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IL “MERCATO” DEI DIRITTI UMANI

di Lucio Janniello
Oggi dovrebbe essere superfluo parlare di diritti umani. Si dovrebbe considerare il discorso chiuso, nel senso che tutti gli avvenimenti tragici del passato, che hanno visto annientare i diritti naturali dell’uomo, avrebbero dovuto spingere i governi ad impegnarsi in modo forte e deciso contro qualsiasi cedimento alla tentazione contemporanea di far valere, ancora una volta, la legge del più forte.
Notiamo con dispiacere che ciò che è scritto nelle varie Convenzioni sui diritti dell’uomo spesso è disatteso o non applicato in modo adeguato. Per dirla con Conforti, autorevole studioso di diritto internazionale, le gross violations continuano ad essere applicate e riguardano soprattutto la tortura ed i trattamenti che privano l’uomo della propria dignità. Non c’è dubbio che in diversi casi la comunità internazionale si è mossa ora  speditamente, se si trattava di tutelare particolari interessi economici nelle regioni in cui si compivano genocidi, distruzioni di interi villaggi con le più orride armi, ora molto lentamente, come in Ruanda e Burundi, e, comunque, dopo che l’opinione pubblica cominciava a farsi sentire. Non sembra azzardato far riferimento, quando si considerano tali comportamenti, ad un ” mercato” dei diritti umani. Si tutelano determinate popolazioni in particolari regioni, se c’è un “corrispettivo economico”.
D’altronde, la stessa Rigoberta Menchù, Premio Nobel per la pace nel 1992, ha asserito che “all’Onu c’è un mercato dei diritti umani, basato sugli interessi di chi è più forte e che assicura l’impunità a chi, pur violando i principi elementari della vita di un popolo, si mette d’accordo e vota secondo gli interessi dei paesi più potenti e ricchi” (1). Il Premio Nobel fa riferimento al suo Paese, il Guatemala, dove la polizia spesso ammazza i bambini, e, nonostante questo, il suo Paese non ha mai avuto, durante i dieci anni di terrore per la repressione interna, neanche una censura per violazione dei diritti umani. Questa è la realtà. Una realtà non molto diversa da quella delle popolazioni indigene. Sebbene l’ex segretario dell’Organizzazione Nazioni Unite abbia detto in occasione dell’adozione della Dichiarazione sui diritti dei popoli indigeni nel 2006 che essa “rappresenta uno strumento di portata storica per il progresso dei diritti e della dignità dei popoli indigeni nel mondo. La sua adozione da parte dell’Assemblea Generale delle Nazioni Unite costituisce un traguardo importante, e ha il potenziale per un ulteriore coinvolgimento delle popolazioni indigene e dei loro partner” (2), ancora molto c’è da fare.
In effetti, la Dichiarazione fa riferimento, tanto a livello individuale quanto collettivo, a diritti culturali e di identità, al diritto a: educazione, salute, lavoro, lingua; al pieno godimento di tutti i diritti umani e delle libertà fondamentali, tanto collettivamente quanto individualmente, secondo quanto riconosciuto dalla Carta delle Nazioni Unite, dalla Dichiarazione Universale dei Diritti Umani e dalla disciplina legislativa internazionale sui diritti umani; e al diritto all’autodeterminazione, secondo il quale possono determinare liberamente il loro status politico e perseguire il loro sviluppo economico, sociale e culturale.
Ma sono protetti realmente i diritti degli indigeni? Anche in questo caso gli interessi economici la fanno da padrone. Nel nome del “progresso” si persevera nel genocidio organizzato, in America latina, ai danni di popolazioni dallo stile di vita semplice e pacifico.
Gli indigeni del bacino amazzonico sono braccati e sterminati fin dai giorni dei “Conquistadores“. E’ pur vero che, generalmente, le dichiarazioni delle Nazioni Unite non sono legalmente vincolanti, ma questo, a nostro parere, non deve assolutamente essere considerato un alibi da parte degli Stati. Non può essere certo la forma di un documento a fare la differenza (sebbene, purtroppo, in taluni sia così), perché i summenzionati diritti sono diritti naturali e come tali da tutelare a prescindere. Ed ai diritti umani fanno riferimento anche le quattro Convenzioni di Ginevra del 12 agosto 1949, che hanno rappresentato e rappresentano una pietra miliare del diritto internazionale umanitario. Sono Convenzioni importanti, ma spesso, come abbiamo visto, disattese. E non ce ne voglia il lettore se ne facciamo un rapido accenno.
Nel citarle singolarmente vediamo che la I Convenzione fa riferimento al trattamento dei feriti e dei malati delle forze armate in campagna; la II Convenzione al miglioramento della sorte dei feriti dei malati e naufraghi delle forze armate sul mare; la III Convenzione al trattamento dei prigionieri di guerra; infine, la IV Convenzione alla tutela sia degli stranieri sul territorio di una parte in conflitto, sia dei civili di un territorio occupato.
Comune alle quattro Convenzioni è l’articolo 3, perché è grazie a questa importantissima disposizione che la disciplina della tutela dei diritti umani nei conflitti armati non internazionali ha trovato una sua precisa sistemazione (3).
L’articolo 3, infatti, impone obblighi, fissa limiti e dà garanzie, in tal modo assicurando che agli individui che non partecipano alle ostilità o a quelli che hanno deposto le armi sia riconosciuto un minimo di protezione (4).
Appare chiaro che, affinché questa disposizione trovi applicazione, debba sussistere un conflitto armato. Sussiste l’ipotesi, quindi, che la tutela dei diritti possa essere sospesa in caso di emergenza, tranne un nucleo fondamentale assolutamente inderogabile.
Appare realistico sostenere che, e sicuramente non siamo i soli a pensarla in questo modo, sebbene l’emergenza possa portare, e sottolineiamo “possa”, a considerare la sospensione di talune garanzie individuali necessaria, è difficile definire con assoluta oggettività quali ambiti dei diritti umani occorre tutelare più di altri nei conflitti armati.
Riteniamo che ci siano visioni differenti riguardo alla protezione dei diritti suscritti, che, secondo il nostro giudizio, sono tutti da tutelare, soprattutto in caso di emergenza, dove gli abusi potrebbero essere molti e da molti giustificabili proprio perché le situazioni di emergenza sono più difficili da gestire. Per taluni il diritto di essere liberi può essere considerato meno importante di quello alla vita, mentre per altri può valere il contrario. Come conciliare queste due posizioni? Pensiamo che non possa esserci una conciliazione a riguardo. Le visioni che riguardano l’importanza di quel nucleo di diritti da proteggere sono assolutamente soggettive. In Amazzonia i Piaroa, una popolazione indigena, hanno una filosofia del vivere che ben ci fa capire la relatività di quanto sopra espresso: “E’ meglio essere schiavo che uccidere; perché al padrone si può fuggire, al male no” (5).
note
(1) in: www. bergamoblog .it;
(2) Kofi Annan, Segretario Generale dell’ONU, durante la Giornata internazionale dei popoli indigeni, Agosto 2006;
(4) Umberto Leanza, Il diritto internazionale, 2002 Giappichelli Editore – Torino;
(5) Umberto Leanza, Il diritto internazionale, 2002 Giappichelli Editore – Torino;
(3) si veda: Stefano Varese, ” La conquista oggi “, in Il canto del silbaco, 1970 Aroldo Bolla Editore – Torino

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