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IL PIANO DI RISANAMENTO NON EVITA LA BANCAROTTA.

Il piano di risanamento ex art. 67, comma 3, Legge Fallimentare, deve essere idoneo a consentire il risanamento dell’impresa e redatto in una prospettiva di continuazione dell’attività, e non già in funzione della sua liquidazione al di fuori di qualsiasi controllo pubblico. Quando il piano è strumentale o meramente dilatorio, non esclude la configurabilità del reato di bancarotta
Decisione: Sentenza n. 8926/2016 Cassazione Penale – Sezione V
Il caso.

Il Giudice per le indagini preliminari aveva disposto il sequestro preventivo finalizzato alla confisca obbligatoria del complesso aziendale di una SRL, poi dichiarata fallita.

Il Tribunale del riesame confermava il decreto di sequestro preventivo.

Secondo gli accertamenti dei giudici di merito, gli amministratori della SRL avevano distratto i beni prima della pubblicazione della sentenza dichiarativa di fallimento, attraverso una serie di atti (cessione di rami d’azienda, cessione della posizione contrattuale, risoluzione di altro contratto di affitto di ramo d’azienda).

Le attività negoziali erano state poste in essere mentre pendeva una domanda di concordato preventivo che, ad avviso dei giudici, era stata presentata per scopi puramente dilatori.

Le società terze coinvolte negli atti posti in essere, evidentemente penalizzate dal provvedimento di sequestro preventivo sui beni oggetto di attività negoziali, presentavano ricorso per Cassazione.
La decisione.

La Cassazione ha ritenuto i ricorsi infondati.

I ricorrenti avevano lamentato l’omessa indagine, da parte del Tribunale, sull’elemento soggettivo del reato.

Affrontando la questione attinente all’ipotizzata omessa indagine da parte del Tribunale, la Suprema Corte rileva però che la valutazione sommaria sul fumus del reato ipotizzato deve portare a rilevare la insussistenza dell’elemento soggettivo, ma a condizione che ciò sia evidente: «in sede di riesame dei provvedimenti che dispongono misure cautelari reali, al giudice è demandata una valutazione sommaria in ordine al “fumus” del reato ipotizzato relativamente a tutti gli elementi della fattispecie contestata, e quindi anche dell’elemento soggettivo. Tanto alla condizione – sempre sottolineata dalla giurisprudenza di legittimità, in aderenza a pronunce della Consulta (Corte cost., ord. n. 153 del 2007) – che il difetto dell’elemento suddetto emerga “ictu oculi” (Cass., n. 23944 del 21/5/2008; Sez. 2, n. 2808 del 2/10/2008; Sez. 6, n. 16153 del 6/2/2014); (v. Corte cost., ord. n. 153 del 2007)».

Il ché, sulla base di quanto accertato e motivato dai giudici del merito, nel caso in esame era da escludere.

La Suprema Corte rileva poi che la dismissione dei beni aziendali era stata posta in essere dopo che il Tribunale aveva convocato il debitore per chiudere la procedura di concordato preventivo: in questa situazione – afferma la Cassazione – «caratterizzata, come detto, dall’avvio della procedura prefallimentare, giunta fino alla comparizione del debitore dinanzi al Tribunale e all’assunzione della causa in decisione – il debitore non aveva nessuna facoltà di vendere tutti i beni aziendali, approfittando del fatto che non venne immediatamente pubblicata la sentenza di fallimento, giacché tale attività – posta in essere, al di fuori di qualsiasi procedura pubblicistica, quando la società non era, pacificamente, in grado di soddisfare tutte le sue obbligazioni – concreta indiscutibilmente un’attività distrattiva, dal momento che privava l’impresa della totalità del patrimonio senza nessuna garanzia di soddisfacimento integrale dei creditori.».

La Cassazione, poi, esclude che un piano di risanamento aziendale, valga ad escludere di per sé la configurabilità del reato di bancarotta; così, infatti, si esprime nella pronuncia: «Né l’attività era divenuta lecita per la presentazione di un piano di risanamento aziendale, redatto – ai sensi dell’art. 67, comma 3, lett. d), della L.F. – in fretta e furia, a marzo 2014, dopo la comparizione del debitore dinanzi al Tribunale e prima della pubblicazione della sentenza di fallimento, giacché il piano suddetto deve essere, o almeno “apparire”, idoneo “a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria”. E’ questo il motivo per cui i pagamenti effettuati in esecuzione del piano stesso sono esclusi dalla revocatoria fallimentare: si tratta, infatti, di un piano che, per i suoi contenuti e per l’attestazione che riceve da un professionista qualificato, deve essere idoneo a consentire il risanamento dell’impresa, per il valore che questa rappresenta per l’ordinamento; un piano, quindi, che deve essere redatto in una prospettiva di continuazione dell’attività d’impresa e non già in funzione della sua liquidazione al di fuori di qualsiasi controllo pubblico. Peraltro, il piano suddetto non si sottrae alla valutazione di congruenza e fattibilità del giudice penale (come non si sottrae, in caso di successivo fallimento, alla valutazione del giudice civile) allorché sia strumentalmente destinato a “proteggere” attività negoziali che, per essere svolte in un momento di crisi dell’impresa, si appalesano idonee a distogliere il patrimonio dalla sua finalità tipica (la garanzia per i creditori)».

La Cassazione, quindi, ha rigettato i ricorsi, ritenendo che «la motivazione con cui è stata affermata l’esistenza – sotto il profilo del fumus – degli elementi costitutivi del reato di bancarotta è, quindi, tutt’altro che mancante o illogica, né la stessa è contrastata validamente dalle deduzioni e critiche difensive».
Osservazioni.

Per la Cassazione, la funzione del piano è quella di permettere il risanamento dell’azienda: quando è strumentale o meramente dilatorio, non esclude la configurabilità del reato di bancarotta.
Disposizioni rilevanti.

REGIO DECRETO 16 marzo 1942, n. 267

Disciplina del fallimento, del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata e della liquidazione coatta amministrativa

Art. 67 – Atti a titolo oneroso, pagamenti, garanzie

Sono revocati, salvo che l’altra parte provi che non conosceva lo stato d’insolvenza del debitore:

1) gli atti a titolo oneroso compiuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento, in cui le prestazioni eseguite o le obbligazioni assunte dal fallito sorpassano di oltre un quarto ciò che a lui è stato dato o promesso;

2) gli atti estintivi di debiti pecuniari scaduti ed esigibili non effettuati con danaro o con altri mezzi normali di pagamento, se compiuti nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento;

3) i pegni, le anticresi e le ipoteche volontarie costituiti nell’anno anteriore alla dichiarazione di fallimento per debiti preesistenti non scaduti;

4) i pegni, le anticresi e le ipoteche giudiziali o volontarie costituiti entro sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento per debiti scaduti.

Sono altresì revocati, se il curatore prova che l’altra parte conosceva lo stato d’insolvenza del debitore, i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili, gli atti a titolo oneroso e quelli costitutivi di un diritto di prelazione per debiti, anche di terzi, contestualmente creati, se compiuti entro sei mesi anteriori alla dichiarazione di fallimento.

Non sono soggetti all’azione revocatoria:

a) i pagamenti di beni e servizi effettuati nell’esercizio dell’attività d’impresa nei termini d’uso;

b) le rimesse effettuate su un conto corrente bancario, purchè non abbiano ridotto in maniera consistente e durevole l’esposizione debitoria del fallito nei confronti della banca;

c) le vendite ed i preliminari di vendita trascritti ai sensi dell’articolo 2645-bis del codice civile, i cui effetti non siano cessati ai sensi del comma terzo della suddetta disposizione, conclusi a giusto prezzo ed aventi ad oggetto immobili ad uso abitativo, destinati a costituire l’abitazione principale dell’acquirente o di suoi parenti e affini entro il terzo grado, ovvero immobili ad uso non abitativo destinati a costituire la sede principale dell’attività d’impresa dell’acquirente, purchè alla data di dichiarazione di fallimento tale attività sia effettivamente esercitata ovvero siano stati compiuti investimenti per darvi inizio;

d) gli atti, i pagamenti e le garanzie concesse su beni del debitore purchè posti in essere in esecuzione di un piano che appaia idoneo a consentire il risanamento della esposizione debitoria dell’impresa e ad assicurare il riequilibrio della sua situazione finanziaria; un professionista indipendente designato dal debitore, iscritto nel registro dei revisori legali ed in possesso dei requisiti previsti dall’articolo 28, lettere a) e b) deve attestare la veridicità dei dati aziendali e la fattibilità del piano; il professionista è indipendente quando non è legato all’impresa e a coloro che hanno interesse all’operazione di risanamento da rapporti di natura personale o professionale tali da comprometterne l’indipendenza di giudizio; in ogni caso, il professionista deve essere in possesso dei requisiti previsti dall’articolo 2399 del codice civile e non deve, neanche per il tramite di soggetti con i quali è unito in associazione professionale, avere prestato negli ultimi cinque anni attività di lavoro subordinato o autonomo in favore del debitore ovvero partecipato agli organi di amministrazione o di controllo; il piano può essere pubblicato nel registro delle imprese su richiesta del debitore;

e) gli atti, i pagamenti e le garanzie posti in essere in esecuzione del concordato preventivo, dell’amministrazione controllata, nonché dell’accordo omologato ai sensi dell’articolo 182-bis, nonché gli atti, i pagamenti e le garanzie legalmente posti in essere dopo il deposito del ricorso di cui all’articolo 161;

f) i pagamenti dei corrispettivi per prestazioni di lavoro effettuate da dipendenti ed altri collaboratori, anche non subordinati, del fallito;

g) i pagamenti di debiti liquidi ed esigibili eseguiti alla scadenza per ottenere la prestazione di servizi strumentali all’accesso alle procedure concorsuali di amministrazione controllata e di concordato preventivo.

Le disposizioni di questo articolo non si applicano all’istituto di emissione, alle operazioni di credito su pegno e di credito fondiario; sono salve le disposizioni delle leggi speciali.

(…)

TITOLO VI DISPOSIZIONI PENALI

CAPO I Reati commessi dal fallito

Art. 216 – Bancarotta fraudolenta

E’ punito con la reclusione da tre a dieci anni, se è dichiarato fallito, l’imprenditore, che:

1) ha distratto, occultato, dissimulato, distrutto o dissipato in tutto o in parte i suoi beni ovvero, allo scopo di recare pregiudizio ai creditori, ha esposto o riconosciuto passività inesistenti;

2) ha sottratto, distrutto o falsificato, in tutto o in parte, con lo scopo di procurare a sè o ad altri un ingiusto profitto o di recare pregiudizi ai creditori, i libri o le altre scritture contabili o li ha tenuti in guisa da non rendere possibile la ricostruzione del patrimonio o del movimento degli affari.

La stessa pena si applica all’imprenditore, dichiarato fallito, che, durante la procedura fallimentare, commette alcuno dei fatti preveduti dal n. 1 del comma precedente ovvero sottrae, distrugge o falsifica i libri o le altre scritture contabili.

E’ punito con la reclusione da uno a cinque anni il fallito, che, prima o durante la procedura fallimentare, a scopo di favorire, a danno dei creditori, taluno di essi, esegue pagamenti o simula titoli di prelazione.

Salve le altre pene accessorie, di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna per uno dei fatti previsti nel presente articolo importa per la durata di dieci anni l’inabilitazione all’esercizio di una impresa commerciale e l’incapacità per la stessa durata ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa.

Art. 217 – Bancarotta semplice

E’ punito con la reclusione da sei mesi a due anni, se è dichiarato fallito, l’imprenditore, che, fuori dai casi preveduti nell’articolo precedente:

1) ha fatto spese personali o per la famiglia eccessive rispetto alla sua condizione economica;

2) ha consumato una notevole parte del suo patrimonio in operazioni di pura sorte o manifestamente imprudenti;

3) ha compiuto operazioni di grave imprudenza per ritardare il fallimento;

4) ha aggravato il proprio dissesto, astenendosi dal richiedere la dichiarazione del proprio fallimento o con altra grave colpa;

5) non ha soddisfatto le obbligazioni assunte in un precedente concordato preventivo o fallimentare.

La stessa pena si applica al fallito che, durante i tre anni antecedenti alla dichiarazione di fallimento ovvero dall’inizio dell’impresa, se questa ha avuto una minore durata, non ha tenuto i libri e le altre scritture contabili prescritti dalla legge o li ha tenuti in maniera irregolare o incompleta.

Salve le altre pene accessorie di cui al capo III, titolo II, libro I del codice penale, la condanna importa l’inabilitazione all’esercizio di un’impresa commerciale e l’incapacità ad esercitare uffici direttivi presso qualsiasi impresa fino a due anni.

Art. 217-bis – Esenzioni dai reati di bancarotta

1. Le disposizioni di cui all’articolo 216, terzo comma, e 217 non si applicano ai pagamenti e alle operazioni compiuti in esecuzione di un concordato preventivo di cui all’articolo 160 o di un accordo di ristrutturazione dei debiti omologato ai sensi dell’articolo 182-bis o del piano di cui all’articolo 67, terzo comma, lettera d), ovvero di un accordo di composizione della crisi omologato ai sensi dell’articolo 12 della legge 27 gennaio 2012, n. 3, nonché ai pagamenti e alle operazioni di finanziamento autorizzati dal giudice a norma dell’articolo 182-quinquies e alle operazioni di finanziamento effettuate ai sensi dell’articolo 22-quater, comma 1, del decreto-legge 24 giugno 2014, n. 91, convertito, con modificazioni, dalla legge 11 agosto 2014, n. 116, nonché ai pagamenti ed alle operazioni compiuti, per le finalità di cui alla medesima disposizione, con impiego delle somme provenienti da tali finanziamenti.

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