Ilva di Taranto. La responsabilità di salvare capra e cavoli (in specie salute e lavoro), passa ai custodi. L’indicazione arriva dai giudici del Tribunale del Riesame nelle lunghe e complesse motivazioni, configurano anche quale sarà o potrà essere il futuro più immediato dell’Ilva.
Scrivono i giudici Antonio Morelli, Rita Romano e Benedetto Ruberto – “Non si tratta certo di operare compromessi fra il diritto al lavoro e i primari interessi alla vita, salute e integrità ambientali, quanto piuttosto individuare quelle soluzioni che, nel giungere alla cessazione delle emissioni inquinanti, consentano di pregiudicare il meno possibile gli ulteriori interessi in gioco”.
Proseguono i giudici: “Non è compito del tribunale stabilire se e come occorra intervenire nel ciclo produttivo (con i consequenziali costi di investimento) o, semplicemente, se occorra fermare gli impianti, trattandosi di decisione che dovrà necessariamente essere assunta sulla base delle risoluzioni tecniche dei custodi-amministratori, vagliate dall’autorità giudiziaria: per questo lo spegnimento degli impianti rappresenta, allo stato, solo una delle scelte tecniche possibili”.
Di fatto si palesa ancora di più la complessità della vicenda Ilva e quanto il provvedimento di sequestro sia molto di più che una semplice procedura di apposizione dei sigilli. Scrivono ancora i giudici del Riesame come “le modalità esecutive del sequestro, in concreto, non possano che essere individuate dagli stessi custodi-amministratori, sulla base delle migliori tecnologie disponibili, ed attuate sotto la supervisione del pm, quale organo dell’esecuzione, all’esclusivo fine della eliminazione della situazione di pericolo”.
Tuttavia, le posizioni del Tribunale divergono con quelle del gip Patrizia Todisco che in altro provvedimento aveva indicato lo spegnimento degli impianti come prima soluzione possibile per porre fine all’inquinamento. Il Riesame rimette in discussione questa tesi. “In nessuna parte della perizia e, del resto, in nessuna parte del provvedimento del gip – scrive il Tribunale – si legge che l’unica strada perseguibile al fine di raggiungere la cessazione delle emissioni inquinanti, unico obiettivo che il sequestro preventivo si prefigge, sia quella della chiusura dello stabilimento e della cessazione dell’attività produttiva “.
Così, riemerge il dilemma: da una parte c’è l’obbligo di tutelare la salute, di fermare l’inquinamento, di stabilire la supremazia delle legge su quella dell’economia, di ridare giustizia e serenità alla città di Taranto, dall’altra c’è la salvaguardia del posto di lavoro. I giudici lo chiariscono in passaggio delle motivazioni: “La questione relativa ai limiti ed ai poteri dell’autorità giudiziaria ed ai limiti ed ai poteri dei custodi nel caso di sequestro preventivo di un enorme e complesso stabilimento industriale quale il siderurgico di Taranto, non è – scrivono – meramente tecnica e fine a se stessa, visto che dalla sua soluzione discendono importanti ricadute concrete, che vanno ad intaccare contrapposti interessi, pure costituzionalmente rilevanti, quali quello della tutela dell’impresa produttiva e quello della tutela dell’occupazione di mano d’opera”.