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IL REGIME SANZIONATORIO PER IL CONCORSO DI ILLECITI AMMINISTRATIVI,

COMMENTO AD ORDINANZA DELLA CORTE DI CASSAZIONE N. 12208 DEL 14/04/2022.

avv. Giovanni Gargiulo

Abstract: In caso di concorso materiale di illeciti in materia di trasporto di rifiuti commessi in data antecedente alla riforma attuata con D.Lgs. 116/2020, non si applica il regime sanzionatorio del cumulo giuridico, bensì quello del cumulo materiale.

In the event of material concurrence of offenses relating to the transport of waste committed on a date prior to the regulatory reform implemented with D.Lgs. 116/2020, the sanctioning regime of legal accumulation does not apply, but that of material accumulation.

Sommario: 1. Il fatto storico – 2. Il regime sanzionatorio del concorso materiale in materia di trasporto di rifiuti – 3. L’inapplicabilità delle tutele previste dall’ordinamento penale, in ragione della natura amministrativa degli illeciti – 4. Lo jus superveniens.

  1. Fatto storico

Un ente pubblico emetteva molteplici ordinanze ingiunzione con le quali comminava un consistente numero di sanzioni amministrative ai sensi e per gli effetti cui all’art. 258, co. 5, D.Lgs. 152/2006, dirette a punire numerose violazioni del precetto imposto dall’art. 193 D.Lgs. 152/2006, in quanto, in occasione di diversi trasporti di rifiuti speciali non pericolosi effettuati negli anni 2008 e 2009, era stato accertato che i relativi formulari non risultavano correttamente compilati, poiché nel “campo 9”, dedicato alla firma del produttore dei rifiuti, era stata invece apposta la firma di un dipendente della società destinataria dei rifiuti, frequentemente coincidente con l’autista del mezzo che di volta in volta si occupava materialmente del trasporto.

Avverso dette ordinanze proponevano un’opposizione congiunta ex artt. 22 L. 689/1981 e 6 D.Lgs. 150/2011 i vari soggetti passivi delle obbligazioni pecuniarie che, tra i diversi motivi di doglianza, contestavano l’applicazione da parte dell’ente del criterio del “cumulo materiale” delle sanzioni, in virtù del quale erano state applicate tante sanzioni quanti erano gli illeciti amministrativi accertati. I ricorrenti pretendevano, infatti, il ricorso al regime sanzionatorio del cd. “cumulo giuridico” cui all’art. 8 L. 689/1981, che prescriveva l’irrogazione della sanzione prevista per la violazione più grave aumentata sino al triplo.

Lo specifico motivo di ricorso (unitamente agli altri motivi di opposizione che esulano dalla presente disamina) veniva respinto in primo grado, ma accolto dinanzi al giudice di appello (che, però, respingeva ogni altro motivo d’impugnazione), con sentenza non definitiva n. 1466/2019 del 14/06/2019. Quindi, il giudice d’appello dichiarava applicabile la regola del cd. “cumulo giuridico”, in luogo del cd. “cumulo materiale” e rimetteva la causa sul ruolo per agevolare la nuova liquidazione delle sanzioni in funzione del mutato criterio di calcolo.

Successivamente, la Corte di Appello sospendeva il giudizio ai sensi e per gli effetti cui all’art. 279, co. 4, c.p.c., in virtù dell’istanza congiunta presentata dalle parti processuali, che palesavano la pendenza di un giudizio in Cassazione avente ad oggetto la predetta sentenza non definitiva.

Invero, in sede di giudizio di legittimità, l’ente pubblico aveva affidato a due diversi motivi l’impugnazione del solo capo della sentenza con il quale il giudice di appello aveva deciso di applicare la regola del cumulo giuridico ai fini della quantificazione delle sanzioni amministrative; mentre alcuni dei soggetti sanzionati avevano presentato un controricorso con il quale contestavano l’avversa domanda e, al contempo, propugnavano ricorso incidentale, attraverso il quale proponevano alla Corte di Cassazione le questioni giuridiche alla base delle doglianze che entrambi i giudici di merito avevano rigettato.

Con ordinanza n. 12208 del 16/03/2022, pubblicata in data 14/04/2022, la Corte di Cassazione rigettava il ricorso incidentale ed accoglieva il ricorso principale, limitatamente al primo motivo (il secondo motivo risultava infatti assorbito), nella parte in cui veniva lamentata la violazione e falsa applicazione dell’art. 8, co. 2, L. 689/1981; per l’effetto, il Supremo Consesso cassava la sentenza impugnata con rinvio, per un nuovo esame, alla medesima Corte di Appello che, in differente composizione, avrebbe dovuto liquidare anche le spese del giudizio di legittimità.

L’ordinanza in commento restituisce un’interpretazione della norma contenuta nell’art. 8 L. 689/1981 che offre spunti di riflessione sotto diversi profili giuridici.

  1. Il regime sanzionatorio del concorso materiale in materia di trasporto di rifiuti

Come noto, l’art. 8 L. 689/1981, rubricato: “Più violazioni di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative”, prescrive che: “Salvo che sia diversamente stabilito dalla legge, chi con un’azione od omissione viola diverse disposizioni che prevedono sanzioni amministrative o commette più violazioni della stessa disposizione, soggiace alla sanzione prevista per la violazione più grave, aumentata sino al triplo. Alla stessa sanzione prevista dal precedente comma soggiace anche chi con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno posto in essere in violazione di norme che stabiliscono sanzioni amministrative, commette, anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse norme di legge in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie …”.

Siffatta norma prevede dunque l’applicazione della regola del cumulo giuridico delle sanzioni (ovvero imposizione della sanzione amministrativa prevista per la violazione più grave, aumentata fino al triplo) in luogo del cd. cumulo materiale (che prevede l’applicazione di tante sanzioni quanti sono gli illeciti amministrativi commessi), anzitutto, nel caso in cui, con una sola azione od omissione, l’autore commetta una pluralità di violazioni sanzionate amministrativamente, distinguendo tra concorso formale omogeneo, che ricorre laddove le violazioni abbiano per oggetto la stessa disposizione, e concorso formale eterogeneo, che viceversa si registra nelle ipotesi in cui le violazioni riguardano disposizioni differenti.

Il secondo comma della richiamata norma estende la regola dal cumulo giuridico ai casi di continuazione di illeciti amministrativi, che si concretizzano quando violazioni (della stessa o di diverse disposizioni) siano state commesse con più azioni od omissioni, purché esecutive di un “medesimo disegno”.

La mitigazione del trattamento sanzionatorio attraverso l’applicazione della regola del cumulo giuridico, relativa alle ipotesi di concorso materiale da ultimo indicate, è stata tuttavia limitata alla sola materia dell’assistenza e previdenza obbligatorie.

Nonostante il tenore letterale della norma, il giudice di appello nella controversia in esame aveva riformato la sentenza di primo grado ritenendo che, attraverso “una interpretazione costituzionalmente orientata dell’art. 8 L. 689/1981”, doveva applicarsi il regime sanzionatorio del cumulo giuridico, in luogo del cumulo materiale, in quanto tutte le condotte trasgressive accertate dall’ente pubblico erano caratterizzate da un comune disegno.

Come anticipato, la suesposta ricostruzione dommatica è stata smentita dal giudice di legittimità, laddove il Supremo Consesso ha ritenuto che l’istituto della continuazione in materia di violazioni amministrative si applica, in via generale, alla sola ipotesi in cui la pluralità di violazioni sia commessa con una sola azione od omissione, mentre nel caso esse siano commesse con più azioni od omissioni, detto istituto trova applicazione soltanto se si tratta di violazioni in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie1.

Con l’occasione, la Corte ha escluso che ricorresse una questione di legittimità costituzionale (sollevata dai soggetti passivi dell’obbligazione pecuniaria) dell’art. 8, co. 2, L. 689/1981 – nella parte in cui non prevede la possibilità del cumulo giuridico delle sanzioni anche per gli illeciti amministrativi diversi dalle violazioni di norme in materia previdenziale ed assistenziale – in riferimento all’art. 3, co. 1, cost.

Sul tema gli ermellini hanno ritenuto, per un verso, che dovesse escludersi una disparità di trattamento rispetto alle sanzioni penali, attesa la diversità dei due tipi di violazioni, assumendo, per altro verso, che il differente trattamento riservato alle violazioni in materia previdenziale ed assistenziale rientrasse nella discrezionalità del legislatore, senza implicare alcuna violazione del principio di uguaglianza2.

Sotto quest’ultimo profilo occorre rilevare come la discrezionalità del legislatore abbia costituito il chiaro limite giuridico al più volte auspicato intervento additivo della Corte Costituzionale, che ha ripetutamente sancito l’insindacabilità dell’opzione legislativa diretta alla differenziazione del trattamento giuridico sanzionatorio relativamente al concorso di illeciti amministrativi3.

Le richiamate pronunce giurisprudenziali sostengono, quindi, l’insindacabilità dell’opzione legislativa diretta alla differenziazione del trattamento giuridico sanzionatorio relativamente al concorso di illeciti amministrativi; tecnica, quest’ultima, che il legislatore ha utilizzato anche in altri settori giuridici, come quello relativo alla materia assicurativa, laddove l’art. 327 D.Lgs. 209/2005 (poi abrogato dal D.Lgs. 68/2018, emanato in attuazione della direttiva UE 2016/97) conferiva rilievo al cd. “illecito seriale”, costituito da “più violazioni della stessa disposizione del presente codice, o delle norme di attuazione, per le quali sia prevista l’applicazione di sanzioni amministrative pecuniarie, attraverso una pluralità di azioni od omissioni la cui reiterazione sia dipesa dalla medesima disfunzione dell’organizzazione dell’impresa o dell’intermediario”.

  1. L’inapplicabilità delle tutele previste dall’ordinamento penale, in ragione della natura amministrativa degli illeciti

Il reato continuato cui all’art. 81 c.p. rappresenta una particolare ipotesi di concorso materiale in cui i vari fatti illeciti posti in essere dal reo sono compresi in un medesimo ed unitario disegno criminoso.

Tale peculiarità comporta una minore severità in sede di applicazione della pena rispetto a quella prevista per il concorso materiale e ciò in quanto la struttura del reato dimostra una minore riprovevolezza in capo all’agente.

Nella fattispecie in esame, la Cassazione ha sostenuto come nella specifica materia del trasporto dei rifiuti non risulti applicabile in via analogica l’art. 81 c.p., in virtù della differenza morfologica tra illecito penale ed illecito amministrativo4.

Invero, siffatta diversità non consente che, attraverso un procedimento di interpretazione analogica, le norme di favore previste in materia penale vengano tout court estese alla materia degli illeciti amministrativi5.

Sotto diverso profilo, la Cassazione ha escluso che la fattispecie sanzionatoria prevista dall’art. 258, co. 5, D.Lgs. 152/2006 potesse essere assoggettata alla disciplina in materia di continuazione in ragione della sua natura sostanzialmente penale.

In proposito, il collegio ha infatti richiamato i principi espressi dalla giurisprudenza comunitaria e, in particolare, i ccdd. criteri di Engel (1. qualificazione giuridica della sanzione nel sistema normativo nazionale; 2. natura della sanzione; 3. livello di afflittività della sanzione)6 con cui la Corte di Strasburgo ha più volte evidenziato l’esistenza di illeciti non formalmente qualificati come penali nell’ordinamento interno che però, di fatto, per il loro contenuto e la loro sanzione corrispondono a dei veri e propri illeciti penali, necessitando, pertanto, delle tutele previste dall’art. 6 e 7 della CEDU.

Per il caso che ci occupa, la Cassazione ha quindi sostenuto, in primis, che la disciplina nazionale deponesse inequivocabilmente per la qualificazione della natura delle sanzioni in esame come amministrative; quindi, in relazione al secondo dei criteri di Engel innanzi richiamati, ha osservato che pur essendo la sanzione posta a tutela di interessi generali (la piena tracciabilità dell’attività di smaltimento dei rifiuti speciali non pericolosi) essa sia destinata ad una ristretta platea di possibili destinatari (i soggetti che svolgono le attività di produzione, trasporto e smaltimento di rifiuti); infine, la Corte ha rilevato che il quantum debeatur imposto dalla norma, valutato contestualmente all’assenza di sanzioni accessorie, non potesse indurre a giudicare la sanzione come particolarmente afflittiva, rimarcando, per l’effetto, la natura amministrativa dell’illecito.

  1. Lo jus superveniens

La Corte non ha potuto fare a meno di considerare l’evoluzione della disciplina sanzionatoria in relazione all’errata compilazione dei formulari per il trasporto dei rifiuti.

Invero, in attuazione della Direttiva (UE) 2018/851, il legislatore nazionale ha adottato il D.Lgs. 116/2020, il cui art. 4, co. 1, ha profondamente innovato la disciplina impressa nel previgente art. 258 D.Lgs. 152/2006.

Il nuovo testo estende la regola del cumulo giuridico anche alla continuazione di illeciti amministrativi esecutivi di un medesimo disegno in materia di rifiuti. In pratica, il legislatore ha previsto una nuova ipotesi di cumulo giuridico nei casi di concorso materiale di illeciti amministrativi, rispetto alla quale il soggetto agente soggiace alla sanzione amministrativa prevista per la violazione più grave aumentata sino al doppio (e non sino al triplo, come invece stabilito dal citato art. 8 L. 689/1981).

Per completezza di analisi occorre rilevare come il nuovo comma 13 dell’art. 258 D.Lgs. 152/2006 stabilisce che: “Le sanzioni di cui al presente articolo, conseguenti alla trasmissione o all’annotazione di dati incompleti o inesatti sono applicate solo nell’ipotesi in cui i dati siano rilevanti ai fini della tracciabilità, con esclusione degli errori materiali e violazioni formali. In caso di dati incompleti o inesatti rilevanti ai fini della tracciabilità di tipo seriale, si applica una sola sanzione aumentata fino al triplo”.

Lo jus superveniens prodotto dalla riferita riforma non è stato ritenuto applicabile al caso che interessa, in virtù dell’assenza di una disposizione normativa contenuta nel D.Lgs. 116/2020 che prevedesse espressamente l’applicazione retroattiva della nuova norma sanzionatoria.

Costituisce, infatti, dato pacifico che in tema di sanzioni amministrative vige il principio di legalità cui all’art. 1 L. 689/1981 che, tra i diversi corollari, postula il divieto di applicazione retroattiva delle norme sanzionatorie in materia di illeciti amministrativi. Si applica, quindi, il principio del tempus regit actum, che impone l’irrogazione della sanzione amministrativa vigente al momento in cui la condotta illecita è stata realizzata.

In tal senso depone la costante giurisprudenza della Suprema Corte, che ha stabilito come il principio del favor rei (di matrice penalistica) non si estende, in assenza di una specifica disposizione normativa, alla materia delle sanzioni amministrative che risponde, viceversa, al richiamato principio del tempus regit actum7.

In tal senso si è altresì espresso il giudice delle leggi, giudicando “manifestamente infondata la questione di legittimità costituzionale [dell’] art. 1, 2° comma, l. 24 novembre 1981 n. 689 (…) nella parte in cui non preved(e) che, se la legge in vigore al momento in cui fu commessa la violazione e quella posteriore stabiliscano sanzioni amministrative pecuniarie diverse, si applichi la legge più favorevole al responsabile8.

Non incide sulla suesposta ricostruzione dommatica la recente pronuncia della Consulta (che riprende, tra l’altro, i principi espressi dalla Corte EDU nella sentenza del 04/03/2014 – caso Grande Stevens ed altri contro Italia), con cui è stata dichiarata l’illegittimità costituzionale dell’art. 6, co. 2, D.Lgs. 72/2015, in riferimento agli artt. 3 e 117, co. 1, cost., nella parte in cui esclude l’applicazione retroattiva delle modifiche apportate dal terzo comma dello stesso articolo 6 alle sanzioni previste per l’illecito amministrativo di abuso di informazioni privilegiate, ritenendo, pertanto, applicabile il principio di retroattività della disposizione più favorevole anche alle sanzioni amministrative9.

Invero, l’arresto da ultimo citato non si è occupato del sistema delle sanzioni amministrative complessivamente considerato, assumendo, invece, una portata limitata ai soli casi di matrice penale.

Nel caso che ci occupa, le sanzioni amministrative comminate dall’ente pubblico non assumono affatto quella natura “punitiva” richiesta ai fini dell’applicazione del principio della retroattività in mitius; conseguentemente, deve trovare conferma l’indirizzo tradizionale della giurisprudenza di legittimità, secondo il quale, in tema di sanzioni amministrative, i principi di legalità, irretroattività e di divieto di applicazione analogica di cui all’art. 1 L. 689/1981, comportano l’assoggettamento della condotta illecita alla legge del tempo del suo verificarsi, con conseguente inapplicabilità della disciplina posteriore più favorevole, sia che si tratti di illeciti amministrativi derivanti da depenalizzazione, sia che essi debbano considerarsi tali ab origine, senza che possano trovare applicazione analogica, attesa la differenza qualitativa delle situazioni considerate, gli opposti principi di cui all’art. 2, co. 2 e 3, c.p. i quali, recando deroga alla regola generale dell’irretroattività della legge, possono, al di fuori della materia penale, trovare applicazione solo nei limiti in cui siano espressamente previsti dal legislatore10.

Poiché il D.Lgs. 116/2020 non ha espressamente sancito alcun effetto retroattivo della riforma dell’art. 258 D.Lgs. 152/2006, la Cassazione ha giustamente concluso per l’applicabilità al caso oggetto di esame della sanzione pecuniaria prevista nel testo vigente all’epoca in cui i fatti sono stati compiuti.

1 La Corte ha richiamato a tal proposito i precedenti costituiti da: Cass., 13/05/2019, n. 12659 e Cass., 16/12/2005, n. 27799:

2 Anche in tal caso sono stati richiamati alcuni precedenti: Cass., 07/05/2018, n. 10890 e Cass., 16/12/2014, n. 26434.

3 Corte cost., 12/07/2017, n. 171; Corte cost., 17/12/2015, n. 270; Corte cost., 30/06/1999, n. 280; Corte cost., 19/01/1995, n. 23; Corte cost., 27/07/1989, n. 468

4 Ex amplius: Cass., 03/05/2017, n. 10775; Cass., 13/10/2011, n. 21203; Cass., 06/10/2008, n. 24655.

5 Ad abundantiam: Cass., sez. un., 28/06/2016, n. 15669. In senso conforme, di recente: Cass., 17/06/2019, n. 16157; Cass., 26/09/2018, n. 22888; Cass., 11/09/2018, n. 22028.

6 Corte EDU, 8 giugno 1976 – caso Engel e altri contro Paesi Bassi.

7 Cass., 09/08/2018, n. 20697; Cass., 02/03/2016, n. 4114.

8 Corte Cost., 28/11/2002, n. 501.

9 Corte Cost., 21/03/2019, n. 63.

10 Cass., 18/02/2022, n. 5346.

 

Corte di Cassazione Civile, sez. II, 14/04/2022, Ordinanza n. 12208

 

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LA CORTE SUPREMA DI CASSAZIONE
SEZIONE SECONDA CIVILE

 

Composta dagli Ill.mi Sigg.ri Magistrati:
Dott. ORILIA Lorenzo – Presidente –
Dott. FALASCHI Milena – Consigliere –
Dott. DONGIACOMO Giuseppe – rel. Consigliere –
Dott. ROLFI Federico – Consigliere –
Dott. TRAPUZZANO Cesare – Consigliere –
ha pronunciato la seguente

ORDINANZA

sul ricorso 31008/2019 proposto da:
CITTA’ METROPOLITANA DI (Omissis), rappresentata e difesa dall’Avvocato STEFANIA GUALTIERI, per procura in calce al ricorso, ed, in seguito, anche dall’Avvocato ANNA LUCIA DE LUCA e dall’Avvocato GIOVANNI GARGIULO, come da procure agli atti;

– ricorrente –

CONTRO

V. LAVORI S.R.L. + ALTRI OMESSI, rappresentati e difesi dall’Avvocato MICHELE LAI, e dall’Avvocato TOMMASO ROLFO, per procura in calce al controricorso;

– controricorrenti e ricorrenti incidentali –

nonché

CONSORZIO CAVET + ALTRI OMESSI;

– intimati –

avverso la sentenza non definitiva n. 1466/2019 della CORTE D’APPELLO DI FIRENZE, depositata il 14/6/2018;
udita la relazione della causa svolta dal Consigliere Dott. GIUSEPPE DONGIACOMO nell’adunanza in Camera di consiglio del 16/3/2022.

FATTI DI CAUSA

1.1. La Provincia di Firenze ha emesso ordinanze con le quali ha ingiunto alla Varvarito Lavori s.r.l. ed altri, nella qualità di trasportatori ovvero di produttori di rifiuti speciali non pericolosi nonché alle società di appartenenza ed al destinatario dei rifiuti stessi, il pagamento delle sanzioni amministrative previste dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 258, comma 5, per aver violato la norma contenuta nel cit. D.Lgs. n. 152, art. 193, contestando agli stessi che i formulari dei trasporti non erano stati correttamente compilati sul rilievo che, nel campo 9, dedicato alla firma del produttore, e cioè il Consorzio Cavet, era stata invece apposta la firma di un dipendente (per lo più l’autista del mezzo di proprietà) della società Varvarito Lavori s.r.l., destinataria dei rifiuti.

1.2. La Varvarito Lavori s.r.l. e gli altri hanno proposto opposizione avverso le predette ordinanze ingiunzione che il tribunale di Firenze, con sentenza del 2017, ha respinto accertando, tra l’altro, che le violazioni erano state contestate dall’Arpat nel marzo del 2011 e che il termine di cui alla L. n. 689 del 1981, art. 28, era stato interrotto.

1.3. Il Consorzio Cavet e gli altri hanno proposto appello avverso tale sentenza.

1.4. La Città Metropolitana di (Omissis) ha resistito al gravame chiedendone il rigetto.

2.1. La corte d’appello, con la sentenza non definitiva in epigrafe, ha, in parte, accolto l’appello proposto.

2.2. La corte, in particolare, per quanto rileva, ha ritenuto: – l’infondatezza dell’assunto secondo il quale le ordinanze ingiunzione non erano state notificate personalmente ai singoli ai trasgressori ma al difensore domiciliatario degli stessi: la notifica, infatti, è inesistente solo nel caso in cui “manchino del tutto i riferimenti alla persona cui effettuare la notificazione stessa, il che non è laddove essa venga effettuata presso il domiciliatario eletto dalla stessa parte”; – l’infondatezza dell’eccezione per cui i fatti contestati risalgono al 2009 mentre le ordinanze sono del luglio del 2015 sicché, in mancanza di atti interruttivi, è maturata la prescrizione quinquennale: la notificazione della contestazione della violazione costituisce un atto interruttivo della prescrizione; – l’infondatezza dell’eccezione di decadenza per decorso del termine perentorio di novanta giorni previsto dalla L. n. 241 del 1990, art. 2: tale norma, infatti, non può trovare a applicazione al procedimento previsto dalla L. n. 689 del 1981; – l’infondatezza dell’assunto per cui, a fronte di una delega scritta da parte del produttore, non sussiste la violazione contestata: la norma distingue nettamente le posizioni dei soggetti del trasporto dei rifiuti ed ognuna di esse ha compiti di controllo non delegabili ad altro soggetto del trasporto medesimo sicché, onde evitare il completo svuotamento del contenuto precettivo della norma, “al trasportatore non può essere delegato il compito proprio del produttore del rifiuto… senza considerare che la delega aveva ad oggetto la compilazione e non la sottoscrizione ed era conferita alla sola srl V. e non ai vari sottoscrittori che si sono succeduti, oltreché al presupposto indimostrato della assenza di personale Cavet al momento del trasporto…”; l’infondatezza dell’eccezione di mancanza di colpa per effetto di ignoranza scusabile: la specificità dell’attività svolta presuppone la conoscenza della normativa e l’esatta conoscenza delle relative disposizioni di legge; – la fondatezza dell’assunto secondo il quale deve trovare applicazione la L. n. 689 del 1981, art. 8 sul rilievo, per un verso, che l’interpretazione “costituzionalmente orientata dell’art. 8”, “imposta dalla similarità delle situazioni e dalla irragionevolezza dell’esito dell’applicazione delle plurime sanzioni in termini di afflittività eccessiva della condanna pecuniaria”, “… porta alla conseguenza che laddove, come nel caso di specie, le plurime sanzioni (rectius: violazioni) alla medesima disposizione di legge siano effettuate nell’ambito di una identica attività si applichi la unica sanzione aumentata al terzo” e, per altro verso, che “il medesimo disegno criminoso si rinviene nella unicità della attività in relazione alla estrazione e creazione di materiale di rifiuto effettuata dalla Cavet, e dalla esistenza della delega che conferisce alla pluralità di atti il conseguimento del medesimo fine…”.

2.3. La corte, pertanto, senza pronunciare definitivamente sull’appello, ha dichiarato l’applicabilità della L. n. 689 del 1981, art. 8, commi 1 e 2, rimettendo la causa sul ruolo per il calcolo delle sanzioni da applicarsi a ciascuno degli appellanti.

3.1. La Città Metropolitana di (Omissis), con ricorso notificato il 23/10/2019, ha chiesto, per due motivi, la cassazione della sentenza della corte d’appello, dichiaratamente non notificata.

3.2. La V. Lavori s.r.l., + ALTRI OMESSI hanno resistito con controricorso notificato il 25/11/2019 con il quale hanno proposto, per tre motivi, ricorso incidentale.

3.3. La Città Metropolitana di (Omissis) ha resistito con controricorso notificato il 3/1/2020 con il quale ha eccepito l’inammissibilità del controricorso per mancanza di sottoscrizione dell’atto e della relativa procura difensiva.

3.4. Sono rimasti intimati il Consorzio Cavet, la xxx (più altri).

3.5. La ricorrente ha depositato memoria.

RAGIONI DELLA DECISIONE

4.1. Con il primo motivo, la ricorrente principale, lamentando la violazione e la falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 8, comma 2, nella parte in cui limita l’applicazione del cumulo giuridico alle ipotesi di concorso materiale afferenti la materia dell’assistenza e della previdenza obbligatorie, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, ha censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto che l’interpretazione “costituzionalmente orientata dell’art. 8”, “imposta dalla similarità delle situazioni e dalla irragionevolezza dell’esito dell’applicazione delle plurime sanzioni in termini di afflittività eccessiva della condanna pecuniaria”, doveva portare “alla conseguenza che laddove, come nel caso di specie, le plurime sanzioni (violazioni) alla medesima disposizione di legge siano effettuate nell’ambito di una identica attività si applichi la unica sanzione aumentata al terzo”, senza, tuttavia, considerare che la mitigazione del trattamento sanzionatorio gravante sugli autori di plurime condotte attive o passive, in violazione di una o più norme caratterizzate da un medesimo disegno, sia stata limitata dalla legge, attraverso l’applicazione della regola del cumulo giuridico, alla sola materia dell’assistenza e previdenza obbligatorie e che il regime favorevole previsto dalla predetta norma non può essere esteso in via analogica, pur a fronte della sussistenza di un medesimo disegno criminoso tra le diverse violazioni, a materie diverse da quelle in essa espressamente considerate.

4.2. Il motivo è fondato.

Questa Corte, invero, ha ripetutamente affermato il principio per cui, ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 8, “l’istituto della continuazione in materia di violazioni amministrative si applica, in via generale, alla sola ipotesi in cui la pluralità di violazioni sia commessa con una sola azione od omissione, mentre nel caso esse siano commesse con più azioni od omissioni, detto istituto trova applicazione soltanto se si tratta di violazioni in materia di previdenza ed assistenza obbligatoria” (cfr. Cass. n. 27799 del 2005; Cass. n. 12659 del 2019). La L. n. 689 cit., art. 8, prevedendo l’applicabilità del cd. “cumulo giuridico” tra sanzioni nella sola ipotesi di concorso formale (omogeneo ed eterogeneo) tra le violazioni contestate, in cui con un’unica azione od omissione sono commesse violazioni plurime, non e’, dunque, invocabile con riferimento alla diversa ipotesi di “concorso materiale”, in cui una pluralità di violazioni è commessa con più azioni od omissioni. La norma, in effetti, prevede espressamente tale possibilità soltanto per le violazioni in materia di previdenza ed assistenza, né è applicabile in via analogica l’art. 81 c.p., stante la differenza morfologica tra illecito penale ed illecito amministrativo, anche alla luce del diverso atteggiarsi dei profili soggettivi relativi alle due patologie di illecito (Cass. n. 10775 del 2017; Cass. n. 21203 del 2011; Cass. n. 24655 del 2008). Questa Corte, del resto, ha ripetutamente affermato che, in tema di sanzioni amministrative, allorché siano poste in essere inequivocabilmente più condotte realizzatrici della medesima violazione, non è applicabile in via analogica l’istituto della continuazione di cui all’art. 81 c.p., comma 2, ma esclusivamente quello del concorso formale, in quanto espressamente previsto dalla L. n. 689 del 1981, art. 8, il quale richiede l’unicità dell’azione od omissione produttiva della pluralità di violazioni (Cass. n. 26434 del 2014; Cass. n. 10890 del 2018).

4.3. Ne’ appare seriamente prospettabile un dubbio di legittimità costituzionale della previsione de qua, dovendosi escludere una disparità di trattamento rispetto alle sanzioni penali, attesa la diversità dei due tipi di violazione, e dovendosi per converso ritenere che il diverso trattamento riservato alle violazioni in materia previdenziale ed assistenziale rientri nella discrezionalità del legislatore, senza quindi implicare alcuna violazione del principio di cui all’art. 3 Cost. (Cass. n. 26434 del 2014; Cass. n. 10890 del 2018): “la differenza qualitativa tra illecito penale e illecito amministrativo non consente che attraverso l’interpretazione analogica le norme di favore previste in materia penale possano essere estese alla materia degli illeciti amministrativi” per cui “l’unificazione, ai fini dell’applicazione della sanzione – nella misura massima del triplo di quella prevista per la violazione più grave – in ordine a plurime trasgressioni di diverse disposizioni o della medesima disposizione, riguarda, ai sensi dell’art. 8, comma 1, in questione, esclusivamente l’ipotesi in cui la pluralità delle violazioni discenda da un’unica condotta e, quindi, non opera nel caso di condotte distinte, quantunque collegate sul piano dell’identità di una stessa intenzione plurioffensiva (al di fuori ovviamente delle violazioni attinenti alla materia previdenziale ed assistenziale, indicate nel comma 2), nella cui ipotesi, perciò, trova applicazione il criterio generale del cumulo materiale delle sanzioni” (Cass. n. 5252 del 2011, che ha ribadito “il principio secondo cui, in ipotesi di pluralità di illeciti amministrativi in violazione della medesima norma, ciascuna infrazione è assoggettabile a sanzione, non essendo in tal caso applicabile la L. n. 689 del 1981, art. 8 (riferentesi alla diversa ipotesi in cui le violazioni siano state commesse con un’unica azione od omissione), né essendo estensibili agli illeciti amministrativi i principi in tema di continuazione riguardanti esclusivamente la materia penale, senza che, peraltro, per la mancata previsione della continuazione in “subiecta” materia, possa configurarsi un’ipotesi di illegittimità costituzionale sotto il profilo della disparità di trattamento, giacché tale disparità rispetto alle violazioni penali…trova giustificazione proprio nella diversità dei due tipi di violazione”).

4.4. La disciplina di cui all’art. 8 cit., del resto, non subisce deroghe neppure in base alla successiva previsione di cui all’art. 8-bis della medesima legge che, salve le ipotesi eccezionali del comma 2 (violazioni delle norme previdenziali ed assistenziali), ha escluso, se sussistono determinati presupposti, la computabilità delle violazioni amministrative successive alla prima solo ai fini di rendere inoperanti le ulteriori conseguenze sanzionatorie della reiterazione (Cass. n. 26434 del 2014): in assenza di qualsiasi norma a riguardo, la reiterazione non può, quindi, operare “quale elemento unificante ai fini della sanzione del precedente art. 8 a guisa di continuazione (art. 81 c.p., comma 2), e non modifica il principio generale, desumibile dal citato art. 8, secondo cui la sanzione più grave aumentata fino al triplo non può essere irrogata, salve le ipotesi eccezionali del comma 2 (violazioni delle norme previdenziali e assistenziali), che nei soli casi di concorso formale” (Cass. n. 5252 del 2011).

4.5. La Corte costituzionale, dal suo canto, ha ripetutamente dichiarato la manifesta inammissibilità della questione di legittimità costituzionale (e tale, pertanto, dev’essere dichiarata anche quella sollevata dai controricorrenti) della cit. L. n. 689, art. 8, comma 2, nella parte in cui limita la continuazione ed il conseguente cumulo giuridico delle sanzioni alle sole violazioni di leggi in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie, sul rilievo di fondo che “l’intervento invocato… deve ritenersi precluso dalla discrezionalità del legislatore nella configurazione del trattamento sanzionatorio per il concorso tra plurime violazioni e dall’assenza di soluzioni costituzionalmente obbligate” (Corte Cost. n. 171 del 2017; conf., Corte Cost. n. 270 del 2015; Corte Cost. n. 280 del 1999; Corte Cost. n. 23 del 1995; Corte Cost. n. 468 del 1989; Corte Cost. n. 421 del 1987).

4.6. Ne’ può ritenersi che, come sostengono i controricorrenti, la sanzione inflitta agli opponenti sia tale da poter essere configurata, al fine di assoggettarla alla disciplina in materia di continuazione, come sostanzialmente penale. Il rilievo dei controricorrenti, in effetti, non tiene conto del fatto che la fattispecie sanzionatoria prevista dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 258, comma 5, nel testo in vigore all’epoca dei fatti (che prevede una “sanzione amministrativa pecuniaria da duecentosessanta Euro a millecinquecentocinquanta Euro”), non è in alcun modo assimilabile a quelle contemplate dall’art. 187 ter TUF, in tema di manipolazione del mercato, su cui si è pronunciata la Corte EDU nella sentenza del 4/3/2014 (cd. caso Grande Stevens ed altri contro Italia). In effetti, premesso che, secondo la giurisprudenza comunitaria, per stabilire la sussistenza di un’accusa di natura penale, occorre impiegare (in via alternativa e non cumulativa) tre criteri (cd. criteri “Engel”), e cioè la qualificazione giuridica della misura in causa nel diritto nazionale, la natura stessa di quest’ultima nonché la natura e il grado di severità della “sanzione” (cfr., da ultimo, la sentenza della Corte EDU del 10/12/2020 nella causa “Edizioni Del Roma Società Cooperativa a R.L. e Edizioni Del Roma S.r.l. c. Italia”), risulta evidente che, nel caso in esame: – il criterio della qualificazione della sanzione nel sistema nazionale depone, come visto, inequivocabilmente nel senso della qualificazione delle sanzioni in esame come amministrative; – il criterio della natura della sanzione non offre un risultato univoco poiché, se la sanzione è senz’altro posta a tutela di interessi generali (la piena tracciabilità dell’attività di smaltimento dei rifiuti speciali non pericolosi: cfr. Cass. n. 34038 del 2019, per cui “il rigore formale della normativa ha la funzione di consentire un esatto controllo sulla natura e sulla quantità dei rifiuti trasportati e, così, di garantire una completa tracciabilità di tale attività”) ed ha una funzione non solo ripristinatoria ma anche deterrente, essa, tuttavia, risulta destinata ad una platea ristretta di possibili destinatari, e cioè i soggetti che svolgono le attività di produzione, di trasporto e di smaltimenti dei rifiuti, e ciò limita la generalità della portata della norma; – quanto all’afflittività, la cui valutazione non può essere svolta in termini totalmente astratti ma va necessariamente rapportata al contesto normativo nel quale la disposizione sanzionatoria si inserisce (Cass. n. 8046 del 2019; Cass. n. 16518 del 2020, in motiv.), non sembra potersi dubitare che, nell’ordinamento settoriale in cui si colloca la disciplina in materia di rifiuti, una sanzione pecuniaria compresa, come quella in esame, tra il minimo edittale di Euro 260,00 al massimo edittale di Euro 1.550,000, non corredata da sanzioni accessorie, non può ritenersi connotata da una afflittività così spinta da trasmodare dall’ambito amministrativo a quello penale (cfr. Cass. n. 10890 del 2018, in motiv., che, con riguardo ad una “sanzione… avente carattere esclusivamente pecuniario, e tenuto conto dell’importo contenuto della medesima (pari nel massimo edittale a Lire 3.000.000)”, ha ritenuto che “deve escludersi che ricorra un’ipotesi di illecito amministrativo avente però carattere sostanziale di illecito penale, in quanto la previsione in esame non corrisponde ad alcuno dei criteri identificativi della nozione di “pena” in senso convenzionale (c.d. criteri “Engel”) coniati dalla giurisprudenza della Corte di Strasburgo, dal momento che la violazione commessa non ha natura penale nel diritto interno, non ha funzione punitiva-deterrente nei confronti dell’autore dell’illecito ed è priva del connotato di “speciale” gravità necessario per assimilarla, sul piano della afflittività, a una sanzione penale”).

4.7. E neppure rileva, infine, che, a far data dal 26/9/2020, del D.Lgs. n. 152, art. 258, comma 9 (Ndr: testo originale non comprensibile) nel testo introdotto dal D.Lgs. n. 116 del 2020, art. 4, abbia previsto che “chi con un’azione od omissione viola diverse disposizioni di cui al presente articolo, ovvero commette più violazioni della stessa disposizione, soggiace alla sanzione amministrativa prevista per la violazione più grave, aumentata sino al doppio” e che “la stessa sanzione si applica a chi con più azioni od omissioni, esecutive di un medesimo disegno, commette anche in tempi diversi più violazioni della stessa o di diverse disposizioni di cui al presente articolo” e che il comma 13 dello stesso articolo, così come introdotto dal D.Lgs. n. 116 cit., abbia stabilito che “le sanzioni di cui al presente articolo, conseguenti alla trasmissione o all’annotazione di dati incompleti o inesatti sono applicate solo nell’ipotesi in cui i dati siano rilevanti ai fini della tracciabilità, con esclusione degli errori materiali e violazioni formali” e che “in caso di dati incompleti o inesatti rilevanti ai fini della tracciabilità di tipo seriale, si applica una sola sanzione aumentata fino al triplo”. Nessun dubbio, in linea di principio, può sussistere in ordine al dovere della Corte di cassazione di fare applicazione dello jus superveniens più favorevole nei casi in cui la statuizione della sentenza di secondo grado in punto di misura della sanzione (o, come nella specie, dei criteri per la sua determinazione) abbia formato oggetto di specifico motivo di ricorso per cassazione: in tal caso, infatti, poiché la statuizione sulla misura (o i criteri di determinazione) della pena viene specificamente censurata in sede di legittimità, tale censura investe la Corte di cassazione del potere-dovere di verificare la relativa conformità alla legge anche sotto profili diversi da quelli dedotti nel mezzo di gravame (cfr. Cass. n. 4522 del 2022). In materia di sanzioni amministrative, pertanto, le norme sopravvenute nella pendenza del giudizio di legittimità che dispongano un trattamento sanzionatorio più favorevole devono essere applicate anche d’ufficio dalla Corte di cassazione: a condizione, tuttavia, che si tratti (a differenza di quanto accade nel caso in esame) di norme dichiaratamente retroattive (e tali, in effetti, non sono, in difetto di un’espressa statuizione in tal senso, quelle sopra trascritte) ovvero (come visto) di sanzioni amministrative a carattere sostanzialmente penale. Al di fuori di tali ipotesi, infatti, non opera, in materia di sanzioni amministrative, il principio della retroattività della lex mitior.

4.8. La Corte costituzionale, del resto, con la sentenza n. 193 del 2016, ha giudicato non fondata una questione di legittimità costituzionale della L. n. 689 del 1981, art. 1, per contrasto con l’art. 3 Cost. e art. 117 Cost., comma 1, anche in relazione agli artt. 6 e 7 CEDU, nella parte in cui non prevede una regola generale di applicazione della legge successiva più favorevole agli autori degli illeciti amministrativi, così confermando che, a fronte di illecito amministrativo che non abbia (come quello in esame) natura sostanzialmente penale, non è invocabile il principio del favor rei e, tramite esso, l’applicazione della normativa sopravvenuta più favorevole (Cass. n. 17209 del 2020, in motiv.). La Corte, invero, ha sul punto affermato che, in materia di sanzioni amministrative non è dato rinvenire un vincolo costituzionale nel senso dell’applicazione in ogni caso della legge successiva più favorevole, rientrando nella discrezionalità del legislatore (nel rispetto del limite della ragionevolezza) modulare le proprie determinazioni secondo criteri di maggiore o minore rigore in base alle materie oggetto di disciplina (ordinanze n. 245 del 2003, n. 501 e n. 140 del 2002). Quanto, poi, al differente e più favorevole trattamento riservato dal legislatore ad alcune sanzioni, ad esempio a quelle tributarie e valutarie, esso trova fondamento nelle peculiarità che caratterizzano le rispettive materie e non si presta, conseguentemente, a trasformarsi da eccezione a regola (ordinanze n. 245 del 2003, n. 501 e n. 140 del 2002). Tale impostazione, ha aggiunto la Corte, risulta coerente non solo con il principio generale dell’irretroattività della legge (art. 11 preleggi), ma anche con il divieto di applicazione analogica di norme di carattere eccezionale (art. 14 preleggi): comprese, evidentemente, quelle che, a norma della cit. L. n. 689, art. 8, intitolato “più violazioni di disposizioni che prevedono sanzioni amministrative”, prevedono che solo per le sole violazioni in materia di previdenza ed assistenza obbligatorie (ed in via derogatoria rispetto alla regola generale del cumulo materiale) si applichi il trattamento di maggior favore del cumulo giuridico (e cioè la sanzione per la violazione più grave, aumentata fino al triplo) anche per le ipotesi di concorso materiale eterogeneo. Del resto, ha proseguito la Corte, la scelta legislativa dell’applicabilità della lex mitior limitatamente ad alcuni settori dell’ordinamento non può ritenersi in sé irragionevole. A questo riguardo, va rilevato che la qualificazione degli illeciti, in particolare di quelli sanzionati in via amministrativa, in quanto espressione della discrezionalità legislativa si riflette sulla natura contingente e storicamente connotata dei relativi precetti. Essa giustifica, quindi, sul piano sistematico, la pretesa di potenziare l’effetto preventivo della comminatoria, eliminando per il trasgressore ogni aspettativa di evitare la sanzione grazie a possibili mutamenti legislativi. Il limitato riconoscimento della retroattività in mitius, circoscritto ad alcuni settori dell’ordinamento, risponde, quindi, ha concluso la Corte, a scelte di politica legislativa in ordine all’efficacia dissuasiva della sanzione, modulate in funzione della natura degli interessi tutelati. Tali scelte costituiscono espressione della discrezionalità del legislatore nel configurare il trattamento sanzionatorio per gli illeciti amministrativi e risultano quindi sindacabili dalla Corte costituzionale solo laddove esse trasmodino (ma non è questo il caso) nella manifesta irragionevolezza o nell’arbitrio, come avviene a fronte di sperequazioni sanzionatorie tra fattispecie omogenee non sorrette da alcuna ragionevole giustificazione.

5. Il secondo motivo, che lamenta la ritenuta sussistenza del medesimo disegno alla base delle plurime violazioni, risulta, evidentemente, assorbito.

6. Il controricorso, al pari del ricorso incidentale che contiene, è ammissibile: – intanto, perché è ammissibile, pur se privo della sottoscrizione autografa del difensore, il ricorso per cassazione (e, quindi, il controricorso) sottoscritto con firma digitale allorché l’originario ricorso, in formato analogico, e la procura che ad esso accede, entrambi scansionati e firmati digitalmente, siano stati notificati a mezzo posta elettronica certificata e copia cartacea degli stessi, della relata di notifica, del messaggio di posta elettronica certificata e delle ricevute di accettazione e consegna risultino, come nel caso in esame, depositati in cancelleria, unitamente all’attestazione di conformità sottoscritta con firma autografa: tali dette formalità, invero, conferiscono al ricorso (e al controricorso) depositato in cancelleria prova della sua autenticità e provenienza, essendo irrilevante l’assenza di sottoscrizione autografa dell’originario cartaceo e risultando la provenienza dal difensore munito di procura comunque attestata sia dalla procura che ad esso accede sia dalla firma digitale apposta al documento notificato per via telematica (cfr. Cass. n. 19434 del 2019, Cass. n. 23951 del 2020); in secondo luogo, perché la mancata certificazione, da parte del difensore, dell’autografia della firma del ricorrente, apposta sulla procura speciale in calce o a margine del ricorso per cassazione (e quindi, del controricorso), costituisce mera irregolarità, che non comporta la nullità della procura ad litem, perché tale nullità non è comminata dalla legge, né detta formalità incide sui requisiti indispensabili per il raggiungimento dello scopo dell’atto, individuabile nella formazione del rapporto processuale attraverso la costituzione in giudizio del procuratore nominato (Cass. n. 34748 del 2019), salvo che la controparte (ma ciò, nella specie, non è accaduto) non contesti, con valide e specifiche ragioni e prove, l’autografia della firma non autenticata (Cass. n. 27774 del 2011).

7. Con il primo motivo di ricorso incidentale, i controricorrenti, lamentando la violazione e la falsa applicazione degli artt. 137 ss e 156 c.p.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonché l’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui non ha considerato che le ordinanze ingiunzione erano state notificate non all’indirizzo dei trasgressori ma presso lo studio del difensore e che i trasgressori avevano eletto domicilio presso quest’ultimo solo per la fase amministrativa e non anche per quella giudiziale, tanto più che l’elezione di domicilio, della quale manca la prova, è illegittima ai fini sanzionatori. Tale notificazione, del resto, hanno aggiunto i controricorrenti, non ha raggiunto il suo scopo poiché non l’opposizione non è stata esaustiva ed, in ogni caso, non ha impedito, avendo operato ex nunc, e cioè al momento del deposito del ricorso, la decorrenza del termine quinquennale di prescrizione.

8. Il motivo è infondato. Escluso, invero, ogni rilievo alle questioni (come la mancanza di prova dell’elezione di domicilio) delle quali la sentenza impugnata non tratta, rileva la Corte che non può essere contestata la facoltà per l’Amministrazione di provvedere alla notifica dell’ordinanza anche presso il domicilio eletto nella fase che ha preceduto l’adozione del provvedimento opposto, alla luce del principio affermato da questa Corte (Cass. n. 18812 del 2014; Cass. n. 28829 del 2020, in motiv.) secondo il quale l’elezione di domicilio effettuata ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 18, nel procedimento amministrativo che prelude all’emanazione dell’ordinanza ingiunzione, sebbene non produca effetti nel successivo procedimento contenzioso, nel silenzio della legge, dev’essere ricondotta all’ambito di disciplina di cui all’art. 141 c.p.c., e non a quella di cui all’art. 170 c.p.c., con la conseguenza che il domicilio eletto rappresenta un luogo di possibile notificazione dell’ordinanza-ingiunzione come scelta facoltativa e non obbligatoria.

9. Con il secondo motivo di ricorso incidentale, i controricorrenti, lamentando la violazione e la falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, artt. 18 e 28 e della L. n. 241 del 1990, art. 2, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonché l’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha rigettato le eccezioni di prescrizione della pretesa sanzionatoria e di tardività dell’ordinanza ingiunzione, senza, tuttavia, considerare che: – a fronte di fatti risalenti al 2009, le ordinanze ingiunzione sono state emesse soltanto nel mese di luglio del 2015, vale a dire, in mancanza tra i documenti di causa di atti della Città Metropolitana ad efficacia interruttiva, oltre la scadenza del termine di cinque anni previsto dalla cit. L. n. 689, art. 28; – i provvedimenti ingiuntivi sono tardivi per decorso del termine perentorio di novanta giorni fissato dalla L. n. 241 del 1990, art. 2, per la conclusione del procedimento amministrativo.

10. Il motivo è infondato. La corte d’appello, dopo aver accertato che, nel marzo del 2011, l’Arpat aveva provveduto alla contestazione delle violazioni (v. la sentenza impugnata, p. 2), ha correttamente ritenuto, sulla base di tale apprezzamento fattuale, non censurato per l’omesso esame di fatti decisivi emergenti dagli atti del giudizio, che tale atto ha avuto l’effetto di interrompere il decorso del termine quinquennale di prescrizione. In effetti, premesso che la L. n. 689 del 1981, non contiene l’espressa previsione del termine per l’emissione dell’ordinanza-ingiunzione e che a tal fine trova applicazione il termine quinquennale di cui alla cit. L. n. 689, art. 28, ancorché detta norma faccia letteralmente riferimento al termine per riscuotere le somme dovute per le violazioni (Cass. n. 17526 del 2009; conf., Cass. n. 21706 del 2018), rileva la Corte che, in tema di sanzioni amministrative, la notifica al trasgressore del processo verbale di accertamento della infrazione è idonea a costituire in mora il debitore ai sensi dell’art. 2943 c.c., atteso che ogni atto del procedimento previsto dalla legge per l’accertamento della violazione e per l’irrogazione della sanzione ha la funzione di far valere il diritto dell’amministrazione alla riscossione della pena pecuniaria e costituisce esercizio della pretesa sanzionatoria (Cass. n. 14886 del 2016; Cass. n. 28238 del 2008). Quanto al resto, non può che ribadirsi che la disciplina generale in tema di sanzioni amministrative, come delineata dalla L. n. 689 del 1981, non fissa il termine per l’emissione dell’ordinanza-ingiunzione, senza, peraltro, che a tale mancanza possa ovviarsi applicando il termine, peraltro non perentorio, previsto per la conclusione del procedimento amministrativo dalla L. n. 241 del 1990, art. 2 (originariamente trenta giorni, poi novanta a seguito della modifica apportata dal D.L. n. 35 del 2005, conv. dalla L. n. 80 del 2005), in quanto la L. n. 689 cit., costituisce un sistema di norme organico e compiuto e delinea un procedimento di carattere contenzioso in sede amministrativa, scandito in fasi i cui tempi sono regolati in modo da non consentire, anche nell’interesse dell’incolpato, il rispetto di un termine così breve (Cass. n. 21706 del 2018; conf., Cass. n. 17526 del 2009).

11. Con il terzo motivo di ricorso incidentale, i controricorrenti, lamentando la violazione e la falsa applicazione della L. n. 689 del 1981, art. 3 e degli artt. 1392 e 1703 c.c., in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 3, nonché l’omesso esame di fatto decisivo per il giudizio che è stato oggetto di discussione tra le parti, in relazione all’art. 360 c.p.c., n. 5, hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello ha ritenuto la sussistenza della colpevolezza dei trasgressori pur a fronte di una delega scritta, senza, tuttavia, considerare che, a fronte della delega scritta del produttore e ferma restando la responsabilità dello stesso, non era addebitabile al delegato alcuna negligenza per aver operato in nome e per conto del delegante. D’altra parte, hanno aggiunto i controricorrenti, il formulario può essere compilato anche dal trasportatore e che la norma non vieta che la sua sottoscrizione possa essere effettuata anche dal delegato. In ogni caso, in mancanza di una base normativa definita, non sussiste alcuna colpa attesa l’ignoranza inevitabile.

12.1. Il motivo è in parte inammissibile e per il resto infondato. I controricorrenti, in effetti, non hanno censurato la sentenza impugnata nella parte in cui la corte d’appello, dopo aver affermato, in diritto, che “al trasportatore non può essere delegato il compito proprio del produttore del rifiuto”, ha rilevato, con apprezzamento in fatto rimasto del tutto incensurato, che, in ogni caso, “la delega aveva ad oggetto (solo) la compilazione e non (anche) la sottoscrizione” dei formulari, che, pertanto, ad onta di quanto ora sostenuto dai controricorrenti, rimaneva in capo al produttore, e cioè Cavet, ed era, in ogni caso, “conferita alla sola srl V. e non ai vari sottoscrittori che si sono succeduti”. Ed e’, invece, noto che, ove la decisione impugnata si fondi su di una pluralità di ragioni, tra loro distinte ed autonome, ciascuna delle quali logicamente e giuridicamente sufficiente a sorreggerla, è inammissibile il ricorso che non formuli specifiche doglianze avverso una di tali rationes decidendi, neppure sotto il profilo del vizio di motivazione (Cass. SU n. 7931 del 2013).

12.2. D’altra parte, il D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 259, in tema di obblighi di comunicazione e di tenuta dei registri obbligatori e dei formulari, nella formulazione applicabile ratione temporis, al comma 4, sanziona chiunque “effettua il trasporto di rifiuti senza il formulario di cui all’art. 193, ovvero indica nel formulario stesso dati incompleti o inesatti”; l’art. 259, comma 5, stabilendo una sanzione in misura ridotta, contempla dapprima l’ipotesi in cui siano formalmente incomplete o inesatte le indicazioni di cui ai commi 1 e 2, quanto alla prescritta comunicazione o alla tenuta del registro di carico e scarico, e poi la fattispecie in cui le indicazioni di cui al comma 4, inerenti al formulario, siano formalmente incomplete o inesatte, ma contengano comunque tutti gli elementi per ricostruire le informazioni dovute per legge. Nel formulario di identificazione di cui al cit. D.Lgs. n. 152, art. 193, che deve accompagnare i rifiuti durante il trasporto, devono risultare “almeno i seguenti dati”: a) nome ed indirizzo del produttore e del detentore; b) origine, tipologia e quantità del rifiuto; c) impianto di destinazione; d) data e percorso dell’istradamento; e) nome ed indirizzo del destinatario. La norma, al comma 2, nel testo in vigore ratione temporis, aggiunge che “il formulario di identificazione di cui al comma 1 deve essere redatto in quattro esemplari, compilato, datato e firmato dal produttore o dal detentore dei rifiuti e controfirmato dal trasportatore. Una copia del formulario deve rimanere presso il produttore o il detentore e le altre tre, controfirmate e datate in arrivo dal destinatario, sono acquisite una dal destinatario e due dal trasportatore, che provvede a trasmetterne una al detentore. Le copie del formulario devono essere conservate per cinque anni”.

12.3. I formulari di identificazione rifiuti, contenuti nel D.M. 10 aprile 1998, n. 145 (v. l’allegato B), che continuano ad applicarsi (v. dell’art. 193 cit., comma 5), prescrivono, invero, che lo stesso debba essere distintamente sottoscritto sia dal produttore/detentore, che dal trasportatore e, infine, dal destinatario. L’omessa sottoscrizione, nel formulario di identificazione, del produttore dei rifiuti, elude, pertanto, il rigore formale della normativa la quale, pertanto, non consente, come invece pretendono i controricorrenti, la sua sostituzione con quella di un delegato, specie se, come nel caso in esame, si tratti del trasportatore o del destinatario dei rifiuti, trattandosi di una norma che ha la funzione di garantire non solo una completa tracciabilità (oggettiva e soggettiva) di tale attività ma anche di assicurare la piena responsabilizzazione dei soggetti coinvolti nella gestione del ciclo dei rifiuti, come, in effetti, è previsto dal cit. D.Lgs. n. 152, art. 178, comma 3, a norma del quale “la gestione dei rifiuti è effettuata conformemente ai principi di precauzione, di prevenzione, di proporzionalità, di responsabilizzazione e di cooperazione di tutti i soggetti coinvolti nella produzione, nella distribuzione, nell’utilizzo e nel consumo di beni da cui originano i rifiuti, nel rispetto dei principi dell’ordinamento nazionale e comunitario, con particolare riferimento al principio comunitario “chi inquina paga”. A tal fine la gestione dei rifiuti è effettuata secondo criteri di efficacia, efficienza, economicità e trasparenza”.

12.4. Per il resto, il principio posto dalla L. n. 689 del 1981, art. 3 (secondo il quale, per le violazioni sanzionate in via amministrativa, è richiesta la coscienza e volontà della condotta attiva od omissiva, sia essa dolosa o colposa) postula una presunzione di colpa in ordine al fatto vietato a carico di colui che lo abbia commesso, non essendo necessaria la concreta dimostrazione del dolo o della colpa in capo all’agente, sul quale grava, pertanto, l’onere della dimostrazione di aver agito senza colpa. L’esimente della buona fede, intesa come errore sulla liceità del fatto (applicabile anche in tema di illecito amministrativo disciplinato dalla citata L. n. 689 del 1981), assume, tuttavia, rilievo solo in presenza di elementi positivi idonei ad ingenerare, nell’autore della violazione, il convincimento della liceità del suo operato, purché tale errore sia incolpevole ed inevitabile siccome determinato da un elemento positivo (del quale, tuttavia, non emerge in alcun modo l’evidenza istruttoria) idoneo ad indurlo in errore ed estraneo alla sua condotta, non ovviabile con ordinaria diligenza o prudenza (Cass. n. 11012 del 2006). In tema di sanzioni amministrative, in effetti, con riferimento alla sussistenza del relativo elemento soggettivo, ai sensi della L. n. 689 del 1981, art. 3, l’errore sulla illiceità del fatto, per essere incolpevole, deve trovare causa in un fatto scusabile, situazione questa che se può rinvenirsi in presenza di atti o circostanze positive tali da ingenerare una certa convinzione sul significato della norma, certamente non può essere identificata nella mera asserita incertezza del dettato normativo, specie se causata da una errata soggettiva percezione dello stesso, trattandosi di condizione sempre superabile, anche mediante una richiesta di informazioni alla P.A.. E ciò tanto più ove l’ignoranza interessi un operatore professionale, cioè un soggetto nei cui confronti il dovere di conoscenza e di informazione in ordine ai limiti e condizioni del proprio operare è particolarmente intenso, con l’effetto che la sua condotta, sotto il profilo considerato, dovrebbe semmai essere valutata con maggior rigore (Cass. n. 21779 del 2006). Deve, pertanto, escludersi l’ignoranza inevitabile (nei sensi di cui alla sentenza della Corte Cost. n. 364 del 1988, applicabile in materia di sanzioni amministrative in base alla L. n. 689 del 1981, art. 3) delle norme previste dal D.Lgs. n. 152 del 2006, art. 193, la cui violazione è stata contestata agli opponenti, atteso che la colpa, come requisito sufficiente ad integrare l’elemento soggettivo dell’illecito amministrativo, è normalmente presunta e l’eventuale ignoranza della illiceità della condotta ovvero l’errore sulla liceità del fatto devono risultare inevitabili ed incolpevoli, secondo i canoni della normale diligenza, occorrendo, a tal fine, che siano stati indotti da elementi positivi esterni o da informazioni ed atti provenienti da soggetti qualificati e dovendosi tenere conto, in concreto, dei doveri di conoscenza del soggetto che adduca l’assenza di colpa, sul quale, in relazione all’attività professionalmente svolta, in un settore regolato da particolari prescrizioni di legge (come è senz’altro la produzione, il trasporto o lo smaltimento di rifiuti speciali), gravano obblighi specifici di informazione sicuramente maggiori dell’obbligo generico gravante sulla generalità dei cittadini (cfr. Cass. n. 23621 del 2006; Cass. n. 6707 del 2011).

13. Il ricorso incidentale e’, quindi, infondato e dev’essere, quindi, rigettato.

14. Il ricorso principale, invece, dev’essere accolto, limitatamente al primo motivo, e la sentenza impugnata, per l’effetto, cassata con rinvio, per un nuovo esame, alla Corte d’appello di Firenze che, in differente composizione, provvederà anche a liquidare le spese del presente giudizio.

15. La Corte dà atto, ai sensi del D.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dalla L. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti incidentali, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

P.Q.M.

La Corte così provvede: accoglie il primo motivo del ricorso principale e, per l’effetto, cassa la sentenza impugnata con rinvio, per un nuovo esame, alla Corte d’appello di Firenze che, in differente composizione, provvederà anche a liquidare le spese del presente giudizio; dà atto, ai sensi delD.P.R. n. 115 del 2002, art. 13, comma 1 quater, nel testo introdotto dallaL. n. 228 del 2012, art. 1, comma 17, della sussistenza dei presupposti processuali per il versamento, da parte dei ricorrenti incidentali, di un ulteriore importo a titolo di contributo unificato pari a quello previsto per il ricorso, a norma dello stesso art. 13, comma 1-bis, se dovuto.

Così deciso in Roma, nella Camera di consiglio della Sezione Seconda Civile, il 16 marzo 2022.

Depositato in Cancelleria il 14 aprile 2022