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IL PIL O MITO DELL’INFINITA CRESCITA

Sergio Benedetto Sabetta

Già Aristotele sosteneva che quello che non cresce è destinato a perire, un movimento continuo che la scienza del XVII secolo interpretò nelle leggi universali della meccanica, fino ad applicarle in ogni ambito della vita umana con gli illuministi nel XVIII secolo in cui tutto si pretendeva di misurare e catalogare.

La nascita della scienza economica risale a questa idea originaria, dove il calcolo a cui il termine valore espresso dall’unità di misura della moneta ben si adatta, ma calcolare implica la determinazione e individuazione delle unità a cui assegnare un termine di valore e quindi di accumuli.

Rientra perfettamente in questa ottica la creazione dell’idea del singolo individuo a cui assegnare i diritti necessari alla contrattualizzazione, come conseguenza e premessa dell’idea di “contratto sociale” (Hobbes), quale base della nascita dello Stato moderno.

Un ulteriore passo è l’introduzione del diritto di proprietà pieno ed assoluto, svincolato da qualsiasi limite, sui beni di natura definiti e determinati, ossia ben individuati e limitati, quindi misurabili e valutabili in base alla domanda, da contrapporre ai beni di natura illimitati quali l’aria e il vento di cui vi è la piena disponibilità.

La valutazione si riduce comunque anche per le prime tipologie di beni naturali ai costi di sfruttamento, ossia ai costi necessari per ricavare gli stessi in rapporto alla domanda.

Il sogno di una disponibilità illimitata della natura su cui si fonda la teoria economica classica tra XVIII e XIX secolo, a cui consegue l’idea di una crescita illimitata che Malthus già contesta, si fonda su una distinzione tra due “mondi terra”, l’uno limitato sede di una incipiente industrializzazione (l’Europa occidentale e Nord America), l’altro il resto del mondo, in proporzione un infinito universo da esplorare e sfruttare liberamente.

Si crea l’homo economicus, soggetto di diritti ed individualista fino all’egoismo, solo intento a produrre, commerciare, calcolare e accumulare, negando tutti i restanti rapporti relazionali fondati sullo scambio affettivo e sul dono.

Si ottiene per tale via la matematizzazione, propria di una visione meccanicistica dell’universo e quindi della natura, dell’attività economica che risulta pertanto perfettamente calcolabile, rientrando il tutto in un universo opera di una divinità geometrica e matematica.

Si ha pertanto una progressiva assimilazione delle teorie economiche a quella che Durkheim definirebbe come una nuova “religione”, con “sacerdoti” che si esprimono mediante formule e grafici statistici e “missionari” divulgatori intenti a convertire le masse, finché si raggiunge quella massa critica tale in cui la profezia si auto realizza, avallata dalla crescita produttiva favorita dall’innovazione tecnologica.

Schumpeter afferma esservi una “distruzione creativa” determinata dall’innovazione tecnologica, vi è comunque un limite alla capacità di sostituire beni naturali ed equilibrarne la distruzione, se si pone in rapporto alla velocità di crescita della popolazione e del continuo scarto “artificiale” di beni prodotto dalla necessità di aumentare “comunque”la produzione.

Infatti ad una crescita continua dei beni, secondo un desiderio artificiale indotto, corrisponde una riduzione dei beni naturali non solo attraverso i consumi, ma anche con i danni che in molti casi sfuggono al calcolo di una controprestazione monetaria (esternalità negative).

In questa volontà di voler dare un prezzo e quindi contabilizzare tutto quello che ha un valore, vi sono attività umane che sfuggono alla contabilizzazione pur avendo un valore, come le transazioni “fuori mercato”, quali il volontariato, lo scambio di doni, fondamentali per il mantenimento del tessuto dei rapporti umani.

Si ha così una confusione tra quantità e qualità, ritenendo la qualità come un valore superiore alla qualità, necessaria alla continua crescita produttiva secondo la scuola economica neoclassica americana, per cui la mercificazione della natura e delle relazioni sociali è necessaria al progresso.

In contrasto con la parziale contabilizzazione fondata sulla produzione e crescita legata al PIL, è stato elaborato il Genuine Progress Indicator (GPI) da alcuni ricercatori californiani, da cui emerge chiaramente la differenza tra i due indicatori, il primo legato al “processo produttivo”, l’altro al “risultato”, ossia al benessere collettivo.

Per favorire la crescita continua della produzione si può agire sulla crescita della popolazione, ma anche più semplicemente sulla formazione di nuovi mercati creando nuovi desideri per consumare nuovi prodotti o ancor più semplicemente sull’obsolescenza programmata del prodotto, questo indipendentemente dalla sostenibilità dell’ambiente.

La pretesa di un riciclo completo dello scarto è impossibile, crescendo quindi la produzione crescerà comunque l’entropia contenuta nel processo, di cui il riciclo potrà solo rallentare il risultato ultimo di una continua esternalizzazione negativa.

Lo sforzo di una continua crescita produttiva è sostenuto da una continua emissione di valuta nel processo, una finanziarizzazione indipendente da qualsiasi vincolo oggettivo esterno, come potevano essere le riserve auree, si ottiene per tale via una semplice società collettiva a scopo di lucro, concentrata solo sull’andamento del PIL, quale oracolo.

La teoria classica fondata sulla semplice crescita risulta impostata su una visione ottocentesca attualmente necessaria per sostenere il “processo” impedendone l’avvitamento su se stesso, dove anche i “diritti umani” diventano strumentali alla crescita produttiva incessante da cui vi è una dipendenza consumistica.

Lo stesso “sviluppo sostenibile” è solo apparentemente una soluzione, basti pensare all’effetto rimbalzo che annulla le possibili economie, venendo quindi strumentalizzato nel non riconoscere gli inevitabili limiti naturali e i costi energetici di una economia forzatamente globalizzata, indipendentemente dalle necessarie “localizzazioni” di produzione e consumo, con il relativo tessuto relazionale.

La paura dello “stato stazionario” risulta quindi il risultato di una “fede religiosa” per cui tutti credono in una determinata teoria in quanto la maggioranza ci crede, vi è pertanto un rifiuto a priori di un fatto naturale che viene ad esserci dopo un periodo di crescita, come lo stesso John Stuart Mill riconosceva ed apprezzava. (Principi di economia politica, UTET, 1983, vol. II, Libro III, capitolo VI).

Vi è per questo la necessità che la scienza economica superando la stretta matematizzazione, venga a raffrontarsi con le scienze “umanistiche”, quali l’antropologia, la sociologia, la psicologia, la botanica, ecc.

Quale reazione alle difficoltà della teoria neoclassica nel contabilizzare tutto l’agire umano, alcuni economisti (Becker) hanno cercato di ridurre a pure relazioni contrattuali tutte le relazioni sociali, eliminando qualsiasi aspetto etico ed emotivo.

Il puntare sul rapporto domanda/offerta in funzione di una scarsità strutturale dell’offerta che porta al prevalere della domanda, fa sì che per realizzarsi tale teoria, la domanda deve rimanere in crescita costante attraverso una stimolazione artificiale del bisogno, ossia commercialmente del desiderio.

I limiti fisiologici dell’ambiente sono negati attraverso la fiducia in una innovazione tecnologica costante e accelerata (Solow e Summers), che non tanto ritarda il loro raggiungimento ma lo elude, da cui la tendenza pubblicitaria a non ammettere alcun limite fisiologico, secondo una realtà virtuale.

Se gli economisti classici si rifanno solo alle merci prodotte dal lavoro umano, il principio di utilità marginale e di bisogno nel rendere desiderabile la merce, quale unico criterio per la determinazione del valore, conduce a rendere commerciale qualsiasi risorsa naturale essendo per definizione nel tempo tutto scarso quello che riguarda l’umanità.

L’utilità che Bentham individua quale principio supremo per valutare e dirigere l’agire pubblico, nel concentrarsi sulla ricerca delle cose che danno piacere spinge a sua volta a concentrarsi nel rapporto con le cose e, quindi, al prevalere dell’aspetto economico su quello relazionale, rimane comunque la difficoltà di calcolare la felicità, sebbene vien meno l’aspetto etico del desiderio.

D’altronde la merce non è altro che il risultato di un processo, in quanto il bene non esiste di per sé, e come tale produce delle esternalità negative ed è sottoposta al secondo principio della termodinamica, ossia all’entropia, occorre vedere quindi nella casualità il suo rapportarsi con l’ambiente quale contesto (Rovelli).

Polanyi mette bene in evidenza il tentativo di inserire le passioni e i desideri umani nel calcolo economico attraverso l’utilità marginale operato dalle teorie neoclassiche, dove Wabras afferma essere l’utilità economica indifferente al senso morale in quanto legata solo all’intensità del desiderio.

Si ha così una completa distinzione dall’economia classica di Smith, Ricardo e Marx, nella quale si distingue tra valore di scambio e valore d’uso.

BIBLIOGRAFIA

  • Serge Latouche, L’invenzione dell’economia, Bollati Boringhieri 2010;

  • Jean-Claude Michea, L’impero del male minore: saggio sulla civiltà liberale, Libri Scheiwiller 2008;

  • Karl Polanyi, La grande trasformazione. Le origini economiche e politiche della nostra epoca, Einaudi 1974;

  • Karl Polanyi, La nostra obsoleta mentalità di mercato, in Economie primitive, arcaiche e moderne, Einaudi 1980;

  • Gilbert Rist, I fantasmi dell’economia, Jaca Book 2012;

  • Carlo Rovelli, L’ordine del tempo, Adelphi 2017;

  • Marshall Sahlins, Cultura e utilità, Anabasi 1994.

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