrebbe essere facilmente eluso se ciascuno dei coniugi potesse conferire liberamente all’altro un potere generale di rappresentarlo nell’amministrazione della comunione” (Schlesinger – 35).

Dubbi crea, al contrario, la dimostrazione del Busnelli, il quale applica al regime della comunione legale i principi ricavati dall’amministrazione della società di persone.

Il principio che qui si applica è quello secondo cui l’amministratore non può unilateralmente sostituire altri a sé, dal che consegue che l’Autore considera il conferimento della procura un atto di carattere eccezionale e limitato al “caso di lontananza o di altro impedimento di uno dei coniugi” (art. 182, comma 1°) (36).

Ma il riferirsi in forma così rigida alle società di persone traendone conclusioni che di peso vengono applicate alla comunione legale, senza tenere nel dovuto conto le sue esigenze particolari e i principi che la regolano è un’operazione non accettabile per le difficoltà che determina.

Favorevole ad una procura generale in favore del coniuge è Atlante che provvede a smontare le argomentazioni contrarie di Schlesinger, tuttavia questi tentativi non paiono convincenti.

La prima osservazione secondo cui l’art. 210 vieta convenzioni in deroga alle regole amministrative ma non la semplice procura che non ha carattere permanente, essendo del tutto temporanea e revocabile la limitazione della capacità amministrativa del coniuge, è facilmente obiettabile con le stesse parole di Schlesinger:

l’obiezione, formalmente esatta, trascurerebbe la preoccupazione sostanziale del legislatore di favorire in concreto la partecipazione di entrambi i coniugi alla gestione della comunione (37) (38), permettendo l’aggiramento della normativa a danno del coniuge economicamente più debole.

Per quanto riguarda il secondo motivo addotto da Schlesinger a sostegno della propria tesi, Atlante non appare in grado di fornire una soddisfacente controprova, girando piuttosto attorno all’argomento e mostrando chiaramente i limiti del proprio tentativo.

Venendo alle prove fornite dall’Autore, il fatto che il mandante possa controllare il mandatario e che la procura generale “non comporta certo dismissione del potere di amministrare” Atlante (39) non fa venir meno l’esigenza di una effettiva amministrazione da parte dei due coniugi, a meno che forza maggiore non venga loro a impedirlo.

Sulla seconda motivazione, consistente nella possibilità di applicare le sanzioni previste dall’art. 184 ai casi di violazione da parte del coniuge della regola di congiuntiva amministrazione, deve riconoscersi che effettivamente può trarsi dalla norma i principi inderogabili “del diritto di controllo da parte di ciascun coniuge sugli atti di amministrazione e del divieto di escludere un coniuge dall’amministrazione” (Atlante – 40), ma proprio il potere di conferire una procura illimitata e in qualsiasi caso viene in contrasto con i principi evidenziati dallo stesso Autore.

Più corretta è la critica avanzata da Corsi sull’utilizzo dell’art. 210 comma 3°, a sostegno della tesi sull’inammissibilità di una procura generale a favore del coniuge.

L’Autore effettua una serie di osservazioni: in prima è che la tutela del coniuge economicamente più debole non deve spingersi fino all’eccesso di considerarlo debole di volontà, di intelligenza o di cultura; la seconda è che l’art. 182 “ammette” la possibilità del rilascio di procure.

E queste ultime costituiscono certamente un minus rispetto all’attribuzione in via esclusiva all’altro coniuge del potere di amministrare, al cui divieto evidentemente tende il ricordato art. 210 (Corsi – 41).

Infine, la terza ed ultima osservazione, nota che “l’art. 210 rinvia alla normativa sull’amministrazione e pertanto sembra difficile che possa essere preso a base per l’interpretazione di quest’ultima” (Corsi – 42).

Anche quest’autore non risolve comunque il problema di una adeguata risposta alla prova fornita da Schlesinger con la messa a confronto del 1° e 2° comma dell’art. 182.

Tenendo presente la riconosciuta necessità di una certa tutela del coniuge economicamente più debole, Corsi, pur ammettendo la possibilità di procure generali da un coniuge all’altro, esclude da queste quelle irrevocabili nelle quali si potrebbe ravvisare il tentativo di aggirare il divieto di cui all’art. 210.

Rimangono, nonostante tutto, le osservazioni avanzate precedentemente nei riguardi di Atlante, non essendo sufficiente la limitazione introdotta da Corsi alla categoria delle procure generali.

Supererebbe tutte queste difficoltà l’ammissione di una procura generale limitata ai casi di “lontananza o impedimento”, considerando che “non sempre ‘infatti’ saranno a priori conoscibili gli elementi necessari per il rilascio di procure speciali destinate ad operare durante la lontananza o l’impedimento” (Cian e Villani – 43).

Questo giustificherebbe fra l’altro la particolare forma della procura che prevede l’art. 182, comma 1°, rispetto al diritto comune le cui regole sarebbero applicabili ai normali casi di procura speciale.

Né si possono accettare le osservazioni di Schlesinger al riguardo per il quale il riferimento a questi due casi ha un valore puramente di esempio e, oltretutto, vi sarebbe la difficoltà del loro accertamento, in quanto l’Autore li riferisce esclusivamente alle procure speciali non ammettendo quelle generali.

Lo stesso vale per Corsi che, oltre alla già riferita difficoltà di accertamento, sostiene non avere la norma “per oggetto la disciplina del rilascio di procure tra coniugi, ma piuttosto la disciplina di quelle situazioni in cui uno dei coniugi sia lontano o impedito e manchi una procura da lui rilasciata all’altro” (45), ma sono proprio questi motivi che giustificheranno il rilascio di una procura generale, con tutte le garanzie indicate dal giudice, in palese eccezione ai principi amministrativi della comunione legale.

Anche questa norma, come per il precedente art. 181, condizione per l’autorizzazione giudiziale è la “necessità” dell’atto e non la sua semplice utilità.

La competenza funzionale per l’autorizzazione spetta al Tribunale in Camera di consiglio, e questo non solo per l’art. 182 ma anche per il precedente art. 181 ed il successivo art. 183; mentre per quanto riguarda il territorio i Finocchiaro ritengono applicabile, alle ipotesi di cui agli artt. 181 e 182, l’art. 23 c.p.c., che trova applicazione ogni volta ci si trovi innanzi ad una comunione, diversamente dall’art. 183 in cui la competenza territoriale è del Tribunale del luogo di residenza ella famiglia o, se questa manchi, del luogo ove è la residenza dell’altro coniuge (45).

Diversamente Attardi, per cui non dovrebbe esservi alcuna distinzione tra gli artt. 181-182 e l’art. 183, in quanto territorialmente la competenza spetta comunque al Tribunale ove ha luogo la residenza della famiglia (46).

Un’ultima considerazione sulle “cautele” che la norma in questione permette al giudice di stabilire.

Quale tipo di cautele possano essere non è ben chiaro, considerando che l’atto viene compiuto in nome della comunione e, perciò, gli eventuali utili o frutti che siano cadranno immediatamente in comunione, ma ad ogni modo Schlesinger ritiene poter essere l’accantonamento di somme di denaro o un vincolo per il loro reimpiego (47).

Esclusione dall’amministrazione di uno dei coniugi

Come enuncia l’intestazione dello stesso art. 183, questi tratta dell’ esclusione dall’amministrazione di un coniuge che potrà avvenire per iniziativa giudiziale dell’ altro coniuge ( comma 1°) oppure di diritto ( comma3°).

L’esclusione giudiziale di uno dei coniugi può essere richiesta dall’altro coniuge per minore età, per impossibilità di amministrare e infine per cattiva amministrazione.

La prima ipotesi fa cenno esclusivamente all’età del coniuge senza prendere in considerazione la disciplina dell’ inabilitato, quando il genere il codice applica a questi la stessa disciplina prevista per il minore emancipato, che in questo caso lo sarà di diritto con il matrimonio ( art. 424).

Certamente non può confondersi il caso dell’interdetto con l’inabilitato così che non potrà esservi per questi l’esclusione di diritto dalla comunione, essendo il caso dell’interdetto l’unico per cui è previsto dal 3° comma l’esclusione di diritto.

Consegue che l’inabilitato dovrà avere trattamento uguale a quello previsto per il minore emancipato.

Nella seconda ipotesi occorre coordinare quanto dispone l’art. 182 con quello contenuto nell’art. 183, l’impedimento contenuto in quest’ultima norma dovrà avere “carattere permanente o comunque di lunga durata” (Schlesinger) (48).

E’ da tenersi presente che “la domanda di esclusione non si pone in alternativa con quella di separazione giudiziale dei beni (art. 193)” (Schlesinger – 49).

Ultima ipotesi è la cattiva amministrazione della comunione famigliare, bisogna specificare il significato che si intende dare all’espressione cattiva amministrazione.

Una chiara delimitazione è quella che si ottiene dal confronto con le regole del mandato, tesi patrocinata da Busnelli (50).

Secondo l’art. 1710 comma 1°, il mandatario è tenuto ad agire con la diligenza del buon padre di famiglia, diligenza che non è eccessivo richieder anche al coniuge nell’amministrazione della comunione legale. A differenza della precedente ipotesi in questa la domanda di esclusione dall’amministrazione è alternativa alla separazione giudiziale dei beni.

Sin pone il problema dell’ampiezza dei poteri dell’unico coniuge amministratore, tenendo presente che il problema riguarda unicamente gli atti di amministrazione straordinaria.

Sebbene alcuni autori, come Fornaro e Plantade (51), abbiano negato tale possibilità, più convincente è la tesi contraria sostenuta da Schlesinger con la constatazione “che l’art. 182 ammette la possibilità di ottenere l’autorizzazione giudiziale solo per gli atti necessari, laddove l’amministrazione di un patrimonio impone che si provveda pure al compimento degli atti semplicemente utili od opportuni” (52).

Il secondo comma dell’art. 183 prevede la cessazione dell’esclusione giudiziale, al venir meno delle cause che le avevano determinate, con un provvedimento di reintegrazione nell’amministrazione su richiesta del singolo coniuge interessato.

Non è tuttavia chiaro se un simile provvedimento sia necessario anche nei confronti di un minore precedentemente escluso, oppure sia sufficiente il semplice raggiungimento della maggiore età.

Interdizione

Si era già accennato al terzo comma, in cui è previsto l’unico caso di esclusione di diritto dall’amministrazione della comunione, ossia l’ipotesi di interdizione. In questo caso la reintegrazione nell’amministrazione avverrà di diritto, senza necessità di alcuna richiesta, al venire meno della causa che ha determinato l’esclusione.

Può accadere che il coniuge escluso o il suo curatore rilevino abusi da parte dell’unico coniuge amministratore, potrà chiedersi in tal caso la separazione giudiziale dei beni ai sensi dell’art. 193.

Infine non è da ignorare l’ipotesi in cui entrambi i coniugi siano interdetti oppure inabilitati. In questo caso propongono Cian e Villani la separazione giudiziale dei beni ai sensi dell’art. 193, in quanto “la ratio in generale della norma in commento è appunto la volontà di escludere la presenza di estranei nell’amministrazione della comunione” (Cian e Villani – 53).

 

Atti compiuti senza il necessario consenso

Il gruppo delle norme amministrative termina con l’art. 184 che disciplina le conseguenze per gli atti compiuti senza il necessario consenso.

La disposizione non è delle più chiare tanto è vero che ha dato luogo a notevoli controversie interpretative, comunque può grossolanamente distinguersi in due parti, una riguardante i beni immobili o mobili registrati, l’altra i beni mobili non registrati.

Consideriamo i primi due commi, essi recitano l’annullabilità degli atti compiuti da un coniuge senza il consenso dell’altro e da questo non convalidati.

L’azione dovrà essere proposta entro un anno dalla data di trascrizione, oppure dal momento in cui ha avuto conoscenza dell’atto o se non si realizzano i due precedenti casi dal momento dello scioglimento della comunione.

Nel terzo ed ultimo comma si grava il coniuge che ha compiuto l’atto senza il consenso necessario dell’onere di ricostituire la comunione nello stato originario o, se ciò non è possibile, di versare alla comunione l’equivalente del bene mobile distorto dalla stessa.

Schlesinger si è lamentato del carattere estremamente limitato della norma, in quanto rimarrebbero estranee ad essa notevoli ipotesi quali la riscossione di un capitale, la concessione di una dilazione, l’accollo, la remissione di un debito ecc., per non parlare dei casi nei quali “il difetto della partecipazione di un coniuge rende certamente inefficace l’iniziativa di chi ha agito, senza riguardo all’oggetto dell’atto” (Schlesinger – 54), così l’azione giudiziaria, il compromesso, l’accordo di risoluzione consensuale di un contratto stipulato dal coniuge.

In tutti questi casi gli atti saranno per la comunione completamente inefficaci, limitandosi l’applicabilità dell’art. 184 “solamente agli atti dispositivi di cose della comunione (immobili o mobili)” (Schlesinger 55).

Concordi con Schlesinger sulla esclusione dalla previsione della norma degli atti che non determinano una disposizione di beni comuni sono i Finocchiaro (56), i quali tuttavia non concordano sull’inefficacia per la comunione di tutti quegli atti eccedenti la norma per cui non vi sia stato il consenso del coniuge.

Non possono ritenersi inefficaci nei confronti della comunione atti quali transazioni per il risarcimento di danni conseguenti alla perdita di capacità lavorativa, oppure contratti di mutuo o addirittura atti dispositivi di “crediti comuni”. In tutti questi casi si applicherà non già l’articolo in esame ma “le regole generali in tema di obbligazioni con una pluralità di creditori” (Finocchiaro – 57).

Per una sistemazione globale della materia

Una sistemazione globale della materia attraverso una visione d’insieme ha tentato Corsi. I risultati sono interessati per la chiara distinzione che viene a realizzarsi, tale da coprire qualsiasi atto che incida sulla comunione.

L’autore parte dalla semplice osservazione che i primi due commi disciplinano gli atti sotto il profilo del rapporto con i terzi, mentre l’ultimo comma disciplina unicamente con riguardo al rapporto interno, per giungere alla conclusione che “il legislatore non ha voluto sovrapporre ad una disciplina già esistente una nuova e diversa regolamentazione, che la soppiantasse. Esso ha voluto amalgamare il tutto” (Corsi – 58), questo anche nel silenzio di una qualsiasi indicazione nei lavori parlamentari circa le ragioni per le quali è stata accolta l’attuale formulazione.

Ne deriva che l’art. 184 non è più la norma fondamentale della disciplina, ma una norma particolare che disciplina problemi particolari.

Regola fondamentale è l’inefficacia nei confronti della comunione e dell’altro coniuge degli atti di amministrazione straordinaria compiuti unilateralmente da uno dei coniugi, questo non vuol dire che la comunione non sia coinvolta neppure indirettamente, perché in realtà i beni comuni, nei limiti del “valore corrispondente alla quota del coniuge obbligato”, sono pur sempre coinvolti ai sensi dell’art. 189, comma 1°.

Unica eccezione a questa regola è individuata dall’Autore nelle obbligazioni assunte “nello interesse della famiglia”, infatti queste gravano sui beni comuni anche quando siano state contratte dai coniugi separatamente secondo quanto si desume dall’art. 186, lett. c).

Totalmente diversa è la situazione nel caso in cui vi siano degli atti diretti a produrre effetti di carattere reale e non puramente obbligatori come nell’ipotesi precedente.

Qui interviene l’art. 184 non potendo avere la regola dell’inefficacia, innanzi prevista, quella relatività di applicazione consentita nei rapporti obbligatori e che ha permesso la stesura dell’art. 189, comma 1°, senza considerare i contrasti a cui va incontro con una serie di norme inderogabili disciplinanti gli effetti del possesso (artt.1153 ss.), della trascrizione (artt. 2643 ss.) e della vendita di beni altrui (artt. 1478 ss.).

In tal modo vengono a superarsi molte difficoltà a partire da quelle dovute all’applicazione delle regole obbligazionarie ai crediti comuni senza tuttavia provvedere a limitare l’applicazione dell’art. 184 agli atti aventi effetti reali, ma considerandolo applicabile in generale a tutti gli atti di disposizione.

Anche le lamentele di Schlesinger non hanno più ragione di essere, per non parlare, poi, della coordinazione dell’art. 184 con gli artt. 186 e 190 che può finalmente avere una sistemazione logica senza eccessivi contorsionismi, infatti non potranno esservi, in mancanza del consenso di entrambi i coniugi, obbligazioni gravanti direttamente sui beni della comunione o sui beni personali dell’altro coniuge.

La tesi di Corsi non sembra del resto isolata, se si può intendere in questi termini l’affermazione di Oppo secondo cui sono soggetti all’art. 184 gli atti “traslativi o costitutivi di diritti sui beni comuni” (Oppo – 59).

La ratio della norma non sembra potersi esaurire nella difesa della posizione dei terzi, intendendo in realtà contemperare la necessaria tutela dei terzi che vengono in contatto con la comunione, con la difesa dell’unità e della corretta amministrazione della comunione stessa, insita in particolare modo nel terzo comma.

Azioni di annullamento

Viene così a chiarirsi la possibilità concessa al coniuge nel 1° comma di una azione di annullamento indipendente dalla buona o mala fede del terzo acquirente, anche se questi si è fidato di documenti ineccepibili eventualmente avallati da un notaio.

Per evitare spiacevoli sorprese sono state proposte vari vie a cui il terzo dovrebbe affidarsi, la prima, proposta da Schlesinger (60), consiste nel vincolare la controprestazione a favore della comunione, sottraendola quindi alla disponibilità del singolo coniuge intervenuto all’atto, per tutto il periodo del termine concesso per fare valere l’annullabilità, la seconda o meglio le altre due sono proposte dai Finocchiaro.

Gli autori, dopo aver ricordato che il consenso mancante deve essere dato per iscritto, come del resto è riconosciuto dallo stesso Schlesinger, ritengono più opportuno, al fine di evitare problemi che sorgerebbero, come nel caso di controprestazioni costituite da assegni, che il terzo, in caso di azione di annullamento, si renda inadempiente o invochi un inadempimento della propria controparte, oltre una eventuale azione di danni nei confronti del coniuge agente (61).

Un particolare problema che la tesi di Corsi supera agevolmente è dato dai diritti personali di godimento, sui quali verrebbero applicati i principi obbligatori anziché l’art. 184, da cui ne consegue l’inefficacia dell’atto posto in essere senza il consenso di uno dei coniugi.

Cade in contraddizione Schlesinger quando, dopo avere escluso dall’applicabilità dell’art. 184 tutti gli atti che non siano atti di disposizione, ammette quale eccezione i contratti di locazione infranovennali di beni immobili che, rientrando pienamente tra i diritti personali di godimento.

Del resto è lo stesso autore che si rende conto della propria posizione quando riconosce di avere alterato i principi da lui precedentemente sostenuti e conclude che più “di annullamento si tratterà di un’azione di risoluzione” (Schlesinger – 62).

Del tutto opposta è la posizione dei Finocchiaro che sostengono la piena validità del contratto infranovennale e l’impossibilità di qualsiasi azione di annullamento da parte dell’altro coniuge, sua unica possibilità è un’azione di risarcimento nei confronti del partner se il contratto si rilevi pregiudizievole per la comunione.

Le argomentazioni a favore non reggono a partire dalla mancanza della data di trascrizione. La sua mancanza, se esclude l’applicabilità dell’art. 184 al caso presente, non giustifica per questo la validità dell’atto (63).

Il 1° comma ammette la possibilità della successiva convalida dell’atto da parte dell’altro coniuge, ma questa convalida dovrà avvenire per atto scritto, essendo inammissibile un semplice comportamento concludente.

Schlesinger (64) sostiene l’estensione del 3° comma alle ipotesi previste nel 1° comma. Il coniuge che ha compiuto l’atto senza il consenso dell’altro coniuge dovrà ricostituire il patrimonio allo stato originario e, se questo risulta possibile, pagare l’equivalente secondo i valori correnti all’epoca della ricostituzione della comunione.

Anche il terzo che senza sua colpa ha confidato sulla validità dell’atto potrà chiedere al coniuge stipulante il risarcimento del danno, in analogia con quanto detto nell’art. 1398, logicamente quanto detto non varrà se il terzo era in mala fede, perché consapevole del difetto del consenso mancante.

Interpretazioni dell’art. 184, 3° comma

Nonostante il non equivoco disposto dal 3° comma dell’art. 184 di questo sono state date diverse interpretazioni che possono riassumersi in tre tipi.

La prima è quella fornita da Schlesinger per il quale gli atti di disposizione su beni comuni compiuti da un solo coniuge sono sempre invalidi. Infatti secondo l’autore il legislatore ha voluto evitare ogni indagine circa la buona o la mala fede del terzo che risulterebbe, del resto, molto complessa. Tuttavia l’invalidità “non è […] opponibile al terzo acquirente, anche se di mala fede,dopo che il bene gli sia stato consegnato” (Schlesinger – 65).

Obiettano i Finocchiaro (66) che dalla lettera della legge non vi evince l’invalidità di tali atti, anzi, al contrario, la loro piena validità, inoltre non è da sottovalutare che mentre contro gli atti relativi a beni immobili è concesso al coniuge estromesso un arco di tempo per decidere sull’eventuale azione di annullabilità, nei riguardi degli atti relativi a beni mobili egli può agire in qualsiasi momento.

Ne consegue che l’atto sarà pienamente valido e quindi i terzo potrà agire contro entrambi i coniugi per l’esecuzione dello stesso.

Sullo stesso piano si pone Oppo per il quale l’atto di disposizione unilaterale è “valido ed efficace senza neanche riguardo alla buona o mala fede del terzo” (Oppo – 67).

Ma una categoricità del genere è eccessiva puntando tutto sulla difesa del terzo e limitandosi per la comunione ad un obbligo di ricostituzione o risarcimento della stessa. D’altronde arrivare ad ignorare persino la colpa grave sembra davvero eccessivo, se si tiene conto del valore che possono avere determinati beni mobili.

Al contrario, partendo dal principio che il legislatore non ha voluto sostituire integralmente la materia, ma ha più semplicemente inteso completarla e correggerla rispetto al particolare istituto del regime patrimoniale familiare, si intuisce meglio perché nel 3° comma della norma in esame il legislatore si è limitato ad una disciplina interna tra i coniugi, ignorando completamente il rapporto della comunione con i terzi.

Si può concludere che l’art. 184, comma 3°, si collega naturalmente all’art. 1153, ossia alle normali regole relative all’acquisto della proprietà dei beni mobili in forza del possesso di buona fede. Non si venga a dire che l’art. 184, ultimo comma, non prevede la distinzione tra buona e mala fede, in quanto ai sensi dell’art. 1147 la buona fede è sempre presunta e può essere esclusa solo se l’ignoranza dipende da colpa grave.

Il che induce evidentemente ad escludere che il terzo, il quale intenda acquistare un bene mobile, possa sentirsi, di regola, tenuto a controllare sui registri dello stato civile lo stato matrimoniale del venditore ed il relativo regime patrimoniale (oltretutto, il disporre di beni mobili può spesso rientrare nell’ambito dell’ordinaria amministrazione)” (Corsi – 68).

Hanno obiettato i Finocchiaro (69) che l’art. 1153 si riferisce all’acquisto di proprietà “a non domino” e non al problema, sostanzialmente diverso, della validità di un atto di disposizione compiuto da un condomino contro la volontà degli altri condomini.

Anche in questo caso può replicarsi agevolmente con la semplice osservazione che la legge di riforma del diritto di famiglia, n. 151/75, ha disciplinato in forma innovativa il regime patrimoniale della comunione legale, rendendolo completamente autonomo dalla generica comunione disciplinata dal codice civile.

Un’ultima osservazione, quasi un codicillo, è per i titoli di credito nominativi, essi e la dottrina è concorde, rientrano nella categoria dei beni mobili. Se poi sono intestati alla comunione sarà sufficiente la firma di uno solo dei coniugi per la girata, stante l’art. 184, comma 3°, ma essendo necessaria l’autentica della firma sarà difficile che il notaio o l’agente di cambio si prestino tanto facilmente, in quanto si tratta pur sempre di violare una norma anche se imperfetta.

Amministrazione dei beni personali del coniuge

Esaurita l’analisi della disciplina amministrativa della comunione un’ultima norma, l’art. 185, prende in considerazione l’amministrazione dei beni personali del coniuge.

L’utilità di una tale norma era già stata contestata nella discussione alla Camera dove si era prospettata l’opportunità di una totale soppressione dell’articolo in questione, dato che questi si limita a ripetere quanto contenuto nell’art. 217, tuttavia la norma è rimasta.

I commi richiamati sono il secondo, il terzo e il quarto ma è quest’ultimo che ha fatto sorgere maggiori problemi per una sua trasposizione.

La sua genericità nel considerare responsabile dei danni e della mancata percezione dei frutti il coniuge che, nonostante l’opposizione dell’altro, amministra o compie atti relativi a detti beni, ha creato un primo problema con riferimento alla categoria dei beni a cui intende riferirsi.

Certamente una sua estensione indiscriminata a tutti i beni immobili e mobili registrati è eccessiva ed inutile, in quanto la disciplina prevista dai commi 1° e 2° dell’art. 184 non può senz’altro estendersi ai beni personali immobili o mobili registrati per conseguenza logica, qualunque posizione si voglia assumere nei confronti dell’art. 184.

Non resta che applicare la norma in questione ai beni mobili, senza timor di logica più soggetti a possibili danni da parte dell’altro coniuge.

Altro problema è il possibile diritto d’uso dei beni personali del coniuge da parte degli altri familiari. Per alcuni beni “che sono personali proprio in funzione di una particolare destinazione (art. 179, lett. c, d ed e)” (Schlesinger 72) il problema non si pone neppure, mentre per gli altri Schlesinger mostra una certa perplessità che non dovrebbe sussistere, considerando nel giusto modo il problema.

Infatti i beni personali sono posti a disposizione completa del coniuge titolare con l’unico limite dell’obbligo di contribuire, ai sensi dell’art. 184, comma 3°, ai bisogni della famiglia, ma una volta soddisfatto un tale dovere, e si presume che non tutti i beni del singolo coniuge siano risucchiati in un tale obbligo, è la stessa qualità dei beni personali a far sì che spetti al coniuge decidere se metterli a disposizione e quindi ad uso della famiglia oppure no.

Un ultimo problema è quello nascente dall’inciso “nonostante l’opposizione dell’altro” che presume una esplicita opposizione del coniuge, al limite anche deducibile dal comportamento, ma si verrebbe a creare un vuoto tra la procura e l’opposizione che dovrebbe essere assimilato ora all’una, ora all’altra, più semplice dare all’art. 185 l’interpretazione da noi considerata che appianerebbe qualsiasi problema riferendo la norma ai beni mobili non registrati, più soggetti all’eventuale uso dei familiari fatto che dovrebbe essere la regola in regime di comunione legale.

Note:

  1. Schlesinger, Commentari alla riforma del diritto di famiglia, Padova, pag. 413 vol. I;

  2. Comporti, Gli acquisti dei coniugi in regime di comunione legale (Riv. Del Not., 1979), pag. 46 nota 16;

  3. Navarra, L’intervento dell’altro coniuge negli acquisti di beni personali immobili e mobili registrati (Riv. Del Not. 1977), pag. 1061 e segg.;

  4. Cian e Villani, Comunione dei beni tra coniugi (Nuova Dig.) pag. 166-167;

  5. A. Finocchiaro – M. Finocchiaro, Riforma del diritto di famiglia, Milano pag. 171 vol. III;

  6. Schlesinger, cit. pag. 430, vol. I;

  7. Cian e Villani, cit., pag. 167;

  8. A. Finocchiaro – M. Finocchiaro, cit., pag. 529 e segg. Vol. III;

  9. Atlante, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia alla luce della prima esperienza professionale notarile, Riv. del Not. 1976, pag. 9;

  10. De Paola e Macrì, Il nuovo regime patrimoniale della famiglia, Milano, pag. 163;

  11. Corsi, Il regime patrimoniale della famiglia, (Tratt. Di Dir. Civ. e Comm. ), pag. 125;

  12. Corsi , cit., pag. 125;

  13. AA.VV., L’applicazione pratica delle nuove norme sul diritto di famiglia da parte dei notai ( Il Nuovo Diritto di Fam., 1975), pag. 194;

  14. Falzea, Il dovere di contribuzione nel regime patrimoniale della famiglia ( Riv. di Dir. Civ., 1977 ), pag. 630;

  15. Schlesinger, citato, pag. 410 Vol.I;

  16. Busnelli, La comunione legale nel diritto di famiglia riformato ( Riv. del Not. 1976), pag. 44;

  17. Schlesinger, cit., pag. 410 Vol. I;

  18. Busnelli, cit., pag. 42;

  19. Busnelli, cit., pag. 49.

20 ) Schlesinger, citato, pag. 411, Vol. I

21) A. Finocchiaro e M. Finocchiaro, citato, pag. 527, Vol. III

22) Schlesinger, citato, pag. 412, Vol. I

23) Busnelli, citato, pag. 48

24) Busnelli, citato, pag. 48

25) Corsi, citato, pag. 124

26) Schlesinger, citato, pag. 414, Vol. I

27) Schlesinger, citato, pag. 415, Vol. I

28) Bessone – Alpa – D’Angeli – Ferrando, citato, pag. 100

29) Schlesinger, citato, pag. 417, Vol. I

30) Schlesinger, citato, pag. 416, Vol. I

31) Schlesinger, citato, pag. 418, Vol. I

32) Busnelli, citato, pag. 51; De Paola e Macrì, citato, pag. 182

33) Marsani, Il mandato nel regime patrimoniale della famiglia ( Il nuovo Dir. di Fam. Milano 1975), pag. 183-184; Corsi, citato, pag. 128

34) Schlesinger, citato, pag. 418, Vol.I

35) Schlesinger, citato, pag. 418, Vol. I

36) Busnelli, citato, pag. 50- 51

37) Schlesinger, citato, pag. 418 – 419, Vol. I

38) – 39) Atlante, citato, pag. 11-13

40) Atlante, citato, pag. 13

41) Corsi, citato, pag. 127

42) Corsi, citato, pag. 127, nota 26

43) Cian e Villani, citato, pag. 170

44) Corsi, citato, pag. 127

45) A. Finocchiaro e M. Finocchiaro, citato, pag. 546, Vol. III

46) Attardi, Aspetti processuali del nuovo diritto di famiglia, (Com. alla Rif. Del Nuovo Dir. di Fam. 1977) , pag. 948

47) Schlesinger, citato, pag. 420, Vol. I

48) – Schlesinger, citato, pag. 421 Vol. I

49) – Schlesinger, citato, pag. 421 Vol I

50) – Busnelli, citato, pag. 49

51) – Fornaro e Plantade, Guida al nuovo diritto di famiglia, Roma Pag. 65

52) – Schlesinger, citato, pag. 421 Vol. I

53) – Cian e Villani, citato pag. 170

54) , 55) – Schlesinger. Citato, pag. 423 Vol I

56) , 57) – A. Finocchiaro e M. Finocchiaro, citato pag. 559, 560 Vol III

58) – Corsi , citato, pag. 141 e seg.

59) – Oppo, Responsabilità patrimoniale e nuovo diritto di famiglia, riv. dir. civ. 1976, pag. 116

60) – Schlesinger , citato , pag. 424 Vol. I

61) – A. Finocchiaro e M. Finocchiaro, citato, pag. 565 Vol III

62) – Schlesinger , citato, pag. 424,425 Vol. I

63) – A. Finocchiaro e M. Finocchiaro, citato, pag. 561 Vol. III

64), 65) – Schlesinger, citato, pag. 426, 427 Vol. I

66) – A. Finocchiaro e M. Finocchiaro, citato pag. 566, 567 Vol. III

67) – Oppo, citato, pag. 109

68) – Corsi, citato, pag. 145 nota 115

69) – A. Finocchiaro e M. Finocchiaro, citato pag. 566 Vol. III

70), 71) – Cian e Villano, citato, pag. 169

72) – Schlesinger, citato, pag. 428 Vol. I

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