IL REATO DI TORTURA VERTICALE QUALE ARCHITRAVE DELLO STATO DI DIRITTO
Maddalena Claudia Del Re
Abstract
The crime of torture, introduced in 2017 by Law No. 110 in the Italian legal system, applies an absolute and mandatory prohibition of torture in order to protect human dignity. The permanence in the Italian Criminal Code of the crime of torture referred to in Article 613 bis, is questioned by a Draft Law calling for its abrogation. In this paper, we shall examine the normative references supporting the need for the codification of the crime of torture, such as the UN Convention – CAT, the European Convention on Human Rights, and the domestic source found in Article 13 paragraph 4 of the Italian Constitution. Prior to 2017, Italy lacked adequate technical-legal instruments to protect the individual against the perversions of State power, as enhanced by the trials that followed the so-called ‘Genoa G8 events’. Despite the obvious gap in protection, sanctioned also by the ECHR, the approval process of Law 110/2017 was slow and difficult due to the opposition of some political groups that objected basing their arguments essencially on the fear of a weakening effect of the Law on State security as a consequence of the codification of the crime. The judgment of the Court of Siena No. 211/2023 and the judgment of the Court of Cassation No. 4557/2024, establishes the role of the crime of torture as the cornerstone of the Rule of Law. The former by focusing its reasoning on the border between the legitimate use of force by the State and the abuse of that power. The latter, reaffirming the obligation to protect human dignity even beyond national borders by confirming the sentence of condemnation of an Italian private ship captain for a group refoulement in Libya.
Il reato di tortura, introdotto nel 2017 con la Legge n. 110 in Italia, recepisce un divieto assoluto e inderogabile a tutela della dignità umana. La permanenza nel codice penale italiano del delitto di cui all’art. 613 bis è posta in discussione da una PdL che ne prevede l’abrogazione. Nel presente scritto, si esamineranno i riferimenti normativi a sostegno della necessità della codificazione del reato quali la Convenzione ONU – CAT, la Convenzione europea dei diritti dell’uomo e la fonte interna rinvenibile nell’art. 13 comma 4 della Costituzione italiana. Prima del 2017, l’Italia era sprovvista di strumenti tecnico -giuridici idonei a proteggere la persona nei confronti delle perversioni del potere statale, come evidenziato dai processi che seguirono i cosiddetti “fatti del G8 di Genova”. Nonostante la palese lacuna di tutela, sancita anche dalla CEDU, l’iter approvativo della L. 110/2017 fu lento e difficoltoso per l’opposizione di talune forze politiche che ponevano obiezioni argomentate per lo più sul timore di un indebolimento alla sicurezza dello Stato quale conseguenza della codificazione del delitto. La sentenza del Tribunale di Siena n. 211/2023 e la sentenza della Corte di Cassazione 4557/2024, sanciscono il ruolo del delitto di tortura quale architrave dello stato di diritto. La prima centrando le motivazioni sul confine tra uso legittimo della forza da parte dello Stato e abuso di tale potere. La seconda, ribadendo l’obbligo della tutela della dignità umana anche fuori dai confini nazionali, confermando la condanna ad un Comandante di nave privata italiana per un respingimento collettivo in Libia.
SOMMARIO:
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Introduzione.
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La Convenzione ONU contro la tortura
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L’art. 13 comma 4 della Costituzione italiana
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l’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo – La condotta materiale della tortura nelle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo
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Il caso G8 e le condanne CEDU all’Italia; il caso Cestaro vs Italy
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Il reato di tortura in Italia
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Progetto di legge di abolizione del reato di tortura
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Le argomentazioni contrarie alla codificazione del reato di tortura
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I torture Memos e la teoria utilitaristica
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La difesa dello Stato di diritto verso l’interno. La sentenza 211/2023 del Tribunale di Siena
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La difesa dello Stato di diritto verso l’esterno. La sentenza 4557/2024 della Corte di Cassazione
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Conclusioni
1. Introduzione
Michel Foucault apre il suo saggio “Sorvegliare e punire”, con la descrizione, di grande impatto sul lettore, del supplizio del 2 marzo 1757 inflitto al condannato Robert François Damiens, parricida; supplizio pianificato con accuratezza nella sua complessa materiale mescolanza di fuoco, di zolfo, piombo fuso, pece bollente, attanagliamenti, e, infine, sembramento1.
A meno di un secolo dal crudele trattamento imposto al povero Damiens, tra la fine del XVIII secolo e l’inizio del XIX, nasce una nuova era del diritto penale europeo con provvedimenti legislativi che aboliscono la tortura e con la redazione dei cosiddetti codici moderni.
Già nel 1740 e nel 1754 Federico di Prussia aveva adottato due provvedimenti legislativi, con i quali si vietava la tortura giudiziaria, praticata per raccogliere informazioni e confessioni, ma non quella punitiva, esemplare. L’Austria abolisce la tortura nel 1776, il granducato di Toscana nel 1786, il Regno di Napoli nel 1789; progressivamente si allineano tutti gli Stati europei, tanto da risultare sostanzialmente proibita ovunque nei primi anni dell’Ottocento2.
“In pochi decenni il corpo suppliziato, squartato, amputato, simbolicamente marchiato sul viso o sulla spalla, esposto vivo o morto, dato in spettacolo è scomparso. È scomparso il corpo come principale bersaglio della repressione penale”3.
Il corpo del recluso, del prigioniero, del trattenuto diviene intangibile. La pena colpisce i “diritti astratti” dell’imputato e del condannato, in primis il diritto alla libertà.
Nello stesso tempo, a fronte della complessa evoluzione storica della teorizzazione e attuazione legislativa della intangibilità del corpo, sopravvive, sotterraneamente, un fondo della giustizia penale che Foucault definisce suppliziante, per il quale “è giusto che un condannato soffra fisicamente più degli altri uomini”4.
Ancora oggi, si può affermare che, sebbene la tortura sia severamente bandita dagli Stati, essa è tuttavia largamente utilizzata di fatto, sia nel quadro di processi penali sia, e soprattutto, al di fuori di ogni attività giudiziaria5.
2. La Convenzione ONU contro la tortura
L’obbligo di sanzionare penalmente la condotta di tortura discende direttamente dalle norme di diritto internazionale6 a tutela della dignità della vita umana e della persona.
È opportuno partire dalla descrizione, cogente nel nostro Ordinamento, fornita dall’art. 1 dalla Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, disumani o degradanti (CAT), adottata dall’Assemblea Generale delle Nazioni Unite con la Risoluzione n. 39/46 del 10 dicembre 1984, ratificata e resa esecutiva in Italia con la L. 3 novembre 1988, n. 498: “Il termine «tortura» designa qualsiasi atto con il quale sono inflitti a una persona dolore o sofferenze acute, fisiche o psichiche, segnatamente al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidirla od esercitare pressioni su di lei o di intimidire od esercitare pressioni su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze derivanti unicamente da sanzioni legittime, ad esse inerenti o da esse provocate”.
Il divieto è assoluto e inderogabile. Gli Stati devono assumere provvedimenti legislativi efficaci per impedire atti di tortura nel proprio territorio. Nessuna circostanza eccezionale può giustificare la tortura. Il soggetto agente non può invocare l’ordine di un superiore o di un’autorità pubblica per scriminare la condotta maltrattante.
L’evento della condotta viene connotato dall’aggettivo “acute” riferite alle sofferenze e al dolore; il dolo previsto è specifico e l’intenzionalità dell’inflizione dei severi supplizi deve essere esercitata nei confronti di una vittima in condizione di soggezione e impotenza, in particolar modo nelle istituzioni totali, quali carceri, istituti psichiatrici, ospedali, caserme.
La CAT disegna un reato proprio, indicando quali autori necessari i funzionari pubblici o qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale o sotto sua istigazione.
La configurazione del crimine di tortura, quale reato proprio, nasce dalla principale esigenza di reprimere gli abusi commessi nell’ambito dell’esercizio del potere da parte dell’autorità statale la quale, in accordo con le norme del diritto internazionale, risponde in prima persona anche per le condotte realizzate dai propri funzionari7.
2. L’art. 13 comma 4 della Costituzione italiana
D’altra parte, ben prima della ratifica della CAT, i nostri padri e le nostre madri costituenti sentirono la necessità di introdurre una formula prescrittiva di incriminazione, l’unica presente nella Carta costituzionale, delle condotte rapportabili alla fattispecie della tortura, così come questa veniva riconosciuta universalmente.
Il comma 4 dell’art. 13 Cost. prevede che sia punita ogni violenza fisica e morale sulle persone comunque sottoposte a restrizione di libertà8.
Nei lavori preparatori, nella seduta della prima sottocommissione, del 17 settembre 1946, dal dibattito tra i componenti, emerge unanime la forte esigenza di tutelare il cittadino privato della libertà personale dalle perversioni del potere statuale.
D’altra parte, molti eletti all’Assemblea costituente erano stati vittime di torture, o ne avevano conoscenza, in quanto oppositori al regime nazifascista9.
La iniziale proposta del relatore La Pira: “Ogni forma di rigore e di coazione, che non sia necessaria per venire in possesso di una persona o per mantenerla in stato di detenzione, così come ogni pressione morale o brutalità fisica specialmente durante l’interrogatorio, è punita”, venne limata terminologicamente, verso il testo attuale, da Aldo Moro e Palmiro Togliatti10.
In particolare, Togliatti proponeva l’asciutta formula: “È proibita e viene punita dalla legge ogni forma di violenza contro ogni cittadino arrestato o fermato”; Moro propose l’estensione della proibizione suggerita da Togliatti, anche ai detenuti, affermando: “è necessario proibire quelle ulteriori limitazioni della libertà personale che si concretano nella brutalità fisica contro le persone in stato di detenzione”11.
3. L’art. 3 della Convenzione Europea dei Diritti dell’Uomo – La condotta materiale della tortura nelle sentenze della Corte europea dei diritti dell’uomo
Oltre alla Convenzione dell’ONU – CAT, la Convenzione di Roma del 1950 per la Salvaguardia dei Diritti dell’Uomo e delle Libertà Fondamentali ha costituito e costituisce il riferimento normativo rilevante e imprescindibile per gli Stati europei aderenti al Consiglio d’Europa.
L’art. 3 della Convenzione proibisce inderogabilmente la tortura con una formula assoluta ma generica: “Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti”.
Negli anni, la Corte Europea dei Diritti dell’Uomo, investita di numerosissimi ricorsi per la violazione del citato art. 3 della Convenzione, ha svolto un lavoro di sempre più accurata definizione della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti.
La condotta materiale posta in essere nella pratica della tortura è stata oggetto di numerose pronunce volte a definire, con la maggiore determinatezza possibile, il grado di violenza necessario per poter sussumere il caso sottoposto alla Corte nell’alveo della condotta di tortura.
Esaminando la giurisprudenza, ci si trova, davanti a oscillazioni interpretative da parte della CEDU, in particolare in merito al dirimente punctum dolens della “soglia della sofferenza umana” considerata necessaria a integrare la condotta criminosa della tortura e dei trattamenti inumani e degradanti12.
La “soglia minima di gravità” è stata valutata dalla Corte in concreto, tenendo conto, minuziosamente, delle circostanze di estrinsecazione delle azioni od omissioni, da un lato, e delle caratteristiche soggettive della vittima, dall’altro.
Con tale metodologia, la Corte è giunta a circoscrivere tre macroaree di condotte, coordinate al testo della norma di cui all’art. 3 della Carta europea dei diritti dell’uomo: a) il trattamento degradante, nei casi di gravità minima del dolore; b) il trattamento inumano nei casi di gravità intermedia; c) la tortura, nei casi di intensa inflizione della sofferenza.
Negli anni, la CEDU ha sempre più ampliato l’area della tortura, qualificando come atti di tortura, per l’appunto, condotte che precedentemente erano state, viceversa, inquadrate nei trattamenti inumani o degradanti13.
Il confine tra atti leciti, atti inumani e degradanti e tortura, pertanto, non può essere definito statico bensì mobile, in relazione alla mutata e crescente riprovazione sociale nei confronti di violazioni dei diritti umani.
A titolo esemplificato sulla questione, si possono assumere quali punti di riferimento per dimostrare l’abbassamento della soglia della sofferenza umana, e il conseguente ampliamento delle condotte riconducibili al crimine della tortura, due sentenze significative della CEDU, all’interno della copiosa produzione della Corte, distanti fra loro negli anni.
Nel 1978, nella procedura Irlanda verso Regno Unito14, la CEDU si pronunciò, con un noto provvedimento, sulle famigerate cosiddette “cinque tecniche di interrogatorio” cui erano sottoposti i detenuti nelle prigioni dell’Irlanda del nord.
I prigionieri, si lamentava da parte dei ricorrenti, venivano “privati a lungo di cibo e acqua; oppure privati di sonno; tenuti in piedi per ore; incappucciati, tranne che durante l’interrogatorio; o erano frastornati, prima di essere interrogati, da suoni e rumori per disorientarli (spesso due o più tecniche venivano utilizzate contemporaneamente o una dopo l’altra contro la stessa vittima)”15.
Nonostante la Commissione europea dei diritti dell’uomo16, ancora operativa all’epoca, avesse qualificato tali atti come tortura, la Corte statuì che i fatti esposti dai ricorrenti rappresentavano un trattamento disumano e degradante “perché non provocarono quelle sofferenze di particolare intensità e crudeltà che il termine tortura implica”17.
Il 28 settembre 2015, la Grande Camera della CEDU ha condannato il Belgio ritenendo che gli schiaffi inferti dalla polizia a due fratelli, di cui uno minorenne, trattenuti presso un commissariato, avessero integrato un trattamento degradante ai sensi della Convenzione18.
La Corte, nella sentenza sopra indicata, ha richiamato la propria giurisprudenza per la quale ogni ricorso all’uso della forza da parte delle autorità di polizia nei confronti di un individuo, che non si renda strettamente necessario (police brutality), svilisce la dignità umana.
Il livello minimo di gravità per qualificare una condotta quale trattamento degradante, si configura come particolarmente basso nella pronuncia in commento, la quale ai §§ 87, 105 e 106, argomenta che uno schiaffo, per quanto isolato, non premeditato e privo di effetti gravi o duraturi sul corpo – può essere percepito come un’umiliazione dalla persona che lo riceve; lo schiaffo sottolinea quella relazione di superiorità / inferiorità che per definizione caratterizza il rapporto tra l’autorità e l’individuo in custodia e suscita un senso di arbitrarietà, ingiustizia e impotenza nella vittima.
4. Il caso G8 e le condanne CEDU all’Italia; il caso Cestaro vs Italy
Nel nostro Paese, la vicenda del G8 di Genova segnò una profonda ferita nella opinione pubblica italiana disvelando, tra l’altro, il vuoto di tutela nell’Ordinamento della persona sottoposta alla brutalità delle Forze dell’Ordine.
I cosiddetti “fatti” diedero origine a due filoni di procedimenti penali denominati, giornalisticamente, processo “Scuola Diaz” e processo “Caserma Bolzaneto”.
In estrema sintesi.
Nel luglio del 2001, la città di Genova, ospitante il vertice dei Paesi più industrializzati del mondo, fu teatro di manifestazioni di protesta organizzate dal GSF (Genoa Social Forum), la più parte pacifiche, pesantemente disturbate dalla presenza dei cosiddetti black bloc, gruppi organizzati di guerriglia urbana. In tale contesto, ove i manifestanti pacifici denunciavano di essere stati più volte attaccati dalle forze dell’ordine mentre i black bloc venivano lasciati liberi di danneggiare e vandalizzare la città, il 20 luglio da una camionetta dei Carabinieri, isolata in piazza Alimonda e circondata dai manifestanti, partì un colpo di arma da fuoco che uccise il giovane Carlo Giuliani19.
Il 21 luglio 2001, ultimo giorno del G8, durante la giornata continuarono le manifestazioni e gli scontri tra dimostranti e forze dell’ordine.
Intorno alle 23:30 dello stesso giorno, circa 500 tra poliziotti e carabinieri fecero irruzione nella scuola Diaz adibita, su intesa tra autorità e comitato organizzativo, a ricovero di emergenza per i manifestanti, nonché a centro multimediale e ufficio stampa, in cui trovarono alloggio anche diversi avvocati e giornalisti.
Gli eventi di quella notte sono descritti nelle sentenze del Tribunale e della Corte d’Appello di Genova: “Gli agenti si divisero nei piani dell’edificio, parzialmente immersi nel buio. La maggior parte di loro aveva il viso coperto da un foulard, essi cominciarono a colpire gli occupanti con pugni, calci e manganelli, gridando e minacciando le vittime. Alcuni gruppi di agenti si accanirono anche su degli occupanti che erano seduti o allungati per terra. Alcuni degli occupanti, svegliati dal rumore dell’assalto, furono colpiti mentre si trovavano ancora nei loro sacchi a pelo; altri lo furono mentre tenevano le braccia in alto in segno di resa o mostravano le loro carte d’identità. Altri occupanti tentarono di scappare e si nascosero nei bagni o nei ripostigli dell’edificio, ma furono riacciuffati, colpiti, talvolta tirati fuori dai loro nascondigli per i capelli”20.
In quel contesto, 93 persone furono arrestate e portate dalla scuola Diaz alla caserma di Bolzaneto che era stata individuata per la gestione delle persone arrestate durante i cortei del pomeriggio.
Nel leggere le sentenze emesse a seguito del cosiddetto processo Bolzaneto, emerge un lungo elenco di abusi, fisici e verbali, pestaggi, deliberate sevizie e violenze, ideate al solo fine procurare dolore fisico, nei confronti degli arrestati21.
Nessuno dei manifestanti arrestati ricevette adeguate cure mediche (anzi, le visite si trasformarono spesso in occasioni di ulteriori umiliazioni e abusi da parte del personale medico); le sevizie terminarono con il trasferimento dei maltrattati presso altri istituti penitenziari.
La sentenza della Corte d’Appello nel processo “Caserma Bolzaneto” affermò che le violenze e le sevizie, combinate “con la negazione di alcuni diritti della persona arrestata, avevano lo scopo di dare alle vittime la sensazione di essere caduti in uno spazio di negazione dell’habeas corpus, dei diritti fondamentali e di ogni altro aspetto della preminenza del diritto”22.
La Corte d’Appello, richiamando la definizione di Tortura delle Corti internazionali, precisò, altresì, che si trattò “di un condensato di violenza verbale, fisica e psicologica, caratterizzata dall’imposizione del potere non solo sulla corporeità della vittima, ma anche sulla sua identità psicologica e politica e quindi finalizzata a stroncarne la resistenza psichica attraverso l’umiliazione degli ideali, la denigrazione del corpo, in balia del seviziatore in un crescendo di suspense per mezzo di un gioco perverso al cui estremo si pongono da un lato la volontà seviziata e sadica del persecutore e dall’altro estremo la vita stessa della vittima…. Trattasi di condotta che per le sue modalità concrete le sue conseguenze probabili va di gran lunga al di là del mero dato fenomenologico descritto nella fattispecie criminosa contestata del tutto insufficiente a ricomprendere per darne una qualificazione descrittiva utile ai fini della conoscenza e del giudizio degli eventi umani” 23.
Per la Corte di Cassazione, alla quale fu sottoposta la valutazione delle sentenze di merito, l’uso della violenza rientrava appieno nella definizione di “tortura”, in accordo con la Convenzione delle Nazioni Unite, e in quella di “trattamenti inumani o degradanti”. Tuttavia, mancando un reato ad hoc nell’ordinamento giuridico italiano, le violenze in causa erano state perseguite come delitti di lesioni personali, semplici o aggravate in relazione alle quali, era intervenuta la prescrizione nel corso del procedimento24.
Numerose vittime presentarono ricorso alla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo25 tra cui il Cestaro che all’epoca dei fatti aveva 62 anni26; venne accertato che il ricorrente “era seduto con la schiena contro il muro e le braccia alzate. Egli veniva colpito numerose volte, specialmente in testa, sulle braccia e sulle gambe, colpi che gli causarono fratture multiple”.
Senza esitazione alcuna e all’unanimità, la Corte giudicò il maltrattamento subito dal ricorrente quale tortura, secondo l’indicazione dell’art. 3 della Convenzione.
Nello stesso tempo, la Corte escluse negligenze o indulgenze da parte della magistratura italiana nei confronti dei fatti o degli imputati.
La Corte, inoltre, constatò l’assoluta inadeguatezza della legislazione italiana inidonea a tutelare le vittime di trattamenti disumani e, degradanti o di tortura.
A tal proposito, affermò che “l’ordinamento giuridico italiano ha bisogno di meccanismi legali che possano garantire una punizione adeguata per i responsabili di atti di tortura o di altri maltrattamenti e che possano impedire che questi individui beneficino di provvedimenti che sono incompatibili con la giurisprudenza della Corte”27.
5. Il reato di tortura in Italia
Nonostante le prescrizioni dei patti internazionali recepiti; nonostante la specifica previsione della punibilità della tortura nella Costituzione; nonostante le indicazioni della Corte europea dei diritti dell’uomo, solo nel 2017 in Italia sono stati introdotti nel codice penale gli articoli 613 bis e 613 ter.
L’iter approvativo della legge è stato lento e irto di ostacoli; si è protratto per diverse legislature28, licenziando un testo che non ha incontrato unanime consenso.
Ci si concentrerà sulle fattispecie previste dall’art. 613 bis che recita:
1. Chiunque, con violenze o minacce gravi, ovvero agendo con crudeltà, cagiona acute sofferenze fisiche o un verificabile trauma psichico a una persona privata della libertà personale o affidata alla sua custodia, potestà, vigilanza, controllo, cura o assistenza, ovvero che si trovi in condizioni di minorata difesa, è punito con la pena della reclusione da quattro a dieci anni se il fatto è commesso mediante più condotte ovvero se comporta un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona.
2. Se i fatti di cui al primo comma sono commessi da un pubblico ufficiale o da un incaricato di un pubblico servizio, con abuso dei poteri o in violazione dei doveri inerenti alla funzione o al servizio, la pena è della reclusione da cinque a dodici anni.
3. Il comma precedente non si applica nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative di diritti.
La collocazione del reato all’interno del codice (Titolo XII – delitti contro la Persona; Capo III – Delitti contro la libertà individuale; sez. III delitti contro la libertà morale) porta a far individuare il bene giuridico del reato nella libertà morale e psichica dell’individuo e della libera autodeterminazione; la Cassazione ha precisato che la suddetta nozione va integrata con una oggettività giuridica criminosa specifica, con contenuto più pregnante, ovvero la lesione della dignità umana29.
Le norme hanno attirato critiche e suscitato perplessità in quanto non sufficientemente determinate e foriere di dubbi interpretativi30.
In primo luogo, l’elemento soggettivo si caratterizza quale dolo generico. La scelta del Legislatore si discosta dal modello internazionale del reato di tortura, previsto dalla CAT, che richiede il dolo specifico in capo all’autore del reato, con la conseguente estensione della punibilità del reato in Italia.
Vero è che la previsione del dolo generico amplia positivamente la punibilità alle condotte maltrattanti riconducibili nell’alveo dell’art. 613 bis poste in essere senza uno scopo preciso31.
Il dibattito dottrinario si è concentrato, altresì, sulla natura della previsione normativa del secondo comma, ovvero se la condotta ivi descritta sia qualificabile come circostanza aggravante o quale titolo autonomo di reato.
La Cassazione, con sentenza del 2021, risolve la questione relativa al secondo comma, sostenendo che: “con l’articolo 613-bis c.p., è stato tipizzato il reato di tortura, strutturato come delitto “a geometria variabile”, potendo l’ambito di operatività della norma penale ricomprendere sia la tortura privata (cosiddetta comune o orizzontale o impropria: articolo 613-bis, comma 1) e sia la tortura pubblica (cosiddetta di Stato o verticale o propria: articolo 613-bis, comma 2). Ne deriva che, con la legge citata, sono stati configurati due autonomi titoli di reato e, quindi, due diverse e autonome fattispecie incriminatrici, a disvalore progressivo, secondo la qualifica del soggetto attivo del reato”32.
L’elemento oggettivo è descritto con una pluralità di condotte vincolate, con la necessaria realizzazione dell’evento.
Ampio confronto si è avuto anche in merito alla questione della necessaria reiterazione della condotta nel tempo affinché il reato sia integrato.
Sul tema della “necessaria abitualità”, la Suprema Corte offre una interpretazione della norma che consente la punibilità della condotta, ai sensi dell’art. 613 bis, anche quando la tortura è determinata da un unico atto lesivo.
Secondo il Giudice di legittimità, il delitto di tortura è stato configurato dal legislatore come reato eventualmente abituale, potendo essere integrato da più condotte violente, gravemente minatorie o crudeli, reiterate nel tempo, oppure da un unico atto lesivo dell’incolumità o della libertà individuale e morale della vittima, che però comporti un trattamento inumano e degradante per la dignità della persona33.
Senz’altro, gli arresti giurisprudenziali citati, a distanza di pochi anni dall’emanazione della L. 110/2017, da un lato, hanno districato controversi nodi interpretativi del dettato normativo; dall’altro, estendono la sfera di punibilità del reato di tortura e favoriscono la persecuzione degli autori del reato.
6. Progetto di legge di abolizione del reato di tortura
Il reato di tortura introdotto nel nostro codice penale, come abbiamo visto, allinea lo Stato italiano alla legislazione internazionale cogente.
Nonostante le norme di cui all’art. 613 bis e ter siano state invocate anche dalla magistratura italiana, oltre che dalla dottrina, quale strumento indispensabile per la punizione di crimini gravissimi perpetrati nell’ombra delle caserme e prigioni, nonché in generale nei luoghi di detenzione anche amministrativa quali i CPR34, vi è taluno che ne invoca la cancellazione.
Giace infatti in Parlamento una proposta di legge per abrogare i suddetti articoli, con l’alternativa introduzione di una circostanza aggravante comune.
In particolare, la nuova circostanza aggraverebbe il reato qualora commesso “infliggendo a una persona dolore o sofferenze acuti, fisici o psichici, al fine di ottenere da questa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che ella o una terza persona ha commesso o è sospettata di aver commesso, di intimidire lei o una terza persona o di esercitare pressioni su di lei o su una terza persona, o per qualunque altro motivo basato su una qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o tali sofferenze siano inflitti da un funzionario pubblico o da qualsiasi altra persona che agisca a titolo ufficiale, o sotto sua istigazione, oppure con il suo consenso espresso o tacito”35.
La relazione alla proposta di legge utilizza diverse argomentazioni, a sostegno dell’abrogazione, che svelano un timore di eccessiva effettività, se così si può dire, della norma.
Si lamenta, ad esempio, che il Legislatore “optando per una figura criminosa contrassegnata dal dolo generico, ha, di fatto, eliminato il tratto distintivo della tortura rispetto agli altri maltrattamenti rendendo concreto il rischio, paventato anche dai rappresentanti delle Forze di polizia, di vedere applicata la disposizione nei casi di sofferenze provocate durante operazioni lecite di ordine pubblico e di polizia”36.
La motivazione più forte e appassionata, a sostegno della abrogazione del reato di tortura, si rinviene nella finalità di “tutelare adeguatamente l’onorabilità e l’immagine delle Forze di polizia, che ogni giorno si adoperano per garantire la sicurezza pubblica rischiando la loro stessa vita, e per evitare le pericolose deviazioni che l’applicazione delle nuove ipotesi di reato potrebbe determinare”37.
7. Le argomentazioni contrarie alla codificazione del reato di tortura
Le argomentazioni utilizzate nella PdL sopra descritta, richiamano le motivazioni delle forze politiche che a lungo hanno ritardato l’introduzione della normativa disciplinante la condotta di tortura, le quali hanno mal inteso la codificazione del reato in oggetto, quale limitazione al potere repressivo delle Forze dell’Ordine e conseguentemente come un possibile indebolimento della sicurezza dello Stato38.
Da parte dei detrattori dell’introduzione del reato di tortura, si sosteneva che la tortura non riguarda l’Italia, che si caratterizza come un Paese civile e democratico39 e che, comunque, nell’ordinamento italiano erano presenti, anche prima dell’approvazione della legge 110/2017, norme repressive sufficienti a contrastare le condotte di tortura.
Ancora. Le condotte rientranti nel reato di tortura sarebbero scriminate dallo stato di necessità o della legittima difesa ove fossero poste in essere per estorcere informazioni essenziali alla difesa nazionale. In queste motivazioni, rientra il caso esemplare dell’uomo che ha piazzato una bomba e le Forze dell’Ordine hanno necessità di conoscere ove questa è collocata.
Fermo restando l’art. 2 della CAT che espressamente prevede che “Nessuna circostanza eccezionale, qualunque essa sia, si tratti di stato di guerra o di minaccia di guerra, d’instabilità politica interna o di qualsiasi altro stato eccezionale, può essere invocata in giustificazione della tortura”, ciò nuovamente affermato, risulta tecnicamente insostenibile l’astratta e generica invocazione delle scriminanti citate quando esse ricorrono solo alla luce di approfondite indagini sul caso concreto e soggiacciono ai limiti della proporzionalità e attualità.
In ultimo, in Italia, come emerge anche dalle frasi estrapolate dalla relazione di presentazione della PdL 623/2022, le norme a tutela delle vittime di tortura sono state – erroneamente – interpretate come un attacco ideologico alle Forze dell’Ordine per limitarne l’azione difensiva e preventiva40, con una potenziale esposizione degli agenti a pretestuose denunce e conseguenti processi anche mediatici.
8. I torture Memos e la teoria utilitaristica
I ragionamenti esposti echeggiano un più ampio dibattito internazionale che, latamente, giustifica il ricorso alla tortura con la grave conseguenza della messa in crisi dello Stato di diritto41.
La tortura contemporanea ancora assume duplice veste: da un lato, quella della punizione gratuita, con finalità esemplare, quale vera e propria forma di strumento politico per l’affermazione di una parte politica, o per ridurre al silenzio i dissidenti; dall’altro, viene posta in essere nel nome del “superiore interesse” dell’utilizzo della forza fisica e/o di trattamenti disumani e degradanti per l’ottenimento di informazioni, o per estorcere una confessione42.
Mentre nel caso della tortura punitiva, che viene anche definita “politica”, sopravvive una forte ritrosia nel rivendicarne la pratica, usualmente negata e occultata dagli Stati autoritari che la pongono in essere, nel caso della tortura cosiddetta “giudiziaria”, dopo l’attacco alle Torri Gemelle dell’11 settembre del 2001, si sono levate voci a ridimensionare la lesività delle violenze e degli atti disumani e degradanti e considerare la tortura pratica necessaria nei casi eccezionali.
Suggestive sono alcune tesi che richiamiamo per brevi cenni.
I torture Memos (memorandum sulle pratiche di tortura), furono redatti nel 2002 dal vice- assistente del Procuratore Generale degli Sati Uniti d’America John Yoo e dall’assistente Procuratore Generale della divisione del dipartimento di giustizia Jay Bybee.
Nei memorandum si suggeriva alla C.I.A., al Dipartimento della difesa e al Presidente degli Stati Uniti d’America, l’utilizzo di sofferenze fisiche e mentali e coercizioni, come la privazione del sonno, la immobilizzazione in posizioni stressanti, il waterboarding, nei confronti di terroristi o presunti tali; si sosteneva che questi atti, pur se generalmente considerati come una tortura, potevano essere legalmente legittimi sulla base di una interpretazione estensiva dei poteri presidenziali, giustificata dallo stato di guerra al terrorismo.
Inoltre, con riferimento alla minimizzazione della tortura, questa si concretizzerebbe solo in presenza di una minaccia imminente di morte e di un danno psichico prolungato per il soggetto sottoposto al trattamento in questione. Esclusivamente la violenza gratuita integrerebbe la tortura, per meglio dire, la violenza accompagnata dalla mera intenzione specifica di torturare. La tortura, conseguentemente, non sussisterebbe nel caso in cui le condotte fossero finalizzate all’ottenimento di una informazione dal torturato.
L’avvocato Alan Morton Dershowitz, professore ad Harvard,43 ha sostenuto che gli Stati democratici debbano accettare il dato di fatto dell’esercizio della tortura e, a tal proposito, suggerisce una emersione delle forme lievi della odiosa partica anche al fine di disciplinarle.
Dershowitz abbraccia la cosiddetta teoria utilitaristica, per cui, come già sopra esposto, in casi di ticking bomb diventa quasi un obbligo la tortura al fine di salvare vite umane innocenti; esponente in Europa di tale teoria era il giurista Winfried Brugger che è arrivato a sostenere, nel caso della bomba che sta per esplodere, che si possa ipotizzare la complicità dello Stato ove non si autorizzasse il ricorso alla violenza e alla estorsione della confessione con pratiche lesive della integrità fisica44.
9. La difesa dello stato di diritto verso l’interno. La sentenza 211/2023 del Tribunale di Siena
La confutazione delle teorie giustificazioniste della tortura si fonda, innanzi tutto, nella individuazione del bene giuridico, tutelato dalle norme internazionali e dalle norme italiane, nella dignità umana e nella libera estrinsecazione della vita di ogni persona45.
In tal senso, il divieto di tortura è cogente, universale, assoluto e non ammette eccezioni.
Se è vero che lo Stato può esercitare l’uso della forza, in circostanze ben definite e nei limiti dei principi dello Stato di diritto, non ha mai diritto all’esercizio della violenza,
Due recenti sentenze italiane si muovono nella direzione della riaffermazione dello Stato di diritto attraverso la disamina di fattispecie concrete riguardanti la tortura.
Il Tribunale di Siena con la sentenza n. 211/2023 del 9 marzo / 5 settembre 2023 ha condannato ai sensi dell’art. 613 bis cinque imputati, in concorso tra loro, per fatti risalenti al 2018, verificatesi all’interno del carcere di San Gimignano46.
Dal capo di imputazione emerge che quindici effettivi della Polizia Penitenziaria, con diverse qualifiche, l’11 ottobre del 2018, avrebbero abusato dei poteri, o comunque violato i doveri inerenti la loro funzione, accanendosi con crudeltà, violenza, sopraffazione fisica e morale nei confronti di un detenuto, posto precedentemente in isolamento illegittimo, provocandogli acute sofferenze fisiche e un trauma psichico, al solo scopo di intimidazione.
Altri capi di imputazione concernono minacce, lesioni nonché tre contestazioni per falso ideologico in atto pubblico a tre imputati per avere redatto relazioni mendaci in ordine ai fatti avvenuti al fine di occultare i crimini commessi.
Dalla lunga e articolata sentenza del Tribunale di Siena, si possono ricavare principi generali applicabili ad altri casi concreti.
L’ambito è quello della tortura punitiva in carcere.
La ricostruzione del fatto operata in sentenza è estremamente dettagliata nella descrizione della dinamica e focalizzata sulla centralità del corpo della vittima individuato quale estremo limite alla intangibile dignità umana, in particolare nelle situazioni di totale sbilanciamento del potere tra soggetti, come nel caso di un’istituzione chiusa quale il carcere.
L’elemento soggettivo che connota l’azione “punitiva” degli imputati risiede, per il giudici toscani, nell’intento del ripugnante e disinvolto esercizio di violenta disumanità e di ostentato disprezzo nei confronti di una persona detenuta, ovvero nel “solo scopo di esibire, all’interno dell’istituto penitenziario di San Gimignano, manifestazioni di dominio e riaffermare così rapporti di forza”, con la conseguenza che la funzione pubblica del potere coercitivo viene distorta e trasformata “in strumento di prevaricazione e sopruso ai danni di quanti siano ad essa soggetti”, con gravissima lesione dei beni appartenenti al singolo individuo.
Il collegio giudicante senese, per quanto riguarda l’oggetto del presente testo, al fine di motivare la decisione, si dedica ad esaminare non solo la sussistenza o meno di un potere distorto come sopra descritto, ma anche la natura del potere repressivo legittimo che si sostanzia nel dovere principale della pubblica autorità di garantire e custodire il bene giuridico della dignità delle persone che si trovano nella disponibilità dello Stato.
Si rinviene, pertanto, nell’Ordinamento giuridico, una corrispondenza, speculare e inscindibile, tra divieto di tortura e diritto all’habeas corpus per il quale “il corpo della persona privata della libertà personale deve restare intangibile, inviolabile e quasi “sacro” per chiunque l’abbia in custodia” in quanto il valore della libertà personale costituisce l’architrave su cui poggia l’intero sistema costituzionale.
Con consequenziale argomentazione, la sentenza dei Giudici di Siena – dopo avere collocato l’Italia nell’ampio panorama delle norme internazionali, passando altresì in rassegna le più importanti pronunce della CEDU – lodevolmente si concentra sulla relazione tra la circoscrizione della tortura, dal punto di vista tecnico giuridico, e i doveri gravanti sul personale appartenente al Corpo di polizia penitenziaria; per meglio dire, sul confine tra l’uso legittimo della coazione fisica e abuso della forza pubblica.
La sentenza analizza, pertanto, i requisiti di legittimità dell’impiego della coercizione in contesti penitenziari, e più in generale, esamina ove l’uso della forza evolva in violazione del divieto di tortura.
Tale prospettiva, offerta dal Tribunale toscano, risulta essere la chiave per conciliare, da un lato, l’onorabilità delle Forze dell’Ordine, il dovuto tributo ai professionisti della difesa sociale, aldilà delle retoriche pericolosamente assolutorie di taluni politici; dall’altra il rispetto, sempre e comunque, della dignità umana.
I riferimenti normativi per delimitare l’uso legittimo della forza, si rinvengono innanzi tutto nel dettato dell’art. 53 c.p., uso legittimo delle armi, che sancisce il principio di legalità nella delicata materia: “non è punibile il pubblico ufficiale che al fine di adempiere a un dovere del proprio ufficio, fa uso ovvero ordina di far uso delle armi o di altro mezzo di coazione fisica quando vi è costretto dalla necessità di respingere una violenza o di vincere una resistenza … La legge determina gli altri casi nei quali è autorizzato l’uso delle armi o di un altro mezzo di coazione fisica”.
Nel novero degli “altri casi” determinati dalla legge, in cui “è autorizzato l’uso di un mezzo di coazione fisica”, rientra la casistica, purtroppo numerosa, degli abusi nell’ambito penitenziario, ove il ricorso alla forza fisica è oggetto della specifica e puntuale disciplina dell’articolo 41 ord. pen., che così prevede: “Non è consentito l’impiego della forza fisica nei confronti dei detenuti e degli internati se non sia indispensabile per prevenire o impedire atti di violenza, per impedire tentativi di evasione o per vincere la resistenza, anche passiva, all’esecuzione degli ordini impartiti.
Il personale che, per qualsiasi motivo, abbia fatto uso della forza fisica nei confronti dei detenuti o degli internati deve immediatamente riferirne al direttore dell’istituto il quale dispone, senza indugio, accertamenti sanitari e procede alle altre indagini del caso.
Non può essere usato alcun mezzo di coercizione fisica che non sia espressamente previsto dal regolamento e, comunque, non vi si può far ricorso a fini disciplinari ma solo al fine di evitare danni a persone o cose o di garantire la incolumità dello stesso soggetto. L’uso deve essere limitato al tempo strettamente necessario e deve essere costantemente controllato dal sanitario”.
Il testo dell’art. 41 ord. pen. citato, va letto assieme all’art. 1 ord. pen. per il quale “il trattamento penitenziario deve essere conforme ad umanità e deve assicurare il rispetto della dignità della persona; ad ogni persona privata della libertà sono garantiti i diritti fondamentali; è vietata ogni violenza fisica e morale in suo danno”.
I requisiti, pertanto, dell’utilizzo legittimo della forza pubblica, consistono nella necessità dell’intervento coercitivo e nella proporzione e adeguatezza tra l’entità della reazione da contenere, o del diverso fine pubblico da perseguire, e i mezzi a tal fine concretamente utilizzati dall’appartenente all’autorità pubblica.
Il canone di necessità, più in particolare, si ricollega all’an stesso dell’intervento coercitivo ad opera dell’autorità pubblica.
“Il canone di proporzionalità – adeguatezza del mezzo al fine impone invece di scegliere, tra i vari mezzi e strumenti di coazione disponibili nel caso concreto, quello che sia ad un tempo concretamente idoneo a perseguire uno dei predetti scopi dalla legge tassativamente individuati e, soprattutto, meno dannoso e lesivo per la persona effettivamente incisa dall’impiego della forza pubblica”.
La conclusione a cui arriva il Giudice di merito senese, è che la forza, da parte dell’autorità pubblica può essere legittimata, solo quale extrema ratio; quest’ultima deve sussistere in concreto e in rapporto dinamico con il soggetto di diritto a cui la coercizione è indirizzata, titolare della intrinseca e inviolabile dignità umana, e non verso un mero corpo reificato dalla soggezione al potere statale.
Il Tribunale di Siena, con ampie motivazioni, ha condannato per il reato di tortura gli imputati.
La difesa dello stato di diritto verso l’esterno. La sentenza 4557/2024 della Corte di Cassazione
Il divieto di tortura, come esposto nei paragrafi precedenti, può essere qualificato come architrave dello Stato di diritto.
I principi dello Stato di diritto sono consacrati dall’art. 2 TUE e richiamati anche nel preambolo della Carta dei diritti fondamentali.
La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo ha, negli anni, sempre più allargato la tutela delle vittime delle condotte di tortura e atti inumani e degradanti, come sopra esposto, abbassando la soglia di sofferenza necessaria per integrare il reato di tortura47.
Nello stesso tempo, la Corte europea, muovendosi su altra direttrice, ha evidenziato che i valori proclamati dal divieto di tortura, assoluto e inderogabile, valgono anche al di fuori della cerchia degli Stati parte della Convenzione con la conseguenza che gli Stati contraenti non debbono rendersi complici di trattamenti disumani o atti di tortura perpetrati da Stati terzi48.
La giurisprudenza della CEDU sul punto è copiosa e articolata.49
La suddetta impostazione è rafforzata anche dal dettato dell’art. Art. 3 della CAT, per il quale: “1. Nessuno Stato Parte espelle, respinge né estrada una persona verso un altro Stato
qualora vi siano serie ragioni di credere che in tale Stato essa rischia di essere sottoposta a tortura. 2. Per determinare se tali ragioni esistono, le autorità competenti tengono conto di tutte le considerazioni pertinenti, compresa, se del caso, l’esistenza, nello Stato interessato, di un insieme di violazioni sistematiche, gravi, flagranti o massicce, dei diritti dell’uomo”.
In ossequio alle norme internazionali, la L. 110/2017 ha modificato l’art. 19 del Testo Unico dell’immigrazione con l’introduzione, nel dettato della norma, del comma 1.1. per il quale “non sono ammessi il respingimento o l’espulsione o l’estradizione di una persona verso uno Stato qualora esistano fondati motivi di ritenere che essa rischi di essere sottoposta a tortura o a trattamenti inumani o degradanti”.
Una recente sentenza della Corte di Cassazione, del 7 febbraio 2024 si è occupata del respingimento collettivo di un gruppo di migranti verso la Libia, considerato Paese non sicuro sotto il profilo per l’elevata probabilità che ivi i migranti potessero subire tortura e/o trattamenti disumani e degradanti50.
Il caso sottoposto alla Corte di Cassazione concerne la condotta del Comandante di una nave privata battente bandiera italiana, condannato in I e II grado, per abbandono in stato di pericolo di persone minori o incapaci (art. 591 c.p.) e di sbarco e di abbandono arbitrario di persone (art. 1155 cod. nav.).
Il Comandante, che si trovava in acque internazionali e in zona libica SAR, soccorreva, facendoli salire a bordo dal gommone ove si trovavano, 101 migranti, tra i quali erano presenti donne in stato di gravidanza e minori, omettendo, però, di comunicare nella immediatezza, sia prima di iniziare le attività di soccorso sia dopo avere effettuato le stesse, la circostanza del salvataggio ai centri di coordinamento e soccorso competenti così violando le procedure previste per le operazioni di soccorso, come disciplinate dalla Convenzione Solas e dalle direttive dell’IMO (Organizzazione Marittima Internazionale).
Il Comandante ometteva, inoltre, di identificare i migranti, di assumere informazioni sulla loro provenienza e nazionalità, sulle loro condizioni di salute, di sottoporli a visita medica, di accertare la loro volontà di chiedere asilo, nonché di accertare se i minori fossero soli o accompagnati, trasgredendo i citati articoli del ISPS Code, in tema di sicurezza della navigazione.
Infine, in contrasto con quanto stabilito dalle convenzioni internazionali, il Comandante faceva rotta verso le coste libiche e riconduceva a Tripoli i centouno naufraghi imbarcati, facendoli trasbordare su una motovedetta libica per il successivo sbarco dei migranti in terra di Libia.
La Corte di Cassazione ha confermato la condanna del Comandante di nave privata per reati allo stesso contestati.
Le ipotesi delittuose di cui all’art. 591 c.p. e all’art. 1155 cod. nav. prevedono reati di pericolo astratto, con dolo generico.
L’abbandono di persone minori o incapaci si realizza attraverso una “qualsiasi condotta, attiva o omissiva, contrastante con il dovere giuridico di cura o di custodia, gravante sul soggetto agente (nel caso specifico il comandante della nave), da cui derivi uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita o l’incolumità del soggetto passivo (migranti minori o incapaci)”51.
In merito all’abbandono arbitrario dei passeggeri fuori dal territorio nazionale da parte del Comandante, la Cassazione con chiarezza afferma che “il delitto di sbarco e abbandono arbitrario previsto dall’art. 1151 cod. nav., reato proprio, in quanto ne può essere autore solo il comandante della nave, è reato di pericolo astratto e l’elemento oggettivo è integrato dallo sbarco dei passeggeri avvenuto arbitrariamente, perché disposto in contrasto con le previsioni normative e regolamentari, cui è tenuto il comandante della nave, investito di un’ampia posizione di garanzia funzionale alla incolumità collettiva dei passeggeri, nel caso in cui dallo sbarco medesimo derivo uno stato di pericolo, anche meramente potenziale, per la vita e l’incolumità dei soggetti passivi”.
La Suprema Corte procede alla individuazione delle condotte in contrasto con i doveri giuridici del Comandante, attraverso una approfondita disamina della normativa internazionale e nazionale, anche regolamentare, sul soccorso in mare e sul respingimento degli stranieri.
Prima di entrare nel merito delle suddette violazioni, sottolineiamo che la Corte di Cassazione chiarisce che il Comandante di una nave privata riveste il ruolo di incaricato di pubblico servizio ex art. 358 c.p. relativamente al salvataggio in mare di persone e cose, nelle stesse forme richieste per gli analoghi doveri di salvataggio delle navi militari o comunque statali. “La conseguenza è che con il comandante della nave viene impegnato anche lo Stato sottoposto alla giurisdizione della CEDU nonché sottoposto alla disciplina unionale in tema di migrazioni e diritti fondamentali. Il Comandante opera quale “agente dello Stato” in acque internazionali ed è tenuto a riconoscere alla persona del naufrago i diritti e le libertà enunciati nel titolo I della Convenzione”.
Sul Comandante anche di nave privata, quindi, gravano tutti gli obblighi previsti per lo Stato dalla normativa internazionale e definiti nel concreto dalle pronunce della Corte di Giustizia dell’Unione Europea e Corte di Giustizia dei Diritti dell’Uomo.
Il Comandante della nave privata, pertanto, deve sempre rispettare il diritto dei richiedenti asilo, anche solo potenziali, a svolgere le domande alle Autorità competenti; il Comandante è sottoposto all’obbligo di identificazione dei naufraghi e all’esame delle singole situazioni di fatti in cui vertono.
A tal proposito, la Corte di Cassazione richiama la Gran Camera della CGUE fin dal 2011, la quale afferma che, in ragione dell’art. 4 della Carta dei diritti fondamentali dell’Unione europea, gli Stati membri, compresi gli organi giurisdizionali nazionali, sono tenuti a non trasferire un richiedente asilo verso uno Stato membro quando è accertato che ivi sussistono carenze sistemiche nella procedura di asilo e nelle condizioni di accoglienza dei richiedenti asilo con il rischio reale, per lo straniero, di subire trattamenti inumani o degradanti.
Nel caso sottoposto alla Cassazione, il Comandante effettuava un respingimento collettivo, vietato dal principio del cosiddetto principio di non refoulement52.
Il divieto di respingimento collettivo è inteso come assoluto e inderogabile.
La Cassazione richiama un significativo provvedimento della CEDU (Grande Camera, causa Hirsi Jamaa e altri c. Italia – 23 febbraio 2012)53.
Il caso sottoposto alla Corte europea, riguardava l’intercettazione in mare di oltre duecento naufraghi in acque non italiane, avvenuta nel 2009, da parte di natanti militari italiani che, dopo averli salvati portandoli a bordo, li riportavano a Tripoli.
La Corte europea condannò l’Italia affermando che vi era stata, da parte del nostro Paese, violazione dell’art. 3 CEDU in quanto i ricorrenti erano stati esposti al rischio di subire maltrattamenti in Libia.
Le evidenze di pericolo, per i migranti trasferiti in Libia, di subire maltrattamenti e torture erano comprovate dal rapporto del Comitato per la prevenzione della tortura del Consiglio Europeo del 2010, nonché dai report di Organizzazioni non governative quali Amnesty International e Human Rights Whatch 54.
Conseguentemente, il Comandante della nave battente bandiera italiana, in primo luogo, ha il dovere di salvare i naufraghi, peraltro coordinandosi necessariamente con i centri competenti per la convenzione SAR; in secondo luogo, durante il viaggio il Comandante è sottoposto a obblighi di custodia e cura dei naufraghi a bordo; in terzo lugo, è soggetto all’obbligo di consegnare i naufraghi in un porto sicuro.
Per la Corte di Cassazione, alla luce dei principi sovranazionali, la verifica del requisito della sicurezza del porto di destinazione, da parte del Comandante, che assume una posizione di garanzia nei confronti dei naufraghi, deve essere svolta in concreto, tenendo in conto tutti gli elementi che lascino presumere che siano effettivamente garantiti i diritti umani dei naufraghi.
Ai fini del dolo, nella fattispecie sottoposta al giudizio della Corte di Cassazione, il contesto complessivamente illecito della condotta, in violazione delle regole nazionali e internazionali sul salvataggio in mare e in tema di respingimenti collettivi, le numerose omissioni sia nel coordinamento dei soccorsi sia nella verifica della vulnerabilità di alcuni naufraghi, ha condotto i Giudici ad accertare il dolo nella sua forma eventuale.
In sintesi, per citare le motivazioni della sentenza che stiamo esaminando, il Comandante, “procurava agli stessi migranti un danno grave, consistente nel loro respingimento collettivo, quale condotta vietata dalle convenzioni internazionali e dal Testo Unico sull’immigrazione, nello sbarco in un paese terzo considerato porto non sicuro, non avendo la Libia aderito alla Convenzione di Ginevra per i rifugiati e atteso l’elevato rischio di essere i migranti sottoposti a trattamenti inumani e degradanti nei centri di detenzione per stranieri presenti sul territorio libico, con l’impossibilità di vedere tutelati i propri diritti fondamentali (es. l’asilo, la salute, l’integrità fisica e la libertà individuale e sessuale)”.
La Corte di Cassazione confermava, pertanto. la condanna del Comandante della nave privata, per i reati previsti dall’art. 591 c.p. e dall’art. 1155 del codice della navigazione, fondando la decisione sul rispetto dei principi dello Stato di diritto e del divieto di tortura.
Conclusioni
Il reato di tortura si rivela strumento della difesa dello Stato di diritto.
La sua definizione nella normativa internazionale, anche nel confronto con la normativa nazionale, non è univoca e la determinazione degli elementi essenziali è necessariamente sostanziata dagli arresti giurisprudenziali, in primis della CEDU, la quale ha assunto, e assume, decisioni sulla base del laconico divieto di tortura di cui all’art. 3 della Convenzione sui diritti dell’uomo.
La tortura è circoscritta, altresì, dalle norme che consentono l’uso della forza da parte dello Stato.
Il confine tra azione lecita e azione illecita nell’uso della forza (o violenza) dell’autorità statale, nelle sue ramificazioni amministrative, è da rinvenire, pertanto, nelle disposizioni che autorizzano, in casi tassativi, l’utilizzo della coercizione fisica sul corpo di una persona.
Il terzo comma dell’art. 613 bis, spesso considerato tautologico, riferentesi al solo secondo comma che disciplina la tortura propria o verticale, prevede la “non applicazione” della fattispecie “nel caso di sofferenze risultanti unicamente dall’esecuzione di legittime misure privative o limitative dei diritti”55.
Peraltro, clausole di esclusione analoghe si rinvengono sia nella definizione di tortura contenuta nell’art. 1 della Dichiarazione dell’Assemblea delle Nazioni Unite del 1975, sia nella stessa CAT del 198456.
La legittimità della coercizione fisica si fonda, dunque, sulla preesistenza di norme autorizzative all’uso della forza da parte della autorità pubblica, che fungono da controaltare ai casi di perversione del potere.
Al fine di preservare lo Stato di diritto nella sua pienezza, è a queste fonti interne che bisogna riferirsi affinché non si insinuino estensioni contra ius alla possibilità di utilizzo della forza da parte dello Stato; le norme autorizzative devono essere costruite tecnicamente in forma tassativa, che non lasci spazio a dubbi interpretativi, in piena coordinazione con la Carta costituzionale e con il contesto normativo internazionale.
Ci si riferisce, ad esempio, al “pacchetto sicurezza” del 16 novembre 2023, presentato al Consiglio dei Ministri ove sono stati adottati numerosi provvedimenti in materia di sicurezza e di immigrazione, tra cui, il delitto di rivolta in istituto penitenziario, che punisce chiunque promuove, organizza e dirige una rivolta all’interno di un istituto penitenziario prevedendo specifiche aggravanti. L’articolo del disegno di legge si riferisce anche alla condotta di resistenza passiva all’esecuzione degli ordini impartiti. Previsione analoga anche per lo straniero trattenuto presso i centri per i rimpatri o la permanenza nelle strutture per richiedenti asilo o altre strutture di accoglienza o di contrasto all’immigrazione illegale. La dizione “resistenza passiva” potrebbe arrivare a consentire, o quanto meno, giustificare, l’uso della forza anche in contesti di pacifiche e legittime proteste per il miglioramento della qualità della vita dei carcerati e dei trattenuti57 con la conseguente compressione dei diritti dei detenuti e trattenuti, compressione che si insinua nell’Ordinamento statuale attraverso norme dirette a regolare il bene giuridico della sicurezza in astratto.
Dalla giurisprudenza della suprema Corte, si può affermare, inoltre, che il rispetto dei principi dello Stato di diritto non può essere relegato al solo nostro Paese o agli Stati membri dell’Unione Europea ma deve assumere anche una dimensione “esterna” nella cooperazione con Stati terzi di origine e di transito dei flussi migratori.
In tal senso, il rispetto della dignità umana deve, o dovrebbe, costituire linea guida nelle relazioni internazionali con l’accertamento in concreto delle reali condizioni di vita e di attuazione, o meno, dei principi del rispetto della vita umana di un Paese estero, al fine di contrastare Ordinamenti, ed evitare complicità con gli stessi, che non garantiscono il livello minino del rispetto della persona.
L’Ordinamento italiano, deve, quindi, promuovere l’emanazione di norme, e la loro attuazione ed effettività, in armonia con i principi costituzionali e internazionali nel campo della tutela della dignità umana gravemente lesa da atti disumani, degradanti e di tortura.
Avvocato del foro di Roma email: avvmaddalenadelre@gmail.com
Articolo in corso di pubblicazione anche sulla Rivista Diritto Penale della Globalizzazione
Note:
1 Foucalt, Sorvegliare e punire, Einaudi Paperbacks 1975, 5.
2 Foucalt, op. cit., 10. Padovani, Tortura in Giustizia criminale. Radici, sentieri, dintorni, periferie di un sistema assente, Pisa University press, 2015, 280 e ss. Nella raccolta di lezioni, l’a. ricostruisce, anche storicamente, la natura giuridica dell’istituto della tortura; Scaroina, Il delitto di tortura, Cacucci editore, 2018, 38 e ss.
3 Foucalt, op. cit., 10.
4 Foucalt, op. cit., 19.
5 A. Cassese, I diritti umani oggi, Economica Laterza, 2019, 174.
6 Si indicano i più importanti riferimenti della normativa internazionale: Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 1948; la Convenzione di Ginevra relativa al trattamento dei prigionieri di guerra del 1949; la Convenzione di Roma per la salvaguardia dei diritti umani e delle libertà fondamentali del 195; il Patto internazionale di New York sui diritti civili e politici del 1966; la Dichiarazione dell’Assemblea delle Nazioni Unite del 1975; la Convenzione europea di Strasburgo per la prevenzione della tortura e dei trattamenti inumani o degradanti del 1987; lo Statuto di Roma istitutivo della Corte penale internazionale del 1998; la Convenzione ONU contro la tortura ed altri trattamenti e pene crudeli, inumane e degradanti del 1984 (CAT), e il suo Protocollo opzionale di New York del 2002; la Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea del 2000.
7 Lobba, Punire la tortura in Italia. Spunti ricostruttivi a cavallo tra diritti umani e diritto penale internazionale, in Dir. Pen. Cont, 10, 2017, 192.
8 Pugiotto, Repressione penale della tortura e costituzione. Anatomia di un reato che non c’è. 2/2024 129 e ss.
9 Lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, seduta del 17 settembre 1946: “Cevolotto si dichiara in massima d’accordo con gli onorevoli Togliatti e Basso. Quello di cui ci si deve preoccupare non è tanto il trattamento dell’arrestato durante l’interrogatorio da parte del giudice istruttore o del Procuratore della Repubblica. Fortunatamente anche in passato, nei riguardi di queste autorità, non si sono dovute in genere deplorare violenze o costrizioni. Queste invece, come risulta dall’esperienza professionale e personale di molti, si mettevano in essere da parte della pubblica sicurezza”, consultabili sul sito www.nascitacostituzione.it.
10 Vedi Lavori preparatori dell’Assemblea Costituente, seduta 17 settembre 1946 consultabili sul sito www.nascitacostituzione.it.
11 Vedi Lavori preparatori dell’Assemblea costituente, seduta 17 settembre 1946 consultabili sul sito www.nascitacostituzione.it.
12 A. Cassese, op. cit., 180 e ss.; Lobba, op. cit., 198; Scaroina, op. cit., 72 e ss. e ampia giurisprudenza ivi citata.
13 CEDU, Selmouni c. Francia, 28 luglio 1999, §. 101 ove la Corte osserva che essendo la Convenzione materia vivente, “il crescente livello di sensibilità in materia di protezione dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali implica una maggiore fermezza nella valutazione dei valori fondamentali delle società democratiche”.
14 CEDU, Irlanda verso regno Unito n. 5310/71.
15 A. Cassese, op. cit., 176
16 Fino alla riforma del Protocollo 11, entrata in vigore nel 1998, che abolì la Commissione europea dei diritti dell’uomo, i ricorrenti non avevano diretto accesso alla CEDU ma dovevano rivolgersi alla Commissione che svolgeva un ruolo di filtro sulla fondatezza ammissibilità dei ricorsi.
17 CEDU, Irlanda c. Regno Unito, n. 5310/71.
18 CEDU, Grande Camera, Bouyid c. Belgio, 2338/2009.
19 L’uccisione di Carlo Giuliani è stata oggetto della sentenza CEDU, Giuliani e Gaggio c. Italia, 23458/02, del 25 agosto 2009, confermata dalla Sentenza dalla Grande Camera 24/03/2011; la Corte ha escluso la violazione della Convenzione in riferimento all’art. 2 (diritto alla vita): la condotta del carabiniere, per le circostanze in cui si svolto il fatto, che hanno fatto ritenere ai carabinieri sussistente un immediato pericolo per la loro incolumità, è scriminata dal comma 2 lett. a): “La morte non si considera cagionata in violazione del presente articolo se è il risultato di un ricorso alla forza resosi assolutamente necessario: (a) per garantire la difesa di ogni persona contro la violenza illegale”.
20 V. CEDU, Cestaro c. Italia, 6884/11, § 23; v. inoltre Trib. Genova, n. 4252/08; C. d’Appello Genova n. 1530/10; Cass. pen., n. 38085/12.
21 Trib. Genova, n. 3119/2008; C. d’Appello di Genova, n. 678/2010; Cass. pen., n. 37088/2013.
22C. d’Appello Genova, n. 678/2010.
23 C. d’Appello di Genova, n. 678/2010, p. 11
24 CEDU, Cestaro c. Italia, n. 6884/11, § 77.
25 CEDU, Bartesaghi Gallo c. Italia n. 12131/13 e n. 43390/13; CEDU, Azzolina e altri c. Italia, n. 28923/09 e n. 67599/10; CEDU, Alfarano c. Italia, n. 75895/13; Battista e altri c. Italia, n. 22045/14.
26 CEDU, Cestaro c. Italia, ricorso 6884/11;
27 Corte EDU Cestaro c. Italia, n. 6884/11;
28 per una dettagliata ricostruzione dell’iter parlamentare della legge 210/2017 v. Anastasia, Le pene e il carcere, Mondadori Università, 2022, 150 e ss.
29 Cass. pen, n. 32380/2021.
30 V. intervista a Luigi Manconi, reperibile sul web https://left.it/2017/06/14/reato-di-tortura-luigi-manconi-ecco-perche-questa-legge-non-va-bene; inoltre, Amato, Passione, Il reato di tortura, in Dir. pen. cont. 2019; Pugiotto, Una legge sulla tortura, non contro la tortura. Riflessioni costituzionali suggerite dalla l. 110 del 2017, in Quad. cost., 2018; Scaroina, op. cit; Lobba, Obblighi internazionali e nuovi confini della nozione di tortura, in Dir. pen. cont., 2019; Stortoni, Castronuovo, (a cura di), Nulla è cambiato? Riflessioni sulla tortura, Bononia University Press, 2019; Pellissero, Tortura: una norma scritta male al banco di prova della prassi applicativa, in Quest. Giust, 2021.
31 Melone, Il delitto di tortura, in https://www.rivistaildirittovivente.it/il-delitto-di-tortura.htm.
32 Cass. pen., n. 32380/2021.
33 Cass. pen., n. 47079/2019.
34 Per una elencazione di casi di tortura propria emersi in questi anni in Italia v. Manconi, Anastasia Calderone, Resta, Abolire il carcere, Chiare Lettere, 2022 pp. 44 e ss.; Scaroina, op. cit, 97 e ss.
35 Proposta di Legge Camera dei Deputati n. 623 presentata il 23.11.2022 Prima firmataria Imma Vietri di FdL.
36 Ibidem.
37 Ibidem.
38 Pugiotto, Repressione penale della tortura e costituzione: anatomia di un reato che non c’è, Dir. pen. cont. 2/20214, 129 e ss.; Anastasia, op. cit., 154 e ss.
39 Tale affermazione è smentita dai numerosi fatti di cronaca, come i fatti del G8 di Genova, sopra richiamati, i cosiddetti “fatti di Asti” avvenuti tra il 2004 e il 2005 nel carcere cittadino per i quali dal processo emerse un sistematico uso di violenza e trattamenti umani e degradanti verso i detenuti; le torture verso singoli che portarono alla morte come nel caso di Stefano Cucchi, fino ad arrivare i nostri giorni con i fatti di San Gimignano e Santa Maria Capua Vetere; v. nota 33.
40 Pugiotto, op. cit, 142, La Torre, La Lalatta Costerbosa, Legalizzare la tortura? Ascesa e declino dello Stato di diritto, Il Mulino, 2013, 70.
41 La letteratura sul tema è vastissima. In questa sede, si richiama l’ampia bibliografia citata in La Torre, Lalatta Costerbosa, op. cit; Scaroina, op. cit, 311 e ss.
42 A. Cassese, op. cit., 171; A. Cassese, Umano – disumano, Laterza 1994.
43 Scaroina, op. cit., 316.
44 La Torre, Lalatta Costerbosa, op. cit, 118.
45 CEDU Tyrre c. Regno Unito, 25 aprile 1978 § 33; CEDU, Bouyid c. Belgio, 28 settembre 2015, § 81.
46 Trib. Siena, n. 211/2023; Battarino, Il reato di tortura: concretezza dei fatti, necessità della fattispecie. Nota a Tribunale Siena n. 211/2023 del 9 marzo – 5 settembre 2023 in Quest. Giust., 12/12/2023, di cui si condivide appieno l’impostazione dell’analisi della sentenza. V. anche Pellisero, op. cit. che ha commentato la sentenza GIP Siena inerente ai fatti di San Gimignano.
47 V. nota 13.
48 A. Cassese, op. cit., 183.
49 Ibidem.
50 Cass. pen. n. 4557 del 7 febbraio 2024.
51 Cass. pen. n. 1780/2022.
52 La Convenzione di Ginevra sullo status dei rifugiati, all’art.33, sancisce il principio di non-refoulement prevedendo che “Nessuno Stato Contraente espellerà o respingerà, in qualsiasi modo, un rifugiato verso i confini di territori in cui la sua vita o la sua libertà sarebbero minacciate a motivo della sua razza, della sua religione, della sua cittadinanza, della sua appartenenza a un gruppo sociale o delle sue opinioni politiche”.
Il divieto di respingimento è applicabile a ogni forma di trasferimento forzato, compresi deportazione, espulsione, estradizione, trasferimento informale e non ammissione alla frontiera.
53 La CEDU si è pronunciata più volte in merito ai respingimenti collettivi in violazione dell’articolo 4 del Protocollo n. 4 (Le espulsioni collettive di stranieri sono vietate); a titolo esemplificativo, v. Čonka c. Belgio 51564/99; Georgia c. Russia; 13255/07; Shioshvili e altri c. Russia, 19356/07; Berdzenishvili e altri c. Russia 14594/07, le espulsioni riguardavano individui della stessa origine (famiglie di Rom provenienti dalla Slovacchia nella prima causa e cittadini georgiani nelle altre). In altre due (Hirsi Jamaa e altri c. Italia 27765/09; e Sharifi e altri c. Italia e Grecia 16643/09, la violazione constatata riguardava il rinvio dell’intero gruppo di persone (dei migranti e dei richiedenti asilo), che era stato effettuato senza avere debitamente verificato l’identità di ciascuno dei membri del gruppo.
54 la CEDU cita i numerosi “rapporti pubblicati da organizzazioni internazionali ed internazionali nonché da organizzazioni non governative che condannano le condizioni detentive e di vita dei migranti irregolari in Libia all’epoca dei fatti”: Comitato dei diritti dell’uomo delle Nazioni Unite, Osservazioni finali Jamahiriya arabo-libica, 15 novembre 2007; Amnesty International, Libia – Rapporto 2008 di Amnesty International, 28 maggio 2008; Human Rights Watch, Libya Rights at Risk, 2 settembre 2008; Dipartimento di Stato americano, Rapporto relativo ai diritti dell’uomo in Libia, 4 aprile 2010.
55 Padovani, op. cit., 14 che così si esprime sulla natura della clausola: “non affronterei questa sede, ora, il problema se si trattasse di una causa di giustificazione o di un limite esegetico, cioè un limite al concetto di tortura oppure di una tortura giustificata. Personalmente propenderei per il limite esegetico… se quella situazione è conforme a quella situazione, non può entrare nel concetto di tortura. Quindi è il confine tra l’una e l’altra, non la giustificazione sovrapposta ad una situazione di effettiva tortura”.
56 Ibidem, 13 e 16, che pone in evidenza le differenze tra la formula della clausola di esenzione del 1975 contenuta nella Dichiarazione Assemblea ONU e quella del 1984 inserita nella CAT.
57 Così: Bettarini, op. cit.