IL CASO TARANTO.
IL RISARCIMENTO IURE PROPRIO IN SEDE CIVILE PER LE ASSOCIAZIONI AMBIENTALISTE (IN RELAZIONE AI REATI AMBIENTALI)*.
SENTENZA N. 508/17 DEL TRIBUNALE DI TARANTO.
Avv. Marcello Scapati
Avv. Arianna Volpe
Al fine di poter sviluppare un elaborato che tratti della riconosciuta legittimazione ad agire per gli enti territoriali nell’ambito del danno ambientale, alla luce della vasta dottrina e giurisprudenza in materia esistenti, è presupposto indefettibile accennare alla definizione del concetto di ambiente e, soprattutto, approfondirne l’aspetto risarcitorio. Ad onor del vero non esiste una definizione chiara e univoca del concetto di ambiente a causa dei diversi intuiti cristallizzati in letteratura ed in diritto, tanto in ambito nazionale che europeo. Ad esempio, c’è chi definisce l’ambiente come l’insieme di tutti gli aspetti umani, politici e fisici di una società, mentre c’è chi asserisce che l’ambiente debba rivestire una connotazione esclusivamente fisica e biologica.
Di contro, la più ampia definizione, adottata dal Consiglio di Europa, è quella secondo cui ‘l’ambiente comprende le risorse naturali abiotiche e biotiche, quali l’aria, l’acqua, il suolo, la fauna e la flora, l’interazione tra questi fattori, i beni che formano il patrimonio culturale e gli aspetti caratteristici del paesaggio’. L’emergenza sulla questione ambientale oltre ad essere attuale, soprattutto in una realtà come quella di Taranto che oserei dire è la patria dell’inquinamento economico e collettivo oltre che della dimenticanza dei piani politici più alti, rileva essere di primo ordine tenuto conto della esistenza e vigenza di norme che, stabilendo un regime di responsabilità ambientale (polluter pays principle), permettono non solo alla collettività di essere risarcita in caso di danno all’ambiente. Dal punto di vista normativo è fatto espresso richiamo dell’art. 18 della Legge n. 349/86 che, al primo comma, testualmente recita: ‘qualunque fatto doloso o colposo in violazione di disposizioni di legge o di provvedimenti adottati in base a legge che comprometta l’ambiente, ad esso arrecando danno, alterandolo, deteriorandolo o distruggendolo in tutto o in parte, obbliga l’autore del fatto al risarcimento nei confronti dello Stato’. La valutazione del danno ambientale deve necessariamente fondarsi sullo stretto bilanciamento tra il bene ambientale ed il comportamento dei soggetti, come persona fisica o giuridica, che a qualsiasi titolo ne fruiscono causandovi pregiudizio. Gli Ermellini rammentano che la L. 8 luglio 1986, n. 349, art. 18, al comma 3, attribuiva allo Stato e agli enti territoriali sui quali incidevano i beni oggetto del fatto lesivo, la legittimazione a promuovere la relativa azione per il risarcimento del danno ambientale, anche in sede penale nei processi per reati contro l’ambiente: <<lo Stato rappresentava il massimo ente esponenziale della collettività nazionale, mentre, per gli enti territoriali, il danno ambientale si riteneva incidere direttamente sull’assetto del territorio, elemento costitutivo degli stessi>>. Sul tema della legittimazione ad agire il T.u. ambiente del 2006 ha apportato un vero e proprio cambio di rotta rispetto alla previgente L. 349/1986, laddove in essa (art. 18) si consentiva di promuovere l’azione di risarcimento del danno ambientale, oltre che allo Stato, altresì agli enti territoriali sui quali incidessero i beni oggetto del fatto lesivo. Il danno ambientale, ai sensi del “Testo unico ambiente”, d. lgs. 3 aprile 2006, n. 152 (di seguito anche solo “T.u.”), art. 300, c. 1, è definito <<qualsiasi deterioramento significativo e misurabile, diretto o indiretto, di una risorsa naturale o dell’utilità assicurata da quest’ultima>>.
Il T.u. citato, attuativo della legge delega 308 del 04.12.2004, a sua volta ispirata alla direttiva 2004/35 CE, dedica l’intera parte VI alla tutela risarcitoria contro i danni all’ambiente. Il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica, in sé considerato come lesione dell’interesse pubblico e generale dell’ambiente, ora previsto e disciplinato soltanto dall’art. 311 D.L.vo n.152\06 spetta esclusivamente allo Stato. Tutti gli altri soggetti, singoli o associati, ivi compresi gli enti pubblici territoriali e le regioni, sono legittimati ad agire, ex art. 2043 c.c., per ottenere qualsiasi risarcimento del danno patrimoniale, ulteriore e concreto, che abbiano dato prova di avere subito dalla medesima condotta lesiva dell’ambiente in attinenza alla lesione di altri loro diritti patrimoniali, diversi dall’interesse pubblico e generale alla tutela dell’ambiente (Cass. 21/10/2010, n. 41015; Cass. 11/2/2010, n. 14828). (conferma sentenza n. 10974/2007 Corte appello di Napoli, del 25/02/2009) pres. squassoni, est. gazzara, ric. Roma. Corte di Cassazione penale sez. iii, 27/5/201- sentenza n. 21311
La normativa vigente riserva allo Stato ed in particolare al ministro dell’ambiente e della tutela del territorio il potere di agire per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale, anche esercitando l’azione civile in sede penale (art. 311 D.L.vo n.152\06). Altresì, le regioni e gli enti territoriali minori, in forza dell’art. 309, co. 1, possono presentare denunce ed osservazioni nell’ambito di procedimenti finalizzati alla adozione di misure di prevenzione, precauzione e ripristino, oppure possono sollecitare l’intervento statale a tutela dell’ambiente, mentre non hanno più il potere di agire iure proprio per il risarcimento del danno ambientale. A seguito del citato mutamento legislativo, la legittimazione a costituirsi parte civile nei processi per reati ambientali spetta non soltanto al ministro dell’ambiente, ex art. 311 co. 1, d. L.vo 152/06, ma anche all’ente pubblico territoriale, che, per effetto della condotta illecita, abbia subito un danno patrimoniale risarcibile, ai sensi dell’art. 2043 c.c. Prima dell’emanazione del T.u. ambientale (d.lgs. n. 152 del 2006), la legge attribuiva la titolarità dell’azione di risarcimento del danno ambientale, anche se esercitata in sede penale, allo Statononché “agli enti territoriali sui quali incidano i beni oggetto del fatto lesivo” (così l’art. 18 co. 3 della Legge istitutiva del Ministero dell’ambiente – l. n. 349 del 1986 –, espressamente abrogato dall’art. 318 co. 2 lett. a) del t.u. ambientale). Il T.u. ambientale prevede invece oggi che sia unicamente lo Stato, attraverso il Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, ad agire, “anche esercitando l’azione civile in sede penale, per il risarcimento del danno ambientale in forma specifica e, se necessario, per equivalente patrimoniale”. Le regioni e gli enti territoriali minori, pertanto, non sono più legittimati ad agire iure proprio per il risarcimento del danno ambientale.A fronte di tale mutato quadro normativo, l’annotata pronuncia della Cassazione ha annullato senza rinvio – limitatamente alle statuizioni civili – una sentenza di condanna per il reato di deposito non autorizzato di rifiuti speciali non pericolosi provenienti da attività di costruzione e demolizione, realizzato sul suolo pubblico (art. 256, co. 2 d.lgs. n. 152/2006); sentenza con la quale era stato in particolare riconosciuto il diritto al risarcimento del danno alla provincia, di cui era stata ammessa – secondo la S.C. erroneamente – la costituzione di parte civile.Confermando il proprio univoco orientamento, la Cassazione ha peraltro precisato che, operando quale disposizione speciale rispetto all’art. 2043 c.c., l’art. 311 del d.lgs. n. 152 del 2006 riserva allo Stato, in persona del Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, la legittimazione ad agire in giudizio per il risarcimento del “danno ambientale di natura pubblica, in sé considerato come lesione dell’interesse pubblico e generale all’ambiente”. Ciò non toglie però che “tutti gli altri soggetti, singoli o associati, ivi compresi gli enti pubblici territoriali e le regioni, possano agire invece, in forza dell’art. 2043 c.c., per ottenere il risarcimento di qualsiasi danno patrimoniale ulteriore e concreto, che abbiano dato prova di aver subito dalla medesima condotta lesiva dell’ambiente in relazione alla lesione di altri diritti patrimoniali, diversi dall’interesse pubblico e generale alla tutela dell’ambiente come diritto fondamentale e valore a rilevanza costituzionale” (in senso conforme cfr. Cass. pen., sez. III, ud. 3 ottobre 2006, n. 36514, Censi, Ced Cassazione n. 235059; Cass. pen., sez. III, 28 ottobre 2009, n. 755, Ciaroni, ivi, n. 246015; Cass. pen., sez. III, 11 febbraio 2010, n. 14828, De Flammineis, ivi, 246812).L’intento accentratore, di ridimensionare il ruolo di questi ultimi, dei poteri del Ministero ambiente appare chiaramente dalle intenzioni del legislatore del 2006, così come professate nella relazione di accompagnamento al decreto: <<L’unificazione delle iniziative di precauzione, prevenzione, istruttoria ed ingiunzione del risarcimento nel centro decisionale ed operativo costituito dal Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio impedisce il fenomeno del proliferare delle iniziative giudiziarie mosse per lo stesso fatto di danno ambientale e nei confronti dello stesso operatore responsabile da una pluralità di enti (lo Stato, le regioni, le province, i comuni, le comunità montane, i consorzi, ecc.) e dalle associazioni non governative, nonché da singoli cittadini danneggiati personalmente>>. E si aggiunge <<soltanto queste ultime iniziative dei cittadini singoli sono state, ovviamente, conservate, mentre tutte le figure pubbliche e associative diverse dallo Stato vengono rese destinatarie soltanto di un compito di immediata segnalazione dell’esistenza del danno ambientale al Ministero dell’ambiente e della tutela del territorio>>.Abrogata, dunque, la possibilità di agire iure proprio per gli Enti territoriali, il mero potere di impulso viene disciplinato all’art. 309 del T.u., rubricato “Richiesta di intervento statale” secondo cui: <<Le regioni, le province autonome e gli enti locali, anche associati, nonché le persone fisiche o giuridiche che sono o che potrebbero essere colpite dal danno ambientale o che vantino un interesse legittimante la partecipazione al procedimento relativo all’adozione delle misure di precauzione, di prevenzione o di ripristino previste dalla parte sesta del presente decreto possono presentare al Ministro dell’ambiente e della tutela del territorio e del mare, depositandole presso le Prefetture – Uffici territoriali del Governo, denunce e osservazioni, corredate da documenti ed informazioni, concernenti qualsiasi caso di danno ambientale o di minaccia imminente di danno ambientale e chiedere l’intervento statale a tutela dell’ambiente a norma della parte sesta del presente decreto>>. Le organizzazioni non governative che promuovono la protezione dell’ambiente, sono riconosciute titolari del medesimo interesse. Precisamente, non essendo stato abrogato dalla nuova normativa il comma 5 dell’art. 18 della vecchia L. 349/1986, le associazioni ambientaliste (in possesso dei requisiti previsti e individuate dal Ministero) possono ancora intervenire nei giudizi per danno ambientale e ricorrere in sede di giurisdizione amministrativa per l’annullamento di atti illegittimi.Si è stabilito che, al di là della disciplina pubblicistica, restano ovviamente salve le comuni regole civilistiche per il ristoro del danno aquiliano: <<Resta in ogni caso fermo il diritto dei soggetti danneggiati dal fatto produttivo di danno ambientale, nella loro salute o nei beni di loro proprietà, di agire in giudizio nei confronti del responsabile a tutela dei diritti e degli interessi lesi>> (art. 313, c. 7, secondo periodo).In particolare, è stato affermato che, oltre alla pretesa risarcitoria (esclusivamente statale) del danno ambientale, in sé considerato come lesione dell’interesse pubblico e generale all’ambiente <<Tutti gli altri soggetti, singoli o associati, ivi compresi gli enti pubblici territoriali e le regioni, possono invece agire, in forza dell’art. 2043 c.c., per ottenere il risarcimento di qualsiasi danno patrimoniale, ulteriore e concreto, che abbiano dato prova di aver subito dalla medesima condotta lesiva dell’ambiente in relazione alla lesione di altri loro diritti patrimoniali, diversi dall’interesse pubblico e generale alla tutela dell’ambiente come diritto fondamentale e valore a rilevanza costituzionale>>[1].Sancita, quindi, la risarcibilità del danno patrimoniale, la giurisprudenza successiva[2] estese la tutela anche al danno di natura non patrimoniale. Quest’ultima trova la propria (scarna) disciplina, come noto, nell’art. 2059 cod. civ. che riserva, in generale, alla legge l’individuazione delle ipotesi di risarcimento. Esso, cioè, è tipico, al contrario del danno patrimoniale ex art. 2043 cod. civ. caratterizzato dall’atipicità dell’espressione <<qualunque fatto…>>, tale che l’ingiustizia del danno ultimo citato possa essere determinata dalla lesione di qualsiasi interesse giuridicamente rilevante. Quanto al caso del danno ambientale, innanzitutto, occorre rilevare come sia la stessa disposizione normativa del T.u. (art. 313, c. 7, secondo periodo) a fare espressa menzione di un’ipotesi di danno di natura non patrimoniale – il danno alla salute – quale titolo risarcibile per i soggetti danneggiati (ovviamente, è ipotesi esclusiva del danneggiato persona fisica). Inoltre, la medesima disposizione, nel testuale riferimento ai soli diritti alla salute e di proprietà, «non esprimerebbe in modo chiaro e univoco l’intento di escludere altri possibili pregiudizi (patrimoniali e non, sembrando piuttosto quel riferimento aver valore solo esemplificativo, specie in presenza del successivo più generico riferimento ai “diritti” ed “interessi lesi” »[3] .Orbene, la giurisprudenza civile ha sancito il significato di danno non patrimoniale come “danno determinato dalla lesione di interessi inerenti alla persona non connotati da rilevanza economica”, anche in capo alle persone giuridiche, tra cui vanno compresi gli enti territoriali esponenziali, sub specie di pregiudizi derivanti dalla lesione di diritti della personalità compatibili con l’assenza di fisicità quali il diritto all’esistenza, all’identità, al nome, alla reputazione, all’immagine[4].L’ipotesi, di tal specie, più ricorrente riconosciuta dalla giurisprudenza è il danno all’immagine «rappresentato dalla diminuzione della considerazione della persona giuridica o dell’ente nel che si esprime la sua immagine, sia sotto il profilo della incidenza negativa che tale diminuzione comporta nell’agire delle persone fisiche che ricoprano gli organi della persona giuridica o dell’ente e, quindi, nell’agire dell’ente, sia sotto il profilo della diminuzione della considerazione da parte dei consociati in genere o di settori o categorie di essi con le quali la persona giuridica o l’ente di norma interagisca»[5]. Riassumendo, quindi, ad oggi, la stratificazione di tutte queste pronunce di legittimità ha comportato, fermo il monopolio statale per il risarcimento del danno ambientale di natura pubblica, il riconoscimento del diritto a favore di tutti gli altri soggetti, singoli o associati, ivi compresi gli Enti locali e le Regioni, ad agire in forza dell’art. 2043 c.c., per ottenere il risarcimento di qualsiasi danno patrimoniale, ulteriore e concreto, che abbiano dato prova di aver subito dalla medesima condotta lesiva dell’ambiente (in relazione alla lesione di altri loro diritti particolari, diversi dall’interesse pubblico e generale alla tutela dell’ambiente); così come il diritto di agire per il risarcimento del danno non patrimoniale, avente tuttavia le medesime caratteristiche del precedente quanto alla estraneità al danno ambientale di natura pubblica. Nell’accertamento di tale voce di danno il giudice dovrà verificare, sulla base della concreta allegazione di parte, la sussistenza di esso, consistente nel pregiudizio arrecato all’attività da detti soggetti effettivamente svolta per la valorizzazione e la tutela del territorio sul quale incidono i beni oggetto del fatto lesivo[6]. Alla luce di quanto esposto risulta che le associazioni ambientaliste sono legittimate ad agire per ottenere il risarcimento del danno ambientale iure proprio quando siano portatrici di interessi territorialmente determinati e che si assumano concretamente lesi dall’evento dannoso. Proprio in ragione di queste caratteristiche l’Associazione Legambiente Regione Puglia si era vista accogliere la propria domanda di costituzione di parte civile nel processo penale a carico di Emilio Riva e Luigi Capogrosso condannati per reati ambientali commessi in qualità di proprietari dello stabilimento Ilva di Taranto; la sentenza penale pur dichiarando estinti i reati aveva mantenuto ferme le statuizioni civili condannando gli imputati a risarcire l’associazione ambientalista per il danno subito iure proprio demandandone la quantificazione al successivo provvedimento del Giudice Civile. Orbene, con atto di citazione l’associazione ambientalista adiva il Tribunale Civile di Taranto per sentir quantificato il risarcimento del danno disposto in proprio favore. Con sentenza n. 508/2017 il Tribunale Civile di Taranto, dopo aver riconosciuto che l’effetto dannoso per Legambiente è stato quello di veder vanificati i propri sforzi nel cercare di offrire livelli accettabili di vivibilità, ha ritenuto di quantificare il danno in via equitativa ex art. 1226 c.c., ovvero, in € 30.000, Tale statuizione lascia aperto il problema della quantificazione del danno risarcibile iure proprio all’associazione ambientalista in quanto se da un lato, la difficoltà di prova del danno rende la quantificazione in via equitativa l’unica strada percorribile, dall’altro, risulta indispensabile individuare dei criteri tabellari-quantificativi che, secondo certezza e tipicità, siano volti a garantire un’adeguata tutela giuridica per reati ambientali. Per ottenere il risultato desiderato è opportuno ricorrere al criterio di matrice giurisprudenziale dell’equità calibrata, secondo cui la misura del risarcimento dovrebbe essere proporzionale alla gravita dell’evento (reato) che ha cagionato il danno non patrimoniale così da poter essere modulato in ragione del tipo di lesione inflitta, quanto, del rango del bene giuridico tutelato dalla norma violata. Al fine di addivenire ad una quantificazione del danno in via equitativa sarebbe opportuno che il Tribunale tenesse conto di analoghe determinazioni operate da altri organi di giustizia. A titolo esemplificativo, in tema, una pronuncia utile alla gradazione e quantificazione del danno ambientale in via equitativa potrebbe essere individuato nella sentenza del 05.04.2012 del Tribunale di Venezia con cui, la Syndial, società del gruppo ENI, è stata condannata a pagare alla Provincia di Venezia la somma di € 700.000,00, statuendo che: «Il danno […], patito dalla collettività della provincia di Venezia, anche non patrimoniale, viene sicuramente ravvisato non solo e non tanto nel danno all’immagine – che la Provincia ha ricevuto dalla condizione attrazione turistica, e che deve fare i conti con pesanti ricadute sulla salubrità dell’ambiente – ma anche nel danno derivante dal pesante fattore di rischio che la contaminazione ha causato sulle prospettive di salute dei suoi cittadini e dal peso sociale di tali ricadute, anche in termini di risorse che la comunità locale dovrà investire e destinare nel futuro, avendo il fattore inquinante già prodotto i suoi effetti dannosi in ambito locale e quindi non risultando suscettibile di bonifica». Pertanto, il Tribunale Civile di Taranto oltre a non aver parametrato la propria decisione, tenendo conto di quelle assunte dalla giurisprudenza in casi analoghi, appare non aver adeguatamente considerato neppure gli effetti lesivi che Legambiente ha subito per diretta conseguenza dei reati commessi dagli amministratori di Ilva S.p:A.: Se infatti i convenuti non avessero reiterato nella commissione di svariati reati, come quelli di natura ambientalistica, condotte che sulla città di Taranto e sui suoi cittadini hanno recato segni visibili e irreversibili, ed avessero realizzato la propria attività industriale nei limiti di legalità imposti dalla legge e di normali tollerabilità delle immissioni di fumi e/o materiali inquinanti, i quartieri limitrofi allo stabilimento ed i loro abitanti avrebbero potuto godere di migliori condizioni di vita. Ciò al fine di consentire all’associazione ambientalista di ritenere realizzabili o, quantomeno, non del tutto cancellati i propri scopi sociali e burocratici secondo legalità e buon senso. Da tutto quanto innanzi esposto si evince che il fondamento di cui all’art. 1226 c.c. è quello di offrire ristoro monetario, per lo più simbolico poiché non restitutivo dei valori come quello della salute e della dignità sociale, per il verificarsi di eventi di danno ambientale. Chi riveste il ruolo di Giudicante, a fronte della singola fattispecie concreta, dovrebbe avere contezza dei precedenti giurisprudenziali, riferiti alle singole patologie di danno non patrimoniale portate all’esame legislativo e dovrebbe “procedere a una modulazione proporzionale secondo la tesi dell’equità calibrata” tra interesse leso e diritto risarcitorio. Operando nel rispetto dei succitati criteri, l’equità posta alla base dell’art. 1226 c.c assumerebbe i connotati di “adeguatezza” e di “proporzione” per garantire l’intima coerenza dell’ordinamento, assicurando che casi uguali non siano trattati in modo diseguale, con eliminazione delle “disparità di trattamento” e delle “ingiustizie” (così Cass., 7/6/2011, n. 12408: “equità non vuoi dire arbitrio, perchè quest’ultimo, non scaturendo da un processo logico-deduttivo, non potrebbe mai essere sorretto da adeguata motivazione. Alla nozione di equità è consustanziale l’idea di adeguatezza e di proporzione. Ma anche di parità di trattamento”).
In conclusione, a carattere meramente personale, ci si auspica più sensibilizzazione (istituzionale, sociale, collettiva e individuale) nella punibilità di chi, come singolo o come persona giuridica, commetta o continui a commettere crimini ambientali che in alcun modo possono restare impuniti poiché hanno irreversibili conseguenze sui diritti costituzionalmente garantiti. Tra questi, la tutela dell’eco-sistema in ogni sua singola composizione; del diritto alla vita; alla salute; al lavoro. Noi, nella nostra veste di operatori del diritto, dobbiamo continuare a credere nel senso della giustizia, che sia penale o civile, e ad apportare il nostro contributo, pratico e non, nelle aule di giustizia affinché chi veste abiti politici o legislativi crei linee guida e riferimenti normativi caratterizzati dai requisiti della chiarezza, severità e adeguatezza. Nonostante i diversi e irrisolti tumulti burocratici, territoriali e nazionali, speriamo che la grigia realtà Tarantina possa iniziare ad essere di primaria ed effettiva importanza e, non solo, un fenomeno di sterile allarmismo informativo.
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[1] Cass. pen., Sez. III, 21/10/2010, n. 41015.
[2] Cass. pen., Sez. III, 12/01/2012, n.633; Sez. III, 17/01/2012, n. 19437 del e Sez. IV, 27/05/2014, n.24619.
[3] Cass. pen., Sez. IV, 27/05/2014, n. 24619.
[4] Cfr. Cass. civ., Sez. I, 10/07/1991, n. 7642; Sez. 1, 05/12/1992, n. 12951; Sez. III, 03/03/2000, n. 2367; Sez. I, 02/08/2002, n. 11600 ; Sez. I, 29/10/2002, n. 15233, Sez. I, 13/02/2003, n. 2130; Sez. I, 10/04/2003, n. 5664; Sez. I, 16/04/2003, n. 6022; Sez. I, 11/02/2004, n. 2570 ; Sez. III, 26/06/2007, n. 14766.
[5]Cass. civ., Sez. III, 22/03/2012, n. 4542; Sez. III, 04/06/2007, n. 12929.
[6] Cass. pen., Sez. III, 26.09.2011, n. 34761. Trib. Venezia 5.4.2012
* Contributo programmato nel CORSO DI FORMAZIONE DI ALTA SPECIALIZZAZIONE IN DIRITTO AMBIENTALE – Organizzato dall’Anf Taranto. (Gli altri contributi sono in lavorazione editoriale e saranno pubblicati prossimamente).