Di Stefano Nespor. Nell’ottobre del 2004 due ambientalisti americani, Michael Shellenberger and Ted Nordhaus, pubblicavano un articolo dal provocatorio titolo “The death of environmentalism”, la morte dell’ambientalismo. Affermavano che l’ambientalismo, così come si è venuto sviluppando dagli anni Sessanta del secolo scorso, non era più in grado di confrontarsi con realtà e problemi assai diversi da quelli del passato: era necessario ripensarlo dalle fondamenta e studiare nuove modalità per confrontarsi con i problemi ambientali. A qualche anno di distanza, nel 2007 è uscito, ad opera dei due stessi autori, Break-Through: From the Death of Environmentalism to the Politics of Possibility, definito con molta enfasi e un po’ di esagerazione dal mensile Wired come lo scritto più importante per l’ambientalismo dopo Silent Spring: una sorta di manifesto dove si sostiene che è ora di finirla con la vecchia politica ambientalista dei limiti regolarmente disattesi, come è accaduto per quelli fissati dal Protocollo di Kyoto volti a contenere le emissioni che producono cambiamento climatico, delle catastrofi periodicamente preannunciate, degli impegni sempre inutilmente assunti, come quello di contenere la deforestazione o di rallentare la devastazione del patrimonio ittico globale. Secondo Shellenberger e Nordhaus, i problemi ambientali sul tappeto richiedono non limiti ma immaginazione, non controlli ma un nuovo modello di sviluppo; soprattutto però bisogna rendersi conto che non si può abbattere l’esistente sistema prima di averne costruito uno sostitutivo, obiettivo che richiede non solo grandi investimenti ma anche grande coraggio e grande iniziativa da parte di tutti, organizzazioni internazionali, stati e singoli.
Il libro è stato considerato una delle colonne portanti di un movimento identificato generalmente come il “neoambientalismo”. Come i fautori dell’economia di mercato degli anni Novanta, anche i sostenitori del neoambientalismo vogliono uscire dai confini dell’ortodossia e vogliono cominciare a parlare di potere e di denaro per trovare soluzioni precise e radicali ai problemi globali. Ha scritto Paul Kingsnorth in un recente articolo sul Guardian che ha avuto in poco tempo oltre 300 commenti (The New Environmentalism: Where Men Must Act ‘As Gods’ To Save The Planet, 1 agosto 2012) che il neo ambientalismo è un movimento progressista, business-friendly, favorevole alle nuove tecnologie, alla globalizzazione e allo sviluppo e contrario ai cliché dell’ambientalismo tradizionale basati esclusivamente sui limiti e sui valori da proteggere.
Secondo uno dei principali esponenti di questo movimento, lo statunitense Stewart Brand, gli uomini debbono cominciare ad accettare la responsabilità di governare il pianeta e devono anche rendersi conto che la natura da proteggere come entità separata dall’uomo non esiste più se non nell’immaginazione di pochi romantici: le idee di Brand sono esposte nel suo libro Whole Earth Discipline: An Ecopragmatist Manifesto Whole Earth Discipline: An Ecopragmatist Manifesto (Viking 2009), dove egli si schiera a favore di urbanizzazione intensiva, biotecnologie e biologia sintetica, geoingegneria ed anche energia nucleare.
In sostanza, il neo ambientalismo coniuga la fiducia nel progresso scientifico con la volontà di abbandonare le scelte di opposizione frontale al cambiamento che hanno caratterizzato l’ambientalismo tradizionale. Ad una politica ambientale basata sui valori si propone di sostituire una politica basata sul pragmatismo e magari anche sui compromessi. In questo modo si propone di offrire una strada per coloro che – disillusi dall’ambientalismo tradizionale e convinti dell’inutilità di perseguire grandi progetti – vogliono impegnarsi per migliorare il loro ambiente e ciò che hanno intorno e realizzare progetti ridotti come la realizzazione di micropannelli solari, soluzioni di ingegneria genetica per salvare le api o le farfalle, la creazione di soluzioni per un miglior riciclo dei rifiuti.
Certo, in questo modo non si salva il mondo e non si evitano le catastrofi. Ma se si considera che tutti i propositi di salvare il mondo che hanno guidato l’azione ambientalista negli ultimi decenni non hanno ottenuto granché, può forse essere utile, nell’ampio e multiforme spettro dei movimenti ambientalisti, anche un gruppo di tecnoottimisti senza grandi ideali ma pronti a impegnarsi nel loro quartiere.