di Carlo Rapicavoli –
Fra le disposizioni contenute nel disegno di legge Delrio su Province e Città Metropolitane, fra le molteplici criticità da più parti sollevate, vi è un aspetto che merita particolare attenzione.
L’art. 13, comma 1, del ddl prevede che “In sede di prima applicazione della presente legge, il presidente della provincia o il commissario, in carica alla data di entrata in vigore della presente legge, convoca l’assemblea dei sindaci per l’elezione del presidente della provincia ai sensi dell’articolo 12, commi 2 e 3, che si svolge entro venti giorni dalla proclamazione dei sindaci eletti a seguito delle prime consultazioni amministrative successive alla data di entrata in vigore della presente legge. In ogni caso sono prorogati gli organi provinciali in carica alla data di entrata in vigore della presente legge, ivi compresi eventuali commissari, fino alla data di insediamento del nuovo presidente e del nuovo consiglio provinciale”.
Tale disposizione, se approvata senza modifiche, comporterebbe la decadenza anticipata degli organi democraticamente eletti.
E’ stato, ad oggi, presentato un unico emendamento (n. 13.14) in Commissione affari Costituzionali della Camera per rimediare a tale situazione, peraltro non ripreso dagli emendamenti dei relatori.
Anche lo stesso Ministro Delrio si era impegnato in tal senso: “Vi sono miglioramenti tecnici che si possono adottare anche riguardo i suggerimenti del Servizio Studi delle Camere. In particolare si può procedere, ad un ulteriore chiarimento circa la trasformazione in un tempo successivo di quelle Province che andranno a scadenza negli anni del 2015 in poi”.
Si tratta, in particolare, di tredici Amministrazioni Provinciali i cui organi sarebbero in scadenza nel 2015 e nel 2016.
La decadenza anticipata degli organi, così determinata, è in palese contrasto con la Costituzione
La Corte Costituzionale, chiamata a pronunciarsi nel giudizio di legittimità costituzionale degli articoli 1, 2, 3 e 4 della legge della Regione Sardegna 1° luglio 2002, n. 10, recante “Adempimenti conseguenti alla istituzione di nuove province, norme sugli amministratori locali e modifiche alla legge regionale 2 gennaio 1997, n. 4”, promosso con ricorso del Presidente del Consiglio dei ministri, nella sentenza n. 48 del 10 febbraio 2003, accogliendo il ricorso del Governo, ha affermato principi chiarissimi al riguardo, su cui si fonda il principio della rappresentanza democratica.
Nella sentenza si legge:
“Tra i principi che si ricavano dalla stessa Costituzione vi è certamente quello per cui la durata in carica degli organi elettivi locali, fissata dalla legge, non è liberamente disponibile nei casi concreti.
Vi è un diritto degli enti elettivi e dei loro rappresentanti eletti al compimento del mandato conferito nelle elezioni, come aspetto essenziale della stessa struttura rappresentativa degli enti, che coinvolge anche i rispettivi corpi elettorali.
Un’abbreviazione di tale mandato può bensì verificarsi, nei casi previsti dalla legge, per l’impossibilità di funzionamento degli organi o per il venir meno dei presupposti di “governabilità” che la legge stabilisce (cfr. ad es. gli artt. 53 e 141, comma 1, lettere b e c, del testo unico delle leggi sull’ordinamento degli enti locali approvato con il d.lgs. 18 agosto 2000, n. 267), ovvero in ipotesi di gravi violazioni o di gravi situazioni di pericolo per la sicurezza pubblica che la legge sanzioni con lo scioglimento delle assemblee (cfr. ad es. l’art. 141, comma 1, lettera a, e l’art. 143 del citato testo unico).
Tuttavia le ipotesi eccezionali di abbreviazione del mandato elettivo debbono essere preventivamente stabilite in via generale dal legislatore.
Tra di esse non è escluso che possa ricorrere anche il sopravvenire di modifiche territoriali che incidano significativamente sulla componente personale dell’ente, su cui si basa l’elezione: come, ad esempio, prevede per il caso degli organi comunali l’art. 8, quarto comma, lettera a, del d.P.R. 16 maggio 1960, n. 570 (non compreso nell’abrogazione espressa disposta dall’art. 274, comma 1, lettera e, del testo unico n. 267 del 2000), secondo cui si procede alla rinnovazione integrale del consiglio comunale quando, per effetto di una modificazione territoriale, si sia verificata una variazione di almeno un quarto della popolazione del Comune.
Ma, ancora una volta, una siffatta ipotesi dovrebbe essere prevista e disciplinata in via generale dalla legge, ovviamente sulla base di presupposti non irragionevoli.
In ogni caso, non può essere una legge provvedimento, disancorata da presupposti prestabiliti in via legislativa, a disporre della durata degli organi eletti.
Proprio questa, invece, è la portata della norma qui impugnata. Essa, nel prevedere che si proceda all’elezione degli organi delle nuove Province, stabilisce altresì che decadano di diritto quelli delle Province preesistenti, nel logico presupposto che non possa darsi una doppia contemporanea rappresentanza, nell’ambito di organi elettivi preesistenti e di organi di nuova elezione, delle popolazioni dei territori oggetto della variazione territoriale.
Tuttavia, tale previsione di abbreviazione del mandato degli organi delle Province preesistenti (eletti solo tre anni fa) non trova supporto in alcuna disciplina a carattere generale che la contempli e ne precisi i presupposti.
Ora, nella legislazione statale sulle Province l’ipotesi di una abbreviazione del mandato degli organi provinciali a seguito di variazioni territoriali non è contemplata (l’art. 8, quarto comma, lettera a, del d.P.R. n. 570 del 1960 si riferisce infatti ai soli consigli comunali): gli unici casi di scioglimento anticipato sono quelli previsti dai citati articoli 53, 141 e 143 del testo unico approvato con il d.lgs. n. 267 del 2000.
Tant’è che in tutti i provvedimenti legislativi con cui sono state istituite nuove Province fuori del territorio delle Regioni speciali, e in particolare in occasione della istituzione di otto nuove Province attuata ai sensi dell’art. 63 della legge 8 giugno 1990, n. 142, si è invariabilmente previsto che l’elezione dei nuovi consigli avesse luogo nel successivo turno generale delle consultazioni amministrative (pur mancando, all’epoca, ancora un triennio a tale data), cioè alla scadenza naturale dei consigli preesistenti, salva l’ipotesi di scioglimento anticipato di questi ultimi per altra causa (cfr. l’art. 3, comma 2, dei decreti legislativi 6 marzo 1992, nn. 248, 249, 250, 251, 252, 253, 254, e del d.lgs. 30 aprile 1992, n. 277).
La norma impugnata, intervenendo solo sull’elezione, in questa unica occasione, degli organi delle nuove Province e di quelle preesistenti – dunque con la tecnica della legge provvedimento -, dispone invece che tale elezione avvenga anticipando “di diritto” il termine del mandato degli organi già eletti: con ciò ponendosi in contraddizione con i principi che si sono sopra delineati circa le garanzie costituzionali del mandato degli organi elettivi locali”.
In generale, sulla trasformazione delle Province in enti di secondo grado, va ricordato l’appello di 44 costituzionalisti che hanno chiaramente rilevato come “non si possono svuotare di funzioni enti costituzionalmente previsti e costitutivi della Repubblica (art. 114), né eliminare la diretta responsabilità politica dei loro organi di governo nei confronti dei cittadini, trasformando surrettiziamente la Provincia in un ente associativo tra i Comuni, mentre le funzioni da svolgere non sono comunali”.
Un’affermazione di principio che trova conferma nella giurisprudenza della Corte Costituzionale fondata sull’art. 5 della Carta Costituzionale: “La Repubblica, una ed indivisibile, riconosce e promuove le autonomie locali”.
Nella sentenza 106/2002 si legge: “Il nuovo Titolo V ha disegnato di certo un nuovo modo d’essere del sistema delle autonomie. Tuttavia i significativi elementi di discontinuità nelle relazioni tra Stato e regioni che sono stati in tal modo introdotti non hanno intaccato le idee sulla democrazia, sulla sovranità popolare e sul principio autonomistico che erano presenti e attive sin dall’inizio dell’esperienza repubblicana. Semmai potrebbe dirsi che il nucleo centrale attorno al quale esse ruotavano abbia trovato oggi una positiva eco nella formulazione del nuovo art. 114 della Costituzione, nel quale gli enti territoriali autonomi sono collocati al fianco dello Stato come elementi costitutivi della Repubblica quasi a svelarne, in una formulazione sintetica, la comune derivazione dal principio democratico e dalla sovranità popolare“.
La Corte ritiene che l’elezione a suffragio universale costituisca la forma più squisitamente politica di esercizio di quella sovranità che l’art. 1 della Costituzione attribuisce al popolo (Sentenza 107/1976). Perciò tale forma di elezione consente di individuare la natura di un ente come autonomo (così sent. cit. 107/1976 e sent. 876/1988).
Va ricordata la raccomandazione 337 (2013) del Congresso dei poteri locali e regionali del Consiglio d’Europa che ha deplorato l’introduzione dell’elezione indiretta per gli organi provinciali prevista dalla riforma effettuata nella XVI legislatura e incisa dalla sent. 220/2013 citata.
Nell’ambito del Consiglio d’Europa, la Carta europea del governo locale (firmato il 15 ottobre 1985 e ratificato l’11 maggio 1990, con entrata in vigore il 1° settembre 1990), all’art. 3 comma 2, in tema di diritto e responsabilità di governo locale, stabilisce che tale diritto “shall be exercised by councils or assemblies composed of members freely elected by secret ballot on the basis of direct, equal, universal suffrage, and which may possess executive organs responsible to them”.
Sulla ulteriore proroga dei commissariamenti infine è sufficiente ricordare la sentenza della Corte Costituzionale n. 103/1993, che, nel considerare costituzionalmente legittima l’ipotesi di scioglimento dei consigli per infiltrazioni mafiose, ha sottolineato come “l’aspetto proprio delle autonomie, quale quello della rappresentatività degli organi di amministrazione, possa temporaneamente cedere di fronte alla necessità di assicurare l’ordinato svolgimento della vita delle comunità locali, nel rispetto delle libertà di tutti ed al riparo da soprusi e sopraffazioni, estremamente probabili quando sui loro organi elettivi la criminalità organizzata possa immediatamente riprendere ad esercitare pressioni e condizionamenti”.
Si tratta evidentemente di ipotesi eccezionali che non sussistono assolutamente nelle previsioni di cui oggi si discute.
E va notato che la sentenza 103/1993 è precedente alla modifica del titolo V della Costituzione, che ha riconosciuto, rafforzato e garantito ulteriormente lo status degli Enti Locali.
Un’ultima notazione rispetto ai presunti risparmi derivanti dalla soppressione degli organi elettivi.
Il Ministro Delrio ha in più occasioni affermato che il costo politico delle Province è pari ad oltre 130 milioni di Euro, salvo poi precisare che, in base ai dati SIOPE 2010, si tratta di 113 milioni l’anno.
E a rendere più efficace l’affermazione dichiara che il risparmio dei costi delle rappresentanze politiche delle Province vale circa 11.300 posti negli asili nido italiani.
Si tratta di un dato errato e volutamente manipolato e demagogico.
I costi non sono di 113 milioni, ma meno della metà, se si tiene conto – cosa che il Ministro evita appositamente di fare – della futura composizione degli organi delle Province che deriverebbe prima dell’applicazione del Decreto Legge n. 2 del 2010, che ha ridotto del 20% il numero di consiglieri ed assessori, e poi del Decreto Legge n. 138 del 2011 che ha ridotto della metà il numero di consiglieri ed assessori.
Pertanto, solo per fare un esempio, Province come Padova o Verona che oggi hanno 36 consiglieri provinciali, in occasione del rinnovo del 2014 avrebbero un consiglio provinciale di 14 consiglieri e passerebbero da 12 a 4 assessori.
Parliamo dunque di una spesa massima, non di 110 milioni di euro, ma di 34 milioni di Euro l’anno per gli organi di tutte le Province italiane.
Appena 34 milioni di Euro che rappresentano una percentuale irrisoria solo se si pensa agli enormi tagli già sopportati dalle stesse Province.
Si potrebbe facilmente obiettare che vanno aggiunti i costi delle elezioni.
Ebbene anche in questo caso, se vi fosse la volontà politica, l’obiezione potrebbe essere facilmente superata.
Basterebbe far coincidere a regime le elezioni provinciali con quelle regionali, prevedendo dei correttivi per allineare le scadenze e prevedere i rimedi in caso di cessazione anticipata ed il tema sarebbe risolto.
Invece non si vuole affrontare seriamente il tema.
Continuando l’impostazione voluta dal Governo Monti, si insiste prima sul commissariamento delle Province, con casi come Belluno ormai amministrate da un commissario prefettizio da più di due anni e poi con la cancellazione della rappresentanza democratica.
Alla luce di tali aspetti, perché mai procedere ostinatamente in un percorso di riforma palesemente in contrasto con l’ordinamento costituzionale?