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IL DISASTRO AMBIENTALE È RICONOSCIUTO COME CAUSA SUFFICIENTE PER BENEFICIARE DELLA PROTEZIONE UMANITARIA?

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IL DISASTRO AMBIENTALE È RICONOSCIUTO COME CAUSA SUFFICIENTE PER BENEFICIARE DELLA PROTEZIONE UMANITARIA?

Di Santi Marialuciana, Pavan Giulia

 

Secondo gli ultimi dati statistici analizzati dall’Agenzia Internazionale dell’Energia, la pandemia di COVID-19 ha comportato nel 2020 una diminuzione del 5,8% delle emissioni globali di CO2 causate dal settore energetico, il calo percentuale più alto dalla seconda guerra mondiale ad oggi. Si tratta di un decremento di quasi 2000 milioni di tonnellate di CO2, un record senza precedenti causato da forti riduzioni di domanda nei principali settori inquinanti a livello mondiale: settore petrolifero, del carbone, energetico, dell’aviazione e dei trasporti in generale1. Questa inversione di rotta rispetto al trend delle decadi precedenti sembra aver rappresentato però solo una fase temporanea dovuta alle varie fasi di lockdown nei diversi paesi; infatti, dicembre 2020 si è chiuso con un aumento del 2% delle emissioni di CO2 rispetto a dicembre 2019, con assenza pressoché totale di misure politiche adatte a promuovere energia pulita2. Questo non è l’unico dato preoccupante: di fatti, nonostante la presenza del raffreddamento globale dovuto a La Niña, il 2020 insieme al 2016 è stato uno tra gli anni più caldi mai registrati ed anche lo spettatore di una serie di disastri naturali notevolmente pericolosi. Giusto per citarne alcuni, si ricordano la c.d. stagione selvaggia degli uragani atlantici, le alluvioni intense in Cina che hanno colpito più di 25 milioni di persone e in India dove hanno portato alla morte più di duemila persone, le invasioni di locuste nell’Africa orientale con perdite stimate attorno ai 7 milioni e mezzo di euro ed, ancora, le stagioni di incendi apocalittici nella foresta amazzonica, in Australia e in California, che hanno subito un aumento inimmaginabile rispetto agli anni precedenti3. I danni del cambiamento climatico hanno colpito e continuano a colpire milioni di individui nelle varie zone del globo, soprattutto i soggetti che si trovano in situazioni di particolare vulnerabilità dovuta alle condizioni sia economiche che territoriali, appartenendo di solito a realtà rurali dipendenti dall’agricoltura e la pesca. Attraverso il suo Global Report on International Displacement 2020, l’International Displacement Monitoring Centre evidenzia come nel 2019 a fronte dei 33.4 milioni di rifugiati totali, ci siano stati 23.9 milioni di rifugiati causati da fenomeni distruttivi e rischi metereologici, sfollati a causa di tempeste, alluvioni, uragani e cicloni; la Direttrice del Centro afferma che dati così alti non sono mai stati registrati fino ad oggi4. Peraltro, il report della World Bank “Groundswell: Preparing for Internal Climate Migration”, concentrandosi su tre regioni – Africa subsahariana, Asia meridionale ed America Latina -, evidenzia come, in assenza di misure adeguate, queste tre macroaree potrebbero verosimilmente trovarsi ad affrontare, entro il 2050, la comparsa di oltre 140 milioni di nuovi rifugiati climatici interni. Eppure, nonostante il problema sia di epocale entità, questi dati rendono ancora più sconcertante il fatto che questi individui non siano coperti da alcun tipo di protezione a livello di convenzioni internazionali, non vi è infatti il riconoscimento della figura del ‘rifugiato climatico’. L’Organizzazione Internazionale per le Migrazioni sopperisce alla mancanza di definizioni adeguate, differenziando tra migrante ambientale e sfollato ambientale’: il primo è identificabile come un soggetto o gruppo di persone che si è trovato costretto ad abbandonare la propria abitazione, e talvolta persino il proprio paese, a causa delle pressioni imposte da eventi come quelli sopracitati, in quanto impattanti negativamente sulla loro vita o sulle loro condizioni di vita. Il termine ‘sfollato ambientale’ indica invece quella categoria di persone che hanno dovuto spostarsi nel proprio paese o all’estero e «per le quali il degrado, il deterioramento o la distruzione dell’ambiente è una causa principale del loro spostamento, anche se non necessariamente l’unica».

Come precedentemente accennato, la dicitura ‘rifugiato climatico’ è da ritenersi impropria in quanto non approvata dall’UNHCR, che preferisce parlare di «persone sfollate nel contesto di disastri e cambiamenti climatici». Va detto che la Convenzione sui rifugiati di Ginevra risalente al 1951 annovera il rifugiato quale individuo perseguitato per l’appartenenza ad un gruppo sociale, per la sua opinione politica o per questioni relative a religione o nazionalità, escludendo quindi come ‘agente persecutore’ l’ambiente e i suoi ineluttabili cambiamenti. Questo perché si tratta in realtà di una conseguenza involontaria, sebbene negligente, di attività inquinanti a livello globale di una moltitudine di attori nazionali e internazionali. Inoltre, secondo la Convenzione di Ginevra5, i migranti rifugiati potranno fare ritorno ai propri territori quando la persecuzione sia giunta al termine; lo stesso non si può dire nel caso in cui vi siano stati cambiamenti estremi e permanenti a livello climatico, come nel caso della sommersione subacquea. Si ha eccezione e quindi applicazione della protezione umanitaria solamente in casi specifici in cui l’elemento della persecuzione diviene effettivamente centrale, costituendo quindi una ragione per se. A titolo di esempio, l’eventualità in cui i gruppi vulnerabili che costituiscono gli sfollati interni siano stati assoggettati a politiche discriminatorie da parte di governi non in grado di gestire la situazione, così da essere legittimati nel muoverli in zone considerate inabitabili. Questo tipo di politiche, spesso sfocianti in disordini civili e crimini d’odio, giustificano l’applicazione della Convenzione ai richiedenti asilo per cause climatiche.

Volgendo lo sguardo all’ordinamento italiano, è possibile osservare come un obbligo positivo di protezione a fronte di un rischio derivante da eventi naturali abbia trovato un (parziale) riconoscimento attraverso la concessione della protezione umanitaria. Nello specifico, anche sulla base della Circolare della Commissione Nazionale per il Diritto di Asilo6, la Corte di Cassazione aveva già riconosciuto la protezione umanitaria in ragione di disastri naturali e aveva già fatto riferimento a siccità e carestie come fattori che possono contribuire ad un impoverimento tale da non offrire la possibilità di vita all’interno del Paese di origine7. Più recentemente, la Suprema Corte ha compiuto ulteriori passi in avanti, fornendo indicazioni anche in termini di onere probatorio8. Da ultimo, di notevole importanza, è da segnalare il seguente principio di diritto affermato dalla Seconda Sezione Civile della Corte di Cassazione, in tema di protezione umanitaria, con l’ordinanza n. 5022 del 24 febbraio 2021 -: «Ai fini dell’accertamento, o del diniego, della protezione umanitaria prevista dall’art. 19, commi 1 e 1.1, del D.lgs. n. 286 del 1998, il concetto di “nucleo ineliminabile costitutivo dello statuto della dignità personale”, individuato dalla giurisprudenza di questa Corte […] costituisce il limite minimo essenziale al di sotto del quale non è rispettato il diritto individuale alla vita e all’esistenza dignitosa. Detto limite va apprezzato dal giudice di merito non soltanto con specifico riferimento all’esistenza di una situazione di conflitto armato, ma con riguardo a qualsiasi contesto che sia, in concreto, idoneo ad esporre i diritti fondamentali alla vita, alla libertà e all’autodeterminazione dell’individuo al rischio di azzeramento o riduzione al di sotto della predetta soglia minima, ivi espressamente inclusi – qualora se ne ravvisi in concreto l’esistenza in una determinata area geografica – i casi del disastro ambientale, definito dall’art. 452-quater c.p., del cambiamento climatico e dell’insostenibile sfruttamento delle risorse naturali ».

Nel caso in esame, il Tribunale ha riconosciuto che il luogo di provenienza del ricorrente – il delta del Niger – è interessato da una situazione di notevole dissesto ambientale, causata dallo sfruttamento indiscriminato dell’area da parte delle compagnie petrolifere e dai conflitti etnico-politici esistenti dagli anni Novanta del secolo scorso. Oltre alla contaminazione di vaste aree a seguito di sversamenti di petrolio, l’area è soggetta a numerosi sabotaggi e furti, danneggiamenti e rapimenti di personalità pubbliche, aggressioni anche a danno delle forze di polizia da parte di gruppi paramilitari. Situazione ulteriormente esasperata dalle condizioni economiche della popolazione che non beneficia delle risorse naturali del territorio e versa in condizioni di indigenza e continua incertezza legata alla difficoltà governativa nel salvaguardare l’ordine pubblico.

La Corte, nel pronunciarsi, ha ritenuto di dover considerare le conclusioni a cui era giunto il Comitato delle Nazioni Unite che si era espresso in proposito nel caso Teitiota9. Nelle conclusioni, depositate il 7 gennaio 2020, «[…] il Comitato ONU ha ritenuto che il principio generale del non refoulement, che vieta il rimpatrio di un richiedente asilo in un contesto territoriale in cui ci siano sostanziali rischi di danno irreparabile alla sua incolumità personale o a quella dei suoi familiari, si applica a tutte le condizioni di pericolo, poiché il diritto individuale alla vita comprende anche quello ad una esistenza dignitosa e alla libertà da ogni atto od omissione che possa causare una innaturale o prematura scomparsa della persona umana». Nonostante nel caso di specie il Comitato abbia respinto il ricorso in quanto non era stata oltrepassata la soglia di pericolo che avrebbe portato al riconoscimento della violazione del diritto alla vita, è stata la prima volta che un organo di garanzia internazionale si è occupato di un ricorso di un richiedente asilo che ha addotto a motivazione della sua domanda ragioni climatiche aprendo la strada al riconoscimento, tra i possibili motivi idonei all’accoglimento della richiesta di asilo, delle avverse ed estreme condizioni climatiche presenti in uno Stato.

Ancora, la Corte, riprendendo le considerazioni del Comitato ONU, sottolinea che: «[…] il degrado ambientale […] può compromettere l’effettivo godimento dei diritti umani individuali, al pari del cambiamento climatico e degli effetti causati, in generale, dallo sviluppo insostenibile; ciò si verifica quando il governo locale non può, o non vuole, assicurare le condizioni necessarie a garantire a tutti l’accesso alle risorse naturali essenziali, quali la terra coltivabile e l’acqua potabile, con conseguente compromissione del diritto individuale alla vita».

Viene, dunque, confermato nuovamente quanto già emerso dal General Comment n. 36 del 2018 del Comitato dei Diritti Umani secondo cui il diritto alla vita non è limitato alla mera esistenza, ma comprende un campo di applicazione più ampio ed il diritto al godimento di una vita dignitosa. In questa cornice, indubbiamente, il degrado ambientale, il cambiamento climatico e lo sviluppo insostenibile costituiscono alcune delle più pressanti e gravi minacce alla capacità delle generazioni presenti e future di godere del diritto alla vita10. A conferma di ciò, nel 2015 il preambolo dell’Accordo di Parigi11 per la prima volta riconosce una correlazione tra diritti umani e cambiamento climatico, affermando che gli Stati Membri debbano tenerli in debita considerazione nel programmare i propri target relativi alle azioni di mitigazione e adattamento, così come di sviluppo sostenibile. Necessità tanto più avvertita a seguito della diffusione globale del COVID-19: sembra opportuno che la risposta globale al virus sia ideata e messa in atto congiuntamente alle azioni poste in essere per fronteggiare i cambiamenti climatici, per proteggere la salute, promuovere un’economia sostenibile, preservare il pianeta e garantire il diritto di poter scegliere se restare nel proprio paese d’origine o partire12.

In tale ottica, sono già state intraprese azioni per rafforzare la resilienza e l’adattabilità degli sfollati e delle comunità ospitanti per ridurre gli effetti del degrado ambientale, giocando d’anticipo anche sulle cause che potenzialmente potrebbero portare ad un aumento indiscriminato del numero di migranti. Per fronteggiare gli sfollamenti che non è stato possibile evitare, invece, sono state predisposte iniziative quali meccanismi di coordinamento efficaci ed inclusivi in Indonesia, sistemi di monitoraggio in Mali, o ancora la Piattaforma sullo Sfollamento per Disastri (Platform on Disaster Displacement – PDD) creata in collaborazione tra varie organizzazioni delle Nazioni Unite per incentivare coerenza e guida legale e normativa, condivisione delle conoscenze, sensibilizzazione, sostegno alla riduzione del rischio di disastri, l’azione per il clima, l’energia pulita e la sostenibilità ambientale.

Si ritiene pertanto, alla luce della rinnovata giurisprudenza italiana sovraesposta e dei dati statistici e predittivi riportati precedentemente, che sia auspicabile – oltre al potenziamento della cooperazione internazionale per l’adozione di programmi comuni volti alla prevenzione, al monitoraggio e alla gestione di simili flussi – anche un allineamento normativo da parte della Convenzione di Ginevra sui rifugiati, che muovendo da una definizione internazionalmente riconosciuta ed accettata di rifugiato climatico arrivi a delineare casi e modalità di applicazione della protezione umanitaria e quindi anche del riconoscimento del diritto d’asilo.

1 Global Energy Review: CO2 Emissions in 2020. Understanding the Impacts of Covid-19 on Global CO2 Emissions, 2021.
2 After steep drop in early 2020, global carbon dioxide emissions have rebounded strongly, International Energy Agency, 2021.
3 Charis Chang, The world’s 10 most destructive climate disasters of 2020, Nationwide News Pty, 28 Dicembre 2020.
4 International Displacement Monitoring Centre e Norwegian Refugee Council, Global Report on International Displacement 2020 (GRID), Aprile 2020.
5 Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati (meglio conosciuta come Convenzione di Ginevra sui rifugiati), Conferenza dei plenipotenziari delle Nazioni Unite sullo status dei rifugiati e degli apolidi, 28 Luglio 1951.
6 Circolare del 30.07.2015 «Ottimizzazione delle procedure relative all’esame delle domande di protezione internazionale. Ipotesi in cui ricorrono i requisiti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari». 7 Corte di Cassazione, sent. n. 4455/2018.
8 Corte di Cassazione, sez. I, sent. n. 7832/2019; Corte di Cassazione, sent. n. 2563/2020. Dalle citate pronunce emerge l’importanza dell’allegazione precisa e puntuale dei fatti che hanno costretto all’allontanamento dal Paese di origine e alla loro connessione con gli eventi naturali disastrosi ed anche la necessità di dimostrare, seppur con un onere della prova attenuato, una possibile lesione di primari diritti della persona derivante dagli eventi allegati.
9 Ioane Teitiota v. New Zealand, CCPR/C/127/D/2728/2016, UN Human Rights Committee (HRC), 7 Gennaio 2020
10 General Comment No. 36 (2018) on Article 6 of the International Covenant on Civil and Political Rights, on the right to life, para. 6.2.
11 Accordo di Parigi, FCCC/CP/2015/10/Add.1, 12 Dicembre 2015
12 Rapporto 2020 The Lancet Countdown on health and climate change: responding to converging crisis.

Bibliografia

Accordo di Parigi, FCCC/CP/2015/10/Add.1, 12 Dicembre 2015.
After steep drop in early 2020, global carbon dioxide emissions have rebounded strongly, International Energy Agency, 2021.
Charis Chang, The world’s 10 most destructive climate disasters of 2020, Nationwide News Pty, 28 Dicembre 2020.
Circolare del 30.07.2015 «Ottimizzazione delle procedure relative all’esame delle domande di protezione internazionale. Ipotesi in cui ricorrono i requisiti per il rilascio del permesso di soggiorno per motivi umanitari».
Convenzione relativa allo statuto dei rifugiati (meglio conosciuta come Convenzione di Ginevra sui rifugiati), Conferenza dei plenipotenziari delle Nazioni Unite sullo status dei rifugiati e degli apolidi, 28 Luglio 1951.
Corte di Cassazione, sent. n. 4455/2018.
Corte di Cassazione, sez. I, sent. n. 7832/2019; Corte di Cassazione, sent. n. 2563/2020.
General Comment No. 36 (2018) on Article 6 of the International Covenant on Civil and Political Rights, on the right to life, para. 6.2.
Global Energy Review: CO2 Emissions in 2020. Understanding the Impacts of Covid-19 on Global CO2 Emissions, 2021.
International Displacement Monitoring Centre e Norwegian Refugee Council, Global Report on International Displacement 2020 (GRID), Aprile 2020.
Ioane Teitiota v. New Zealand, CCPR/C/127/D/2728/2016, UN Human Rights Committee
(HRC), 7 Gennaio 2020.
Rapporto 2020 The Lancet Countdown on health and climate change: responding to converging crisis.

 

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