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Il Made Green in Italy: l’impronta ambientale dei prodotti italiani. – QUOTIDIANO LEGALE
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Il Made Green in Italy: l’impronta ambientale dei prodotti italiani.

Corso: DIRITTO DELL’AMBIENTE E PUBLIC PROCUREMENT - LA GESTIONE VIRTUOSA DEL TERRITORIO E DELLE TUTELE.

Il Made Green in Italy: l’impronta ambientale dei prodotti italiani

di TOMMASO ROSSI

E’ stato pubblicato nella Gazzetta Ufficiale del 29 maggio 2018 il Regolamento per l’attuazione dello schema nazionale volontario per la valutazione e la comunicazione dell’impronta ambientale dei prodotti, denominato “Made Green in Italy”, adottato dal Ministro dell’Ambiente lo scorso 21 marzo. Il provvedimento è in vigore il 13 giugno 2018.

Previsto dal Collegato ambientale (Legge 28 dicembre 2015, n. 221) nel quadro delle iniziative di promozione e incentivo della Green Economy, il Made Green Italy è uno strumento (si spera) utile allo scopo di rafforzare la competitività nel mercato internazionale- sempre più attento alla qualità ambientale ed ecologica dei prodotti-  del sistema impresa italiano.

Secondo quanto definito dal Ministero dell’Ambiente, la c.d. “impronta ambientale di un prodotto” – dove per prodotto si deve intendere un “bene” o “servizio”, secondo la Norma ISO 14040:2006 sulla metodologia LCA/ Life Cycle Assessement- è una misura fondata su una valutazione multi-criterio delle prestazioni ambientali di un prodotto, analizzato lungo tutto il suo ciclo di vita.

Lo scopo primario del calcolo dell’”impronta ambientale di un prodotto” è ridurre gli impatti ambientali di tale bene o servizio considerando tutte le attività della catena di fornitura, dall’estrazione delle materie prime, attraverso la produzione e l’uso, fino alla gestione del fine-vita.

Il Ministero dell’Ambiente ha avviato nel 2011 un’iniziativa denominata “Programma per la valutazione dell’impronta ambientale” dei prodotti/servizi/organizzazioni, che allineandosi alla sperimentazione PEF (Product Environmental Footprint) della Commissione Europea, si consolida con lo schema “Made Green in Italy”.

Con lo schema del “Made Green in Italy”, il Ministero dell’Ambiente intende perseguire i seguenti obiettivi:

  • Promuovere modelli sostenibili di produzione e consumo e contribuire ad attuare le indicazioni della strategia definita dalla Commissione Europea.
  • Stimolare il miglioramento continuo delle prestazioni ambientali dei prodotti e, in particolare, la riduzione degli impatti ambientali che questi generano durante il loro ciclo di vita.
  • Favorire scelte informate e consapevoli da parte dei cittadini, nella prospettiva di promuovere lo sviluppo del consumo sostenibile, garantendo la trasparenza e la comparabilità delle prestazioni ambientali di tali prodotti.
  • Rafforzare l’immagine, il richiamo e l’impatto comunicativo che distingue i prodotti, attraverso l’adozione del metodo PEF – Product Environmental Footprint come definito nella Raccomandazione 2013/179/CE e s.m.i, e associandovi inoltre aspetti di tracciabilità, qualità ambientale, qualità del paesaggio e sostenibilità sociale.
  • Definire le modalità più efficaci per valutare e comunicare l’impronta ambientale dei prodotti del sistema produttivo italiano, al fine di sostenerne la competitività sui mercati nazionali e internazionali.
  • Valorizzare le esperienze positive di qualificazione ambientale dei prodotti di cluster di piccole imprese, attraverso l’adozione di misure atte ad agevolare l’adesione allo Schema “Made Green in Italy” da parte di gruppi di imprese.

L’origine di questa previsione, che trae ora la sua norma di attuazione del decreto 21/3/2018 n. 56, deve ricercarsi nell’art. 21, comma 1 della Legge n. 221/2015 (“Collegato Ambiente”) recante “Disposizioni in materia ambientale per promuovere misure di green economy e per il contenimento dell’uso eccessivo di risorse naturali”, il quale istituisce lo Schema nazionale volontario per la valutazione e la comunicazione dell’impronta ambientale dei prodotti, denominato «Made Green in Italy», al fine di promuovere la competitività del sistema produttivo italiano nel contesto della crescente domanda di prodotti ad elevata qualificazione ambientale sui mercati nazionali ed internazionali.

Tale schema adotta la metodologia PEF per la determinazione dell‘impronta ambientale dei prodotti (PEF, Product Environmental Footprint), come definita nella raccomandazione 2013/179/UE della Commissione, del 9 aprile 2013.

Il decreto in sintesi:

  • Anzitutto si prevede espressamente che il gestore dello schema del Made Green in Italy sia il Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare.
  • Le RCP ( cioè le “REGOLE DI CATEGORIA DI PRODOTTO”) sono le indicazioni metodologiche rilasciate dal gestore dello schema che definiscono regole e requisiti obbligatori e facoltativi necessari alla conduzione di studi relativi all’impronta ambientale per una specifica categoria di prodotto;
  • I soggetti proponenti le RCP  sono quei soggetti (privati o pubblici) costituiti da almeno tre aziende – di cui almeno una piccola e media impresa secondo la definizione fornita dal decreto del Ministro delle attivita’ produttive del 18 aprile 2005 – che rappresentano la quota maggioritaria del settore della specifica categoria di prodotto per la quale si intende proporre l’elaborazione di RCP all’interno dello schema; per quota maggioritaria si intende oltre il 50% della produzione nazionale (fatturato) riferita all’anno solare precedente alla proposta di RCP.
  • I soggetti proponenti la RCP inviano al Ministero la richiesta per elaborare una proposta di RCP relativa a una specifica categoria di prodotto, utilizzando il modulo A di cui all’allegato I. La richiesta  e’ effettuata con una delle modalita’ di cui all’articolo 65, del decreto legislativo 7 marzo 2005, n. 82. Il gestore dello schema, entro trenta giorni dall’acquisizione della richiesta, con provvedimento motivato accoglie la richiesta o chiede l’integrazione degli atti. Entro centottanta giorni dall’accoglimento della richiesta, i soggetti proponenti trasmettono al gestore dello schema la proposta di RCP utilizzando il modulo B di cui all’allegato I. Qualora per una specifica categoria di prodotto sia stata definita una PEFCR in sede europea, questa deve essere recepita nella RCP ed integrata con i requisiti addizionali obbligatori e facoltativi.  Il gestore dello schema sottopone la proposta di RCP a consultazione pubblica della durata di trenta giorni. Le RCP che recepiscono le PEFCR europee sono sottoposte a consultazione pubblica solo per le parti delle RCP aggiuntive rispetto a quanto recepito dalla corrispondente PEFCR.  Entro trenta giorni dal termine della consultazione pubblica, i soggetti proponenti la RCP trasmettono la proposta revisionata al gestore dello schema, corredata da motivazioni scritte relativamente ai commenti non recepiti.
  • Le sopracitate “PEFCR” sono le regole di categoria relative all’impronta ambientale dei prodotti cioè regole, basate sul ciclo di vita, specifiche per tipologia di prodotto elaborate nell’ambito del progetto pilota Environmental Footprint (EF) della Commissione europea, che complementano il metodo PEF identificando ulteriori requisiti per una data categoria di prodotto;
  • Il  «metodo PEF» a sua volta è il metodo di determinazione dell’impronta ambientale di prodotto come definito dalla raccomandazione 2013/179/UE della Commissione europea e dalle Linee guida PEF. Le linee guida PEF (Product Environmental Footprint)sono invece quelle linee guida, metodi, prescrizioni tecniche ed altri documenti di interesse comune sviluppati nell’ambito della applicazione pilota europea del metodo PEF e approvate nell’ambito del progetto PEF della Commissione europea, rese disponibili dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare sul proprio sito istituzionale;
  • Le RCP hanno una validita’ di quattro anni. Novanta giorni prima della scadenza del termine di validita’, il gestore dello schema avvia una consultazione pubblica della durata di trenta giorni per il loro aggiornamento. Il gestore dello schema procede all’aggiornamento della RCP e alla relativa pubblicazione con validita’ di ulteriori quattro anni;
  • Possono chiedere l’adesione allo schema i produttori di prodotti classificabili come Made in Italy, cioè quei prodotti originari dell’Italia nel rispetto di quanto stabilito dall’articolo 60 del regolamento (UE) n. 952/2013 del Parlamento europeo e del Consiglio del 9 ottobre 2013, che istituisce il codice doganale dell’Union. L’adesione allo schema e’ limitata a quei prodotti per i quali esiste una RCP in corso di validita’. Il soggetto richiedente invia la relativa richiesta al gestore dello schema, secondo le modalita’ di cui all’allegato II.
  •  Il soggetto richiedente sottopone la documentazione indicata in allegato II, punto 1 – numero 2) ad una procedura di verifica effettuata da un verificatore indipendente accreditato , secondo le modalità definite nella specifica procedura riportata in allegato III.  Dopo la prima verifica indipendente e convalida il rinnovo della verifica deve essere effettuato a cadenza triennale.
  • Entro trenta giorni dall’acquisizione della richiesta, il Minsitero dell’Ambiente, in caso di verifica positiva, concede la licenza d’uso del logo relativamente ai prodotti «Made Green in Italy» per la durata di tre anni dopodiché va rinnovata.
  • Importante rilevare come il Ministero dell’ambiente utilizza nei criteri ambientali minimi – CAM relativi alle nuove categorie di prodotti, nonche’ nei CAM gia’ approvati e pubblicati, l’adesione allo schema «Made Green in Italy» come strumento di verifica del rispetto delle specifiche tecniche, da parte delle stazioni appaltanti, laddove pertinenti e riguardanti il ciclo di vita del prodotto, tenuto conto delle previsioni di cui agli articoli 34 e 87 del decreto legislativo 18 aprile 2016, n. 50 (Nuovo codice degli appalti).

(LEGGI IL TESTO DEL DECRETO 21 marzo 2018, n. 56)

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Su una tematica parzialmente simile a questa, segnalo ai lettori anche una interessante sentenza del TAR Liguria, sezione Seconda, sentenza 10/7/2017, n. 598/2017 che tratta la questione del rapporto tra le clausole ecologiche e i requisiti di capacità tecnica e professionale richiesti dalla lex specialis di una gara pubblica.

Secondo i Giudici amministrativi, il possesso della certificazione di qualità UNI EN ISO 14067 rileva unicamente ai fini della validazione dei dati sul carbon footprint di prodotto (CFP) o impronta ambientale di prodotto, ma non fornisce elementi quantitativi sul livello del dato in questione. Tale certificazione è estranea alle specifiche tecniche (collegate ad un livello minimo della prestazione ambientale richiesta) indicate al punto 1 dell’allegato XIII del Codice dei Contratti pubblici che, ai sensi dell’art. 68 co.1 dello stesso, sono inserite nei documenti di gara e definiscono le caratteristiche previste per lavori, servizi o forniture. Tale indicazione generale quale requisito di partecipazione, senza che ad essa si accompagni quella di un “valore soglia” dell’impronta climatica richiesta, eccede l’oggetto dell’appalto e determina unicamente una irragionevole limitazione della concorrenza.

Il caso in esame prendeva avvio dall’impugnativa, da parte di un’azienda intenzionata a partecipare, della gara mediante procedura aperta per la fornitura di veicoli per la raccolta domiciliare dei rifiuti in noleggio a lungo termine.

La gara indicava quale criterio di ammissibilità, indice della capacità tecnica, il possesso della certificazione di qualità secondo le norme UNI EN ISO 14067, lo standard che individua con chiarezza la c.d. “impronta di carbonio” (CFB: Carbon footprint product), cioè la quantità di emissioni di gas-serra generate durante il ciclo di vita di un prodotto/servizio.

Come è noto, i criteri ecologici possono possono essere inseriti nei documenti di gara d’appalto sotto vari profili: l’oggetto dell’appalto, i criteri di selezione dei candidati (art.83 d.lgs.50/2016) e i criteri di aggiudicazione dell’appalto (art. 95 d.lgs.50/2016). 

Ciò è il frutto di una legislazione nazionale in materia di “appalti verdi” (Green Public Procurement) che, recependo progressivamente le Direttive 2004/18/CE e 2004/17/CE (che per la prima volta riconobbero la possibilità per gli enti aggiudicatori di valutare fattori non economici- tra cui quelli volti alla tutela dell’ambiente- ai fini della scelta del contraente), vede il suo punto di approdo nella legge 28/12/2015 n.221 (“Collegato ambientale 2015”), la cui disciplina è oggi confluita nel vigente Codice dei contratti pubblici. 

Dalla normativa nazionale e comunitaria vigente si trae che “criteri ecologici” possono essere inseriti come elementi da valutare nell’offerta economicamente più vantaggiosa, solo laddove siano collegati con l’oggetto dell’appalto, non conferiscano all’amministrazione aggiudicatrice una indiscriminata libertà di scelta, siano espressamente indicati nel capitolato o nel bando di gara e rispettino tutti i princìpi fondamentali del diritto comunitario, in primis quello di non discriminazione.

La sentenza in commento, che accoglie il ricorso, rileva che il richiesto possesso della certificazione di qualità secondo le norme UNI EN ISO 14067, quale requisito di partecipazione, senza che ad esso si accompagni quello di un “valore soglia” dell’impronta climatica richiesta, eccede l’oggetto dell’appalto e determina una irragionevole limitazione della concorrenza.

Tale certificazione è estranea alle specifiche tecniche indicate al punto 1 dell’allegato XIII del Codice dei Contratti pubblici (“i livelli della prestazione ambientale e delle ripercussioni sul clima”) che, ai sensi dell’art. 68 co.1 dello stesso, sono inserite nei documenti di gara e definiscono le caratteristiche previste per lavori, servizi o forniture, purché si riferiscano a fattori collegati all’oggetto dell’appalto.

Secondo il Giudice amministrativo, invero, il possesso della certificazione di qualità UNI EN ISO 14067 rileva unicamente ai fini della validazione del metodo di calcolo dei dati sul carbon footprint di prodotto (CFP) o impronta ambientale di prodotto, ma non fornisce elementi quantitativi sul livello del dato in questione.

Il carattere “generale” di tale certificazione, che ne conferma l’estraneità al concetto di “specifiche tecniche” che possono essere inserite nei documenti di gara, è testimoniato dall’art. 93 co.7 d.lgs.50/2016, che prevede una riduzione del 15% dell’importo della garanzia per la partecipazione appunto a una qualsiasi gara da parte degli operatori che possano vantare un’impronta climatica di prodotto ai sensi della norma UNI ISO/TS 14067.

L’indicazione di essa quale requisito di partecipazione avrebbe potuto giustificarsi solo laddove le si fosse accompagnata la richiesta di un “valore soglia” dell’impronta climatica. Altrimenti,non collegandosi- secondo il dettame dell’art. 68 co.1 e dell’allegato XIII del d.lgs.50/2016- ad un livello minimo della prestazione ambientale, tale previsione eccede l’oggetto dell’appalto e determina unicamente una irragionevole limitazione della concorrenza.

La pronuncia si pone in coerenza con altre pronunce dei Giudici amministrativi (per tutte, TAR Milano, Lombardia, Sez. I, 27/6/2013 n.1647).

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